Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20377 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. II, 26/07/2019, (ud. 12/12/2018, dep. 26/07/2019), n.20377

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7319/2017 proposto da:

O.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Di San

Valentino 21, presso lo studio degli avvocati Francesco Carbonetti e

Roberto Della Vecchia, che lo rappresentano e difendono in virtù di

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Consob – Commissione Nazionale Per Le Società e La Borsa,

elettivamente domiciliata in Roma Via G.B. Martini 3 presso lo

studio degli avvocati Salvatore Providenti, Paolo Palmisano ed

Annunziata Palombella, che la rappresentano e difendono giusta

procura a margine del controricorso;

Ministero dell’economia e delle Finanze, domiciliato ex lege in Roma

alla Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato

che lo difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso il decreto n. 1972/2016 della Corte d’appello di Lecce,

depositato il 16/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/12/2018 dal Consigliere Dott. Annamaria Casadonte;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato Marco Fraccolini per delega dell’Avvocato Carbonetti

che ha concluso per il ricorrente come in atti e l’Avvocato

Providenti per Consob che ha concluso come in atti nonchè

l’Avvocato Pio Marrone per l’Avvocatura dello Stato che ha concluso

come in atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 30 maggio 2005 n. prot. 59326 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha irrogato, in accoglimento della proposta Consob, delle sanzioni amministrative a 43 esponenti aziendali e dipendenti della Banca del Salento – Credito Popolare Salentino – Banca 121 S.p.A., tra cui anche l’odierno ricorrente, quale ex componente del consiglio di amministrazione, a seguito di alcuni accertamenti di vigilanza condotti dalla Consob, aventi ad oggetto la verifica dell’idoneità delle procedure e degli assetti organizzativi per lo svolgimento dell’attività di vendita di prodotti finanziari complessi (piani finanzi e prodotti compositi).

2. In particolare il ricorrente era stato sanzionato per la violazione: a) del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1, lett. a), per non essersi, quale intermediario, comportato con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;

b) del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1, lett. d) ed art. 56 del Reg. Consob n. 11522/1998 per non essersi dotato di procedure idonee a garantire l’efficiente, ordinata e corretta prestazione del servizio;

c) dell’art. 26, comma 1, lett. e) del Reg. Consob n. 11522/1998 per non avere acquisito una conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi, nonchè dei prodotti diversi dai servizi di investimento, propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo di prestazione da fornire;

d) dell’art. 28 del Reg. Consob n. 11522/1998 per non avere effettuato o consigliato operazioni se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulla implicazione della specifica operazione del servizio la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento;

e) dell’art. 69, comma 1, lett. c) del Reg. n. 11522/98 per non avere rispettato l’obbligo di conservare, per almeno un quinquennio dalla data di cessazione dei rapporti con gli investitori, i contratti, la corrispondenza e la documentazione di cui al medesimo regolamento.

3. O.G. proponeva opposizione avverso tale decreto e nella resistenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Consob, la Corte d’Appello di Lecce con decreto del 13/10/2006 accoglieva l’opposizione ritenendo violato il termine massimo di novanta giorni per la conclusione del procedimento tenuto conto della data della proposta della Consob, rilevando che tale proposta era pervenuta al Ministero il 17/12/2004 e che il provvedimento. sanzionatorio era stato adottato solo in data 1/6/2005.

3.1. Inoltre reputava che poichè l’inosservanza di tale termine comportava un vizio sostanziale del provvedimento era inapplicabile la L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, che aveva considerato i vizi formali quali mere irregolarità.

4. Su ricorso del Ministero e della Consob, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25838 del 2011 ha ritenuto che il vizio costituito dal mancato rispetto del detto termine era irrilevante attesa la natura vincolata del provvedimento impugnato e la immodificabilità del relativo contenuto, richiamando a tal fine quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 20929/2009. Inoltre riteneva che l’art. 21 octies citato, introdotto con la L. n. 15 del 2005, art. 14, aveva carattere di norma processuale ed era quindi applicabile retroattivamente.

4.1. Per l’effetto, in accoglimento del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso ha cassato il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce.

