Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20339 del 10/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 10/10/2016, (ud. 14/07/2016, dep. 10/10/2016), n.20339

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5508-2014 proposto da:

E.S. S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANTONIO MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato MANLIO ABATI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO MANCINI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.F., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA RICASOLI 7, presso lo studio dell’avvocato STEFANO MUGGIA, che

lo rappresenta o difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1018/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/08/2013, R.G. N. 3453/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato MASSIMO MIRAGLIA per delega MANLIO ABATI;

udito l’Avvocato STEFANO MUGGIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza resa pubblica in data 8/3/13, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo dalla E.S. s.r.l. nei confronti di A.F., ne ordinava la reintegra nel posto di lavoro e condannava la parte datoriale al risarcimento del danno L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale osservava, in estrema sintesi, che il provvedimento espulsivo era stato irrogato tardivamente, In violazione dei dettami di cui all’art. 47 c.c.n.l. di settore, secondo cui i provvedimenti disciplinari possono essere intimati entro il termine di sei giorni dalle giustificazioni fornite dal lavoratore, termine da ritenersi di natura perentoria ed insuscettibile di proroga.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la EcosSistem s.p.a. (già E.S. s.r.l.) con due motivi. Resiste con controricorso l’intimato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con due motivi la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., degli artt. 2094, 2106 e 2119 c.c., e dell’art. 47 c.c.n.l. imprese di pulizia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che la Corte, nei suoi approdi, abbia omesso di considerare che il licenziamento era stato irrogato all’esito della valutazione complessiva del comportamento assunto dal lavoratore, nella costante, reiterata ed assoluta inosservanza dei doveri di diligenza posti a carico del prestatore di lavoro, tradotti nella indebita sottrazione di documentazione aziendale, in una serie di assenze ingiustificate, nell’abbandono del posto di lavoro.

Lamenta altresì l’erronea interpretazione della lettera di licenziamento nella quale era stata rimarcata la contrarietà del comportamento assunto dall’Ametiste, ai doveri di collaborazione scaturenti dalla obbligazione lavorativa.

I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, vanno disattesi. Essi sono affetti da plurimi, concorrenti profili di inammissibilità.

S’impone infatti l’evidenza che con la contemporanea proposizione di censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, si realizza una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 c.p.c. giacchè si affida alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (vedi fra le tante, Cass. Sez. Lav. 26/3/2010 n. 7394 cui adde Cass.8/6/2012 n.9341, Cass. 20/9/2013 n. 21611).

La mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione intrinsecamente eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate sotto l’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 mostra infatti di non tener conto dell’impossibilità della prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o della falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio.

A sua volta, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa intende rimettere alla Corte decidente il compito di isolare le singole censure teoricamente suscettibili di valutazione in sede di legittimità, onde ricondurle poi ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati in rubrica.

Una tale impostazione, che assegna al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse, è inammissibile, perchè sovverte i ruoli dei diversi soggetti del processo, conferendo al giudicante compiti estranei alla funzione di legittimità (vedi in motivazione Cass. 23/9/2011 n. 19443 cui adde Cass. cit. n. 9431/2012).

Non può mancarsi di sottolineare, poi, che le formulate censure – interamente modulate sulla legittimità del provvedimento espulsivo irrogato, in quanto volto a sanzionare una condotta del prestatore posta in essere in aperta violazione del doveri minimi di collaborazione nascenti dal rapporto di lavoro – si palesano eccentriche rispetto all’iter motivazionale che sorregge la pronuncia impugnata.

Come già riferito in sede di storico di lite, l’iter argomentativo di cui era innervata l’impugnata sentenza, era orientato esclusivamente all’accertamento della inosservanza, da parte datoriale, dei termini che scandiscono il procedimento disciplinare come disciplinati dall’art. 47 c.c.n.l. di settore, per essere stato il provvedimento espulsivo irrogato oltre il termine di sei giorni successivi alle giustificazioni rese dal lavoratore.

Detta statuizione non risulta in alcun modo censurata dalla società ricorrente, che ha modulato le proprie critiche esclusivamente in relazione alla legittimità del licenziamento intimato all’esito di numerosi procedimenti disciplinari – ed alla violazione delle norme sulla interpretazione degli atti negoziali, oltre che della stessa norma collettiva di cui all’art. 47 cit., ritenuta, tuttavia, inapplicabile alla fattispecie scrutinata.

I motivi, come formulati, vulnerano, quindi, il principio affermato da questa Corte, e che va qui ribadito, secondo cui la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (vedi Cass. 3/8/2007 n. 17125, Cass. 18/2/2011 n. 4036).

Esigenze di completezza espositiva inducono, poi, a rimarcare che il ricorso si espone comunque ad ulteriore giudizio di improcedibilità laddove, sia pure esclusivamente in sede di intestazione del primo motivo, si deduce la violazione dell’art. 47 c.c.n.l. dipendenti imprese di pulizie, omettendosi di riportarne il contenuto e di produrre integralmente il contratto.

Non può prescindersi, sul punto, dal richiamo all’orientamento espresso da questa Corte, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell’onere imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all’art. 366 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (vedi ex plurimis, Cass. 6/3/2012 n. 4220, Cass. 9/4/2013 n. 8569, cui acide Cass. 24/10/2014 n. 22607, Cass. 2/12/2015 n. 24540).

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

Nello specifico, il ricorso è del tutto carente sotto tale profilo, non avendo la società assolto al duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrre il contratto collettivo integralmente agli atti indicando esattamente in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il contratto in questione, e di indicarne il contenuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto dello stesso.

In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso va disatteso.

Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio si pongono a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata.

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2016

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