Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20367 del 28/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/09/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 28/09/2020), n.20367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15469-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

D.G.F., D.G.L., D.M.L., tutti in

qualità di eredi del sig. D.G.V., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA VIGLIENA N. 10, presso lo studio

dell’avvocato SIMONETTA SCALISE, rappresentati e difesi

dall’avvocato PAOLA VALZANO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 335/22/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della PUGLIA SEZIONE DISTACCATA di LECCE, depositata il

07/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 09/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA

CAPRIOLI.

 

Fatto

Ritenuto che:

La CTR della Puglia, con sentenza nr 339/2019, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la pronuncia della CTP di Lecce con cui era stato accolto il ricorso di D.G.V., nella sua qualità di legale rappresentante e socio della Immobiliare Costruzioni Mare-Terra s.n.c. avente ad oggetto l’avviso di accertamento per Irpef anno 2006.

Rilevava che l’atto impugnato doveva ritenersi nullo sulla base di argomentazioni diverse da quelle cui era pervenuto il primo giudice.

Osservava in questa prospettiva che la verifica aveva origine dalla rilevata divergenza fra il valore dichiarato in diverse operazioni di trasferimento immobiliare ed il prezzo di mercato con conseguente addebito dei maggiori ricavi non dichiarati dalla società.

Sottolineava che gli elementi addotti dall’Amministrazione finanziaria a sostegno dei suoi assunti, costituiti essenzialmente dalla stipula di mutui a valori superiori a quelli dichiarati nei rogiti, non avevano trovato corpo nelle risultanze di causa.

In questa prospettiva evidenziava che non per tutti i trasferimenti erano stati stipulati mutui per valori superiori a quelli indicati negli atti cui non aveva comunque concorso la società venditrice.

Osservava poi che gli accertamenti dell’Ufficio si erano basati sulla relazione di stima redatta dall’agenzia del territorio, sulla base del valore normale di riferimento, metodologia non “universamente attendibile già in epoca anteriore all’intervenuta abrogazione dei valori Omi in base alla L. n. 88 del 2009 che recepiva la Direttiva Comunitaria del 2008.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Gli intimati si sono costituiti eccependo l’inammissibilità del ricorso sotto plurimi motivi e comunque l’infondatezza nel merito.

Diritto

Considerato che:

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Lamenta, in particolare, che la CTR avrebbe omesso di pronunciarsi in relazione all’eccepita inammissibilità del ricorso introduttivo sollevato già in sede di controdeduzioni nell’ambito del giudizio di primo grado.

Sostiene infatti che il ricorso presentato dal contribuente sarebbe stato privo dei motivi richiesti a pena di inammissibilità dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18. Con il secondo profilo di censura contesta la violazione dell’art. 132 c.p.c.. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Critica infatti la decisione laddove si sarebbe limitata a riportarsi per relationem alla motivazione della sentenza inerente il ricorso della società senza effettuare una propria valutazione del merito della controversia.

Con il terzo motivo l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’Amministrazione finanziarla si duole che la CTR avrebbe errato nel non prendere in considerazione tutti gli elementi presuntivi indicati nell’atto impositivo.

Osserva infatti che la non veridicità dei dati riportati nell’atto di compravendita si sarebbe fondata oltre che sui valori Omi anche sulla perizia di stima redatta dall’Agenzia del territorio e dal valore dei mutui contratti da alcuni degli acquirenti dei beni.

Devono in via prioritaria esaminarsi le eccezioni di inammissibilità sollevate dai controricorrenti i quali rilevano che il ricorso sarebbe stato sottoscritto da un avvocato non assegnatario dell’affare contenzioso in violazione della L. n. 103 del 1979, art. 19.

Lamentano poi che il predetto ricorso non avrebbe chiesto in modo univoco la cassazione della sentenza in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Le eccezioni sono infondate.

Con riferimento alla prima questione non vi è dubbio che il ricorso è stato sottoscritto da altro avvocato dello Stato, V.A., la cui qualità è dimostrata dall’attestazione dell’Ufficio dell’avvocatura dello Stato, legittimamente prodotta in questa sede ai sensi dell’art. 372 c.p.c., in quanto concernente l’ammissibilità del ricorso.

Giova, per ciò, richiamare la disposizione di cui alla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 1 (a norma del quale gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede senza bisogno di mandato) e la successiva disposizione (art. 19), che consente la sostituzione degli avvocati dello Stato nella trattazione degli affari loro affidati, in caso di assenza, impedimento o giustificata ragione, per concludere che, attesa la consentita sostituibilità degli avvocati dello Stato nelle ipotesi considerate e la loro conseguente fungibilità, legittimamente il ricorso per cassazione, predisposto da un avvocato, possa essere sottoscritto da altro avvocato dello Stato per essere, il primo, assente al momento della notificazione.

Con riguardo alla mancanza dei requisiti previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 si deve rilevare che dalla lettura complessiva del ricorso si evince la volontà di impugnare la sentenza della CTR di cui si chiede nelle conclusioni il suo annullamento a nulla rilevando che in un passaggio del ricorso si affermi, per mero errore, di proporre il ricorso per la conferma della pronuncia.