5. L’ O. riassumeva il giudizio, riportandosi ai motivi di opposizione e, sempre nella resistenza del Ministero e della Consob, la Corte d’Appello di Lecce con Decreto 16 settembre 2016, n. 1972, ha parzialmente accolto l’opposizione, limitatamente alla quantificazione delle sanzioni, rideterminandole in Euro 24.700,00, compensando per il 5% le spese di lite, e ponendo la residua parte, per i vari gradi di giudizio, a carico dell’opponente.

6. O.G. ha proposto ricorso avverso tale decreto sulla base di sette motivi illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c.. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Consob hanno resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del principio del favor rei in relazione agli artt. 190 bis e 194 quater TUF, come modificati dal D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72.

1.1. Deduce che alla stregua della disciplina sopravvenuta le violazioni imputategli sono da ascrivere all’intermediario ed al contempo che non sussistono i presupposti perchè ex art. 190 bis, comma 1, lett. a), TUF gli possano essere addebitate, in quanto mentre la norma vigente alla data dei fatti, e precisamente l’art. 190, prevedeva la responsabilità anche a carico dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e direzione, quale appunto il ricorrente, a seguito della novella del 2015, non è più contemplata la responsabilità ai sensi di tale norma degli esponenti aziendali, per i quali è invece applicabile l’art. 190 bis, che ancora però la responsabilità alla ricorrenza di specifici presupposti, che nella fattispecie non sussistono.

1.2. Si assume quindi che alla luce dei criteri enunciati dalla Corte E.D.U. la sanzione irrogatagli ha natura sostanzialmente penale.

1.3. Con lo stesso motivo il ricorrente denuncia inoltre, qualora si neghi l’applicazione del principio del favor rei, l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, per contrasto con l’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non prevede l’applicazione del principio del favor rei con riferimento alle sanzioni amministrative – sostanzialmente penali – irrogate antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso D.Lgs. n. 72 del 2015.

1.4. Lamenta, in particolare, che è patente la violazione dell’art. 3 Cost.; che invero il principio del favor rei è espressamente sancito in settori dell’ordinamento contigui a quello de quo agitur.

1.5. Deduce, infine, che l’irragionevolezza della scelta legislativa espressa dal D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, è viepiù manifesta alla luce delle indicazioni di cui alla legge – delega.

1.6. Il motivo deve essere disatteso.

1.7. Ai sensi del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, “le modifiche apportate alla parte V del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 196-bis. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente D.Lgs.”.

1.8. Nel caso di specie si è innegabilmente al cospetto di violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni che la “Consob” è deputata ad emanare (il provvedimento sanzionatorio è datato 30.5.2005), il cui varo, cioè, è alla medesima commissione demandato.

1.9. Il riferimento ratione temporis dunque è da farsi alla disciplina del t.u.f. antecedente alla novella di cui al D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72.

1.10. Più esattamente questa Corte di legittimità non può che reiterare il proprio insegnamento secondo cui le modifiche alla parte V del D.Lgs. n. 58 del 1998, apportate dal D.Lgs. n. 72 del 2015, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla “Consob” (ovvero della “Banca d’Italia”), in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio cosiddetto del “favor rei”, di matrice penalistica, non. si estende in assenza di una specifica disposizione normativa alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde invece al distinto principio del “tempus regit actum” (cfr. Cass. 2.3.2016, n. 4114; Cass. 30.6.2016, n. 13433; Cass. 9.8.2018, n. 20689. Si veda anche Cass. (ord.) 28.12.2011, n. 29411, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore).

1.11. Va soggiunto che nelle stesse occasioni dapprima menzionate (il riferimento è a Cass. 2.3.2016, n. 4114, e a Cass. 30.6.2016, n. 13433) questo Giudice ha specificato che la surriferita interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte E.D.U. con la sentenza 4.3.2014 (“Grande Stevens ed altri c/o Italia”), giacchè tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale; di conseguenza ha concluso per l’irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost..

