Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20326 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 26/07/2019, (ud. 27/09/2018, dep. 26/07/2019), n.20326

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14873-2017 R.G. proposto da:

P.G., G.S., in proprio e nella qualità di

genitori esercenti la patria potestà sul figlio minore

P.L., rappresentati e difesi dall’avvocato Ettore Gassani,

domiciliati ex art. 366 c.p.c., comma 2, in Roma, piazza Cavour

presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA SOCIO SANITARIA TERRITORIALE DI BERGAMO EST già AZIENDA

OSPEDALIERA BOLOGNINI DI SERIATE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Monte Zebio 28, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Ciliberti,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 480/2017 della Corte d’appello di Brescia,

depositata il 29/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/09/2018 dal Consigliere Dott. Cosimo D’Arrigo.

Fatto

RITENUTO

Il personale sanitario della Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate, che eseguiva due ecografie durante la gravidanza di G.S., non avvertiva la stessa e il marito P.G. di una malformazione congenita del feto (esterofilia vescicale di grado elevato). Conseguentemente i genitori, anche quali esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio L., agivano nei confronti della struttura sanitaria chiedendo il risarcimento dei danni cagionati al piccolo e alla coppia.

Il Tribunale di Bergamo rigettava la domanda, compensando le spese di lite e ponendo a carico degli attori solo quelle di c.t.u. Gli attori impugnavano la decisione, ma la Corte d’appello di Brescia respingeva il gravame, con condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali.

Tale sentenza è fatta oggetto, da parte dei coniugi Profeta e Gam-birasio, di ricorso per cassazione articolato in tre motivi. L’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate ha resistito con controricorso.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal comma 1, lett. e), D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

Diritto

CONSIDERATO

In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata.

Il ricorso è manifestamente –

Con il primo motivo si deduce la violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., nonchè della L. n. 194 del 1978, art. 6. Sostengono i ricorrenti che, per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da gravidanza indesiderata per malformazioni del feto, non fosse onere della gestante fornire alcuna prova della circostanza che, se fosse stata debitamente informata circa le condizioni di salute del nascituro, avrebbe potuto optare per l’interruzione della gravidanza. Richiamano, a sostegno di tale tesi, il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 25767 del 2015, di cui, tuttavia, forniscono una errata interpretazione.

Invero, le Sezioni unite hanno testualmente affermato che la gestante deve fornire elementi presuntivi che consentano da un fatto noto (esemplificativamente indicato nel ricorso a un consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, nelle precarie condizioni psicofisiche della gestante, o nelle pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto) di desumere che la corretta informazione, nella specie omessa, avrebbe indotto la donna ad interrompere la gravidanza, salva restando sul professionista la prova contraria.

I ricorrenti, valorizzando solo quest’ultimo inciso, hanno inteso il principio affermato con la citata sentenza come volto ad addossare la prova negativa interamente a carico del personale sanitario. Invero, come già chiarito, grava sulla gestante l’onere di fornire elementi presuntivi che consentano di desumere l’ignoto dal noto; solo una volta che sia stato assolto tale onere, spetta al professionista la facoltà di fornire la prova contraria.

I ricorrenti, solo incidentalmente, sembrano affermare che alcuni elementi presuntivi sarebbero stati forniti nel corso del giudizio. Ma tale censura è del tutto privo del requisito della specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto il motivo non contiene