Passando all’esame del primo motivo, con cui sostanzialmente si lamenta l’omesso esame di una censura di tipo processuale, appare inammissibile, giacchè si deve ribadire che il “vizio di omissione di pronuncia non è ravvisabile su questioni processuali” perchè è configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito (ex plurimis, Cass. n. 321 del 12/01/2016; Cass. n. 7406 del 28/03/2014; da ultimo, Cass. n. 1876 del 25 gennaio 2018; nello stesso senso, tra le altre, anche Cass. n. 1701 del 23/1/2009).

Peraltro va comunque rilevata l’inammissibilità per difetto di specificità.

Va ricordato che ove il ricorso per cassazione deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale ed accerta la sussistenza o meno della violazione denunciata prescindendo dalla motivazione resa dal giudice del merito (Cass. n. 18932 del 2016), detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca ma solo ad una verifica degli stessi. Ne consegue che, per poter utilmente dedurre, in sede di legittimità, un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. n. 25299 del 2014). E’, quindi, inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su una eccezione se la stessa non sia stata compiutamente riportata nella sua integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano nuove e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049 del 2015). Nel caso di specie, la ricorrente si è limitata a dedurre, in ricorso, di aver proposto, nel corso del giudizio di primo grado, l’eccezione relativa all’inammissibilità del ricorso introduttivo di cui lamenta, appunto, l’omessa pronuncia senza, tuttavia, riprodurne il contenuto negli esatti termini in cui le stesse erano state formalmente proposte.

Va inoltre osservato che la mancata produzione dell’avviso di accertamento qui in discussione non consente alla Corte di esaminare la fondatezza dell’eccezione che necessariamente deve vagliata alla luce degli argomenti posti a base del provvedimento impositivo.

Il secondo motivo è comunque da rigettare.

Costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui affinchè sia integrato il vizio di mancanza o apparenza della motivazione – agli effetti di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4 – occorre che la motivazione della sentenza manchi del tutto, vuoi nel senso grafico vuoi nel senso logico ovvero allorchè la motivazione, pur formalmente esistente, sia talmente contraddittoria da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum (in argomento, Cass., sez. un., n. 19881 del 2014; Cass., sez. un., n. 8053 del 2014), non essendo, invece, più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass., sez. un., n. 14477 del 2015; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. n. 31543 del 2018).

Ora nel caso di specie la sentenza qui contestata, ben lungi dal contenere un qualche riferimento alla pronuncia relativa all’impugnazione proposta dalla società, spiega le ragioni per le quali l’accertamento su cui si è fondato l’atto impositivo non poteva ritenersi fondato.

In questa prospettiva ha dato rilievo al fatto che la non corrispondenza dei valori fra quelli indicati negli atti ed il valore di mercato non poteva basarsi sulla stipulazione dei mutui per valori superiori a quelli riportati nelle operazioni di vendita trattandosi di un dato non presente in tutti i trasferimenti e comunque estraneo alla società.

A tali considerazioni la decisione qui contestata ha rilevato l’inattendibilità dei dati Omi e di quelli riportati nelle perizie redatte.

Il terzo motivo denuncia una violazione di legge ma nulla ha a che vedere con la previsione normativa dettata dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sicchè esso è inammissibile.

La doglianza di violazione di legge infatti si traduce in una non corretta valutazione delle risultanze di causa sicchè essa è inammissibile.

Vale difatti osservare che le espressioni “violazione o falsa applicazione di legge descrivono e rispecchiano i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, ossia: a) il momento concernente la ricerca e l’interpretazione della norma regolatrice del caso concreto; b) il momento concernente l’applicazione della norma stessa al caso concreto, una volta correttamente individuata ed interpretata.

In relazione al primo momento, il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata; con riferimento al secondo momento, il vizio di falsa applicazione di legge consiste, alternativamente: a) nel sussumere la fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perchè, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro; b) nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 26 settembre 2005, n. 18782). Ricorre in altri termini la violazione di legge ogni qualvolta vi è un vizio nell’individuazione o nell’attribuzione di significato ad una disposizione normativa; ricorre invece la falsa applicazione qualora l’errore si sia annidato nella individuazione della esatta portata precettiva della norma, che il giudice di merito abbia applicato ad una fattispecie non corrispondente a quella descritta nella norma stessa.

Dalla “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” va tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Nel caso in esame, la censura in discorso non pone in discussione il significato e la portata applicativa delle disposizioni richiamate nella rubrica sopra menzionata, ma si misura in tutti i casi con la valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, il quale come si è detto ha ritenuto non sufficientemente probanti i dati su cui l’Ufficio ha fondato il suo provvedimento impositivo.

Il motivo peraltro non assolve l’onere dell’autosufficienza.

E’ stato chiarito che nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass. 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289; 28 giugno 2017, n. 16147).

Onere questo che la ricorrente non ha assolto non solo non producendo l’atto impugnato ma neppure trascrivendo i passaggi più significativi.

Il ricorso va rigettato.

Le spese di legittimità vanno poste a carico della ricorrente secondo il principio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore del Comune di Pozzuoli delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro 6000,00 oltre accessori di legge ed al 15% per spese generali.

Così deciso in Roma, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020

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