1.12. Va pertanto ribadita la giurisprudenza di questa Corte,,che proprio in relazione alla medesima questione investita dal motivo in esame, ha affermato che (Cass. n. 26131/2015) in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del TUF apportate dal D.Lgs. n. 72 del 2015, relative alle condizioni di responsabilità dell’esponente aziendale per le violazioni di cui all’art. 190 del TUF) non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione della Consob e della Banca d’Italia, in tal senso disponendo il medesimo D.Lgs. n. 72, art. 6 e ciò a prescindere dalla questione della retroattività “in mitius” (e ciò anche a voler soprassedere circa le condivisibili considerazioni del giudice di merito che evidenziano come, tenuto conto degli importi delle sanzioni applicabili, anche alla luce delle varie norme medio tempore modificate, e soprattutto dell’assenza di sanzioni amministrative accessorie comminate invece dagli artt. 187 bis e 187 ter, non ricorrano le condizioni di diritto per poter affermare la natura sostanziale penale delle sanzioni correlate agli illeciti amministrativi contestati al ricorrente).

1.13. Tali ultime puntualizzazioni ovviamente esplicano valenza – segnandone, appunto, la manifesta infondatezza – in ordine alla questione di legittimità costituzionale che l’ O. con il primo mezzo ha – anche con riferimento all’art. 3 Cost. – inteso sollevare in via subordinata (cfr. altresì Corte Cost. 24.4.2002, n. 140, secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 1, comma 2, nella parte in cui non prevede che, se la legge in vigore al momento in cui fu commessa la violazione e quella posteriore. stabiliscono sanzioni amministrative pecuniarie diverse, si applichi la legge più favorevole al responsabile). Si ritiene quindi che tale omessa considerazione sarebbe in contrasto con l’art. 117 Cost., per la violazione della norma interposta rappresentata dalla CEDU, che in relazione alle sanzioni aventi carattere sostanziale penale impone di dover fare applicazione della norma sopravvenuta più favorevole.

1.14. Infine si sostiene che la previsione sarebbe anche in contrasto con l’art. 3 Cost., per la violazione del principio di ragionevolezza, sollecitandosi quindi questa Corte a sollevare, questione di legittimità costituzionale della norma che ha escluso l’applicazione del diritto sopravvenuto alle violazioni commesse in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.

1.15. La doglianza si palesa infondata sempre alla luce della ribadita impossibilità di attribuire alla sanzione de qua carattere sostanzialmente penale alla luce dei principi CEDU.

1.16. Ne deriva che tale affermazione mina alla radice l’intero impianto argomentativo del ricorrente, che evidentemente presuppone la qualificazione in termini sostanziali penali della sanzione de qua.

1.17. La negazione di tale carattere, e la riaffermazione del carattere strettamente amministrativo dell’illecito oggetto del procedimento in esame, comportano che debba farsi applicazione del tradizionale principio di questa Corte (fr. ex multis Cass. n. 29411/2011) per il quale in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore.

1.18. Tale impostazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative comminate dalla Consob sui medesimi fatti violerebbe il principio del “ne bis in idem”, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost..

1.19. Trattasi peraltro di conclusioni che sono confortate anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale con la pronuncia n. 193 del 20/7/2016, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., art. 117 Cost., comma 1, artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui – nel definire il principio di legalità che consente di irrogare sanzioni amministrative solo in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione e nei casi e per i tempi ivi considerati – non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi.

In tal senso ha osservato che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritto dell’uomo, che ha enucleato il principio di retroattività della legge penale meno severa, non ha mai avuto ad oggetto il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale. L’invocato intervento additivo risulta travalicare l’obbligo convenzionale e disattende la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione come convenzionalmente penale. Nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio di retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative. Nè sussiste un analogo vincolo costituzionale poichè rientra nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore. Il differente e più favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni, come quelle tributarie e valutarie, trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non può trasformarsi da eccezione a regola, coerentemente con il principio generale di irretroattività della legge e con il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali (artt. 11 e 14 preleggi). Trattasi peraltro di considerazioni che trovano riscontro anche nella più recente decisione della Corte Costituzionale n. 43 del 2017, che nel ritenere infondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4, sollevate, in riferimento all’art. 3, art. 25, comma 2 e art. 117, comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede la propria applicabilità alle sentenze irrevocabili con le quali è stata inflitta una sanzione amministrativa qualificabile come “penale” ai sensi del diritto convenzionale, ha ribadito che anche per le sanzioni qualificate come amministrative dal diritto interno, ma suscettibili nell’ottica convenzionale di essere individuate come aventi carattere penale, non è possibile reputare automaticamente estese alle stesse le garanzie che l’ordinamento statuale riserva alle sole sanzioni penali così come qualificate dall’ordinamento interno, palesandosi quindi legittima la differente applicazione delle regole in tema di ius superveniens favorevole in relazione agli illeciti amministrativi, anche laddove siano qualificabili come penali in base alle norme CEDU.

1.20. Le superiori considerazioni consentono quindi di affermare che, proprio in ragione dell’esclusione della natura penale delle sanzioni in esame, non si profila nemmeno un ipotetico vizio di eccesso di delega (tenuto conto che la legge in questione affidava al legislatore delegato una valutazione autonoma in merito all’opportunità di estendere il principio del favor rei a seguito della novella, valutazione che però, in assenza di una sanzione qualificabile come penale, non imponeva a rime obbligate la sua attuazione), nè appare configurabile la dedotta violazione degli artt. 117 e 3 Cost., dovendosi quindi disattendere la richiesta di sollevare la questione di legittimità costituzionale, da ritenere peraltro manifestamente infondata proprio alla luce della motivazioni del precedente della Consulta sopra indicato.

1.21. Si tenga conto, comunque, pur ad opinare per l’applicabilità ex officio (cfr. Cass. sez., lav. 17.3.2014, n. 6101) della legge sopravvenuta più mite, che la qualificazione della regolamentazione introdotta ex novo nel TUF dal D.Lgs. n. 72 del 2015, quale disciplina più blanda postulerebbe il riscontro della concreta sussistenza delle condizioni di cui al novello art. 190 bis, comma 1 TUF. E tuttavia un simile accertamento imporrebbe a questo Giudice del diritto indagini ed accertamenti di fatto sicuramente preclusi (cfr. Cass. 25.10.2017, n. 25319, secondo cui nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio; Cass. 13.9.2007, n. 19164).

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione in relazione al procedimento di opposizione al provvedimento sanzionatorio dei principi del “giusto processo” ex art. 6 C.E.D.U.Denuncia ancora l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, per contrasto con l’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui si limita a prevedere, per i giudizi ex art. 195 TUF pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso D.Lgs., che le udienze sono pubbliche.

2.1. Assume che il carattere pubblico dell’udienza non vale di per sè a garantire il rispetto dei principi del “giusto processo”.

2.2. Osserva segnatamente che permane impregiudicata, tanto più in considerazione della natura sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate, la inidoneità del rito ex art. 195, comma 7, TUF ad assicurare l’esigenza che la prova si formi dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e della “parità delle armi”, sì da porre rimedio “ai vizi della fase amministrativa, svolta in violazione dei principi del giusto procedimento”.

3. Il terzo motivo lamenta poi che il decreto impugnato sarebbe illegittimo per violazione dell’obbligo di udienza pubblica di cui all’art. 6 CEDU nonchè del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, nella parte in cui prevede che per i giudizi promosso ai sensi dell’art. 195 TUF e pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso D.Lgs. n. 72 del 2015, le udienze siano pubbliche.

3.1. Si rileva, in particolare che attesa la significativa ed imprescindibile rilevanza che assume la pubblicità delle udienze, nella fattispecie, in sede di rinvio, l’udienza era stata inizialmente celebrata in camera di consiglio e, solo dopo che i difensori avevano discusso, il Collegio aveva disposto la rinnovazione dell’udienza nelle forme dell’udienza pubblica, come risulta dal verbale di udienza del 26 aprile 2016.

3.2. Trattasi però di una rinnovazione postuma, avvenuta allorquando la discussione si era già esaurita, con la conseguenza che i difensori del ricorrente avevano rinunciato a rinnovare la discussione nelle forme dell’udienza pubblica, risultando la stessa del tutto vana.

3.3. I due motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione sono infondati.

3.4. Questa Corte non può che ribadire il proprio insegnamento. Ovvero che la denuncia di un vizio correlato alla pretesa violazione di norme processuali non è volta alla salvaguardia dell’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma propriamente all’eliminazione del concreto pregiudizio che la parte in conseguenza della denunciata violazione abbia sofferto; ne discende che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti la menomazione del diritto di difesa senza specificazione del concreto pregiudizio che alla.parte sia derivatoo (cfr. Cass. 9.8.2017, n. 19759; Cass. 23.2.2010, n. 4340).

3.5. In questi termini a nulla vale prospettare, senza specificazione del pregiudizio in concreto subito, che “la procedura che.ha continuato od essere applipata ai procedimenti di opposizione ex art. 195 T.U.F. pendenti al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, salva la variante dell’udienza pubblica, non è comunque idonea a rispettare le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione (E.D.U.)”.

3.6. Inoltre è quanto meno priva di concreta rilevanza la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, prefigurata con il mezzo di impugnazione in esame.

3.7. La stessa carenza di specificità attinge poi anche il terzo motivo, che risulta del tutto privo della puntuale indicazione del pregiudizio che in concreto avrebbe subito la difesa del ricorrente per effetto dell’iniziale celebrazione dell’udienza nelle forme camerali, avendo la Corte distrettuale, come si ricava anche dalla lettura del punto 1. del provvedimento gravato, invitato i difensori delle parti a rinnovare l’udienza nelle forme richieste dalla novella, inviato rimasto senza esito, avendo la stessa difesa del ricorrente rinunciato ad avvalersi di tale facoltà, denotando in tal modo come non si fosse verificato alcun concreto attentato all’esperimento dell’attività difensiva.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato in dipendenza dell’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, siccome a sua volta assunto in violazione dei principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie di cui all’art. 195, comma 2, TUF e di cui alla L. n. 262 del 2005, art. 24, comma 19.

4.1. Deduce che il procedimento sanzionatorio amministrativo innanzi alla “Consob” non rispetta i principi, di imprescindibile applicazione, del “giusto procedimento”; che in ogni caso nell’ambito del procedimento sanzionatorio amministrativo “non è stato posto in condizioni di difendersi”.

4.2. Sostiene altresì che non appare soddisfacente una ricostruzione che “legittimi un procedimento amministrativo “ingiusto” a fronte di un (eventuale) processo di opposizione “giusto”, in funzione riparatoria”.

4.3. Il motivo è infondato.

4.4. Va in primo luogo ribadito l’insegnamento di questa Corte secondo cui il procedimento sanzionatorio de quo non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione E.D.U., perchè questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (cfr. Cass. 14.12.2015, n. 25141; Cass. 9.8.2018, n. 20689).

4.5. In secondo luogo va richiamato l’orientamento secondo cui, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 septies, postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; pertanto, non è violato il principio del contraddittorio nel caso di omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della “Consob”, o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando d’altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento giurisdizionale (cfr. Cass. 4.9.2014, n. 18683; Cass. 22.4.2016, n. 8210).

4.6. Ed, invero, deve richiamarsi l’orientamento espresso da questa Corte, anche dopo l’intervento della CEDU invocato da parte ricorrente, per il quale in relazione alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle di cui all’art. 187 ter TUF, sulle quali si è espressamente pronunciata la richiamata sentenza Grande Stevens, non è possibile la loro equiparazione, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicchè esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, nè pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del “ne bis in idem” tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti (cfr. Cass. Sez. 1, 30/06/2016, n. 13433; Cass. Sez. 1, 02/03/2016, n. 4114; Cass. Sez. 2, 24/02/2016, n. 3656, tutte in rapporto a Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).

4.7. In tal senso si veda anche Cass. n. 1205/2017 che, in risposta alla deduzione secondo cui l’articolazione del procedimento sanzionatorio dinanzi alla CONSOB soffrirebbe una ingiustificabile cessazione dell’interlocuzione consentita all’interessato proprio alle soglie della fase decisionale, quando l’interesse allo svolgimento delle proprie ragioni è massimo, non essendogli data la possibilità di formulare deduzioni sulla proposta,dell’Ufficio Vigilanza Intermediari (che non gli viene trasmessa), nè tantomeno essendo ammesso ad una qualsivoglia forma di contraddittorio dinanzi alla Commissione, nel richiamare i principi già a suo tempo esposti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20935 del 2009, in tema di rispetto del principio del contraddittorio, ha ritenuto che gli stessi vadano mantenuti fermi, nonostante le indicazioni offerte dalla Corte EDU con la sentenza 4 marzo 2014 Grande Stevens c. Italia.

4.8. Infatti, depone a favore di tale soluzione la circostanza che nella medesima sentenza, sulla scorta della pregressa giurisprudenza della stessa Corte EDU, si è precisato che le carenze di tutela del contraddittorio che caratterizzino un procedimento amministrativo sanzionatorio non consentono di ritenere violato l’art. 6 della Convenzione EDU quando il provvedimento sanzionatorio sia impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, che sia dotato di giurisdizione piena e che conosca dell’opposizione in un procedimento che garantisca il pieno dispiegamento del contraddittorio delle parti (punti 138 e 139).

4.9. Per l’effetto, anche a voler sostenere che le sanzioni irrogate dal Ministero, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua dei criteri elaborati dalla Corte EDU, natura sostanzialmente penale (il che non è per quelle oggetto di disamina nella fattispecie, attesa la diversa gravità rispetto a quelle irrogate ai sensi dell’art. 187 ter, dovendosi a tal fine tenere conto anche dell’assenza di sanzioni accessorie e della mancata previsione di una confisca obbligatoria, elementi questi che invece erano presenti nella fattispecie scrutinata dalla Corte EDU nel precedente richiamato), deve ritenersi che l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (anche all’esito di un procedimento che si vuole non connotato dalle garanzie del contraddittorio) ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della Convenzione, esclude che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 della Convenzione, e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità, dovendosi più correttamente opinare nel senso che il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione, risulta all’origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo.

4.10. Nel caso in esame l’impugnabilità delle deliberazioni sanzionatorie adottate dal Ministero davanti alla Corte di appello territorialmente competente, e cioè dinanzi ad un giudice indipendente ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e davanti al quale è garantita la pienezza del contraddittorio e la pubblicità dell’udienza implica la legittimità dello stesso procedimento sanzionatorio e l’infondatezza del motivo in esame (cfr. da ultimo Cass. n. 770/2017, ai sensi della quale anche nel caso di sanzioni amministrative, che abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa – nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria ovvero mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio – adottato in assenza di tali garanzie – ad un. sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l’effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacchè la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale).

4.11. Nè, infine, sotto altro aspetto, nel presente giudizio possono rilevare le affermazioni svolte nelle pronunce del Consiglio di Stato (in particolare quella n. 1596/15) in ordine alla illegittimità del procedimento sanzionatorio della CONSOB (v., ancora, il citato precedente di questa Corte n. 8210 del 2016), tanto più che dette valutazioni non si sono tradotte in alcuna statuizione di annullamento del regolamento contenente la previgente disciplina del procedimento sanzionatorio CONSOB, giacchè il decisum della sentenza del Consiglio di Stato n. 1596/15 si risolve in una declaratoria di inammissibilità del ricorso delle parti private per carenza di interesse.

5. Il quinto motivo di ricorso denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’assenza di motivazione in merito a fatti decisivi relativi alla responsabilità personale del signor O. in quanto basata su fatti accaduti al di fuori del periodo di carica rilevante individuato dal provvedimento sanzionatorio e/o comunque al di fuori del periodo di permanenza in carica del sig. O..

5.1. Ci si riferisce, in particolare al periodo individuato dal Ministero e dalla Consob in quello dal 29/7/2000 al 21/1/2001 che invece sarebbe, nella decisione della Corte d’appello esteso dal 29 luglio 2000 al 22 dicembre 2002, finendo per…imputare allo stesso fatti oggetto di reclami risalenti a…periodi in cui egli non sarebbe stato in carica.

5.2. La doglianza è infondata perchè è irrilevante ai fini della responsabilità la circostanza che il reclamo sia stato presentato dopo la cessazione della carica.

5.3. Il fatto scatenante non è infatti, il reclamo nè la relazione del 5/4/2001 che fanno solo emergere le conseguenze dei comportamenti omissivi che si sono verificati durante la vigenza della carica.

6. Con il sesto motivo di deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato per violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo e dell’art. 2392 (nella versione all’epoca vigente) in ordine all’obbligo di vigilanza dei consiglieri non esecutivi.

6.1. Infatti, richiamata la necessità che l’illecito amministrativo sia connotato comunque da dolo o colpa, si sostiene che sarebbe carente la dimostrazione dell’elemento soggettivo, non potendosi affermare la responsabilità dell’amministratore non esecutivo che abbia diligentemente operato nel rispetto dei propri doveri di vigilanza.

6.2. Anche tale motivo va disatteso.

6.3. Assume il ricorrente che, alla luce dell’applicazione della previgente disposizione di cui all’art. 2392 c.c., pacificamente applicabile alla vicenda ratione temporis, sarebbe erroneo quanto ritenuto dal giudice di merito circa l’impossibilità di tenere conto della distinzione tra amministratore delegato e mero componente del consiglio di amministrazione.

6.4. Pur dando atto dell’orientamento delle Sezioni Unite (Cass. n. 20933/2009) secondo cui il componente del consiglio di amministrazione, chiamato a rispondere per omissione di vigilanza, non può esimersi da responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito erano state poste in essere, con ampia autonomia, da altro soggetto che aveva agito per conto della società, ritiene che però sia stata dimostrata la correttezza del proprio operato facendo richiamo alla circostanza che in numerose circostanze era intervenuto nel consiglio di amministrazione segnalando le criticità ed avviando iniziative volte a porre rimedio alle stesse.

6.5. Rileva il Collegio che il decreto impugnato, dopo avere dato atto che l’ O. era divenuto componente del consiglio di amministrazione a far data dal 29/7/2000, ha altresì sottolineato come l’aggressiva politica di commercializzazione dei detti prodotti fosse proseguita in maniera significativa anche in epoca successiva all’assunzione dell’incarico, e ciò nella piena evidenza delle anomalie che li connotavano (circostanza questa che rendeva irrilevante che per almeno tre prodotti l’ideazione e 10inzale commercializzazione fossero anteriori all’ingresso del ricorrente nel detto consiglio).

6.6. Il decreto ha altresì evidenziato come alcuna rilevanza potesse avere ai fini dell’esonero da responsabilità l’incarico conferito alla società di consulenza Nike Consulting, attesa l’ampiezza dell’incarico stesso che non permetteva di potersi concentrare sui profili di criticità che hanno indotto all’irrogazione delle sanzioni.

6.7. Infine, quanto ai verbali di amministrazione (la cui mancata produzione è stata rilevata da parte del giudice del rinvio, impedendo quindi di poter rilevare dai documenti la fondatezza delle deduzioni difensive), anche a voler dar credito al resoconto offertone nell’atto di opposizione (laddove si riferisce di avere riprodotto il contenuto alle pagg. 126-130), ritiene il Collegio che la decisione gravata abbia correttamente ravvisato – la responsabilità – del ricorrente non già per la violazione di specifici obblighi gravanti sul soggetto titolare del potere gestorio, ma piuttosto per essere venuto meno proprio ai doveri, che, anche in base alla normativa secondaria del settore bancario,,incombono sul consiglio di amministrazione.

6.8. In tale direzione, la Corte d’Appello ha proceduto alla loro disamina rilevando come dagli stessi emergesse la consapevolezza da parte dell’intero Consiglio di amministrazione delle gravi criticità dell’operato della banca, ritenendo però, all’esito di valutazione in fatto, insuscettibile di sindacato in questa sede, che l’obbligo di vigilanza imposto ai consiglieri di amministrazione non si arrestasse alla mera formulazione di esortazioni, ma imponesse la verifica del loro esito, sollecitando l’adozione di tutte le misure atte a potenziare il controllo sulla rete di collocamento dei prodotti, impedendo quindi in tal modo che fossero collocati, senza le adeguate garanzie di trasparenza e correttezza, anche nel corso degli anni, in cui l’ O. ha ricoperto la detta carica.

6.9. La soluzione raggiunta dal giudice del rinvio, in punto di diritto, risulta quindi conformarsi alla costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha ribadito che (cfr. Cass. n. 6998/2018) l’art. 2392 c.c., nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003, impone a tutti gli amministratori di società per azioni un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno nella ipotesi di attribuzioni proprie di uno o più amministratori, restando anche in tal caso a carico dei medesimi l’onere della prova di essersi diligentemente attivati per porre rimedio alle illegittimità rilevate (conf. Cass. n. 22848/2015; Cass. n. 4114/2016).

7. Il settimo motivo di ricorso denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto per violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1, in materia di parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense.

7.1. Si evidenzia, che la decisione, gravata nello statuire in ordine alle spese di tre gradi di giudizio, accertando la prevalente soccombenza del ricorrente, e pur dichiarando nella liquidazione di volersi avvalere dei valori medi di cui ai parametri dettati dalla citata norma, ha erroneamente fatto richiamo alle tabelle previste per i giudizi ordinari.

7.2. Viceversa, come si ricava anche dalla consultazione dei registri giudiziari presso la Corte d’Appello, la causa era iscritta a ruolo come causa di volontaria giurisdizione, venendo trattata come tale in camera di consiglio, con la conseguenza che la liquidazione delle spese doveva avvenire sulla base dei più contenuti valori previsti per le controversie in materia di volontaria giurisdizione.

7.3. Anche tale motivo deve essere disatteso.

7.4. Ed, inverso, in disparte la contraddittorietà della censura rispetto allo stesso contenuto del ricorso, laddove proprio in ragione dell’idoneità del procedimento in esame ad avere carattere decisorio su posizioni di diritto soggettivo del ricorrente, si richiama la necessità che il procedimento debba assicurare il rispetto delle garanzie processuali proprie del processo ordinario, la tesi sostenuta si fonda su un duplice erroneo presupposto.

7.5. Da un lato fa affidamento sul dato rappresentato dalla registrazione del fascicolo come procedimento di volontaria giurisdizione presso i registri di cancelleria della Corte d’Appello, elemento questo di carattere meramente formale che non può prevalere sull’effettiva sostanza e natura del procedimento, sicchè ove il processo – abbia carattere contenzioso, come deve indubbiamente reputarsi abbai quello in esame, la sola iscrizione tra i procedimenti di volontaria giurisdizione, ma per finalità esclusivamente di cancelleria, ai fini che qui interessano dovrebbe farsi sempre riferimento alla sua effettiva natura.

7.6. Dall’altro si rileva che avrebbe portata decisiva la circostanza della trattazione del procedimento, in occasione della prima opposizione, in camera di consiglio, traendo da ciò la conseguenza che si tratterebbe appunto di procedura di volontaria giurisdizione.

7.7. Tuttavia, va ribadita la necessità di avere riguardo, a prescindere dalle forme di trattazione eventualmente scelte dal legislatore, alla effettiva natura contenziosa o meno del procedimento, come peraltro già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che ha appunto precisato che (cfr. Cass. n. 11503/2010) essendo legittima la condanna alle spese giudiziali nel procedimento promosso in sede di reclamo, ex art. 739 c.p.c., avverso provvedimento reso in Camera di consiglio, atteso che ivi si profila comunque un conflitto tra parte impugnante e parte destinataria del reclamo, la cui soluzione implica una soccombenza che resta sottoposta alle regole dettate dagli artt. 91 c.p.c. e segg., per la relativa liquidazione si applicano gli onorari di cui ai paragrafi I, II, e IV della tabella A del D.M. n. 127 del 2004, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del medesimo D.M., il quale, con riferimento ai procedimenti camerali, prevede l’applicabilità delle tariffe relative ai procedimenti contenziosi, qualora sorgano contestazioni il cui esame è devoluto al giudice di cognizione (in senso conforme Cass. n. 9563/2018, secondo cui, poichè il giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento – ha natura contenziosa, per la liquidazione del compenso del legale si applicano gli onorari di cui ai paragrafi I, II, e IV della tabella A del D.M. n. 127 del 2004, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del medesimo D.M., il quale, con riferimento ai procedimenti camerali, prevede l’applicabilità delle tariffe relative ai procedimenti contenziosi, qualora sorgano contestazioni il cui esame è devoluto al giudice di cognizione).

7.8. L’indubbia insorgenza di contestazioni la cui risoluzione è stata affidata al giudice della cognizione, sebbene inizialmente nelle forme camerali, implica quindi che correttamente la liquidazione sia avvenuta sulla scorta dei parametri dettati per i giudizi ordinari.

8. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quate – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio a favore dei controricorrenti che liquida s favore della Consob in Euro 3200,00 per di cui Euro 200,00 per esborsi, ed a favore del Ministero in Euro 3000,00 oltre spese prenotate a debito, oltre rimborso spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge per la Consob, e spese prenotate a debito per il Ministero.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte, del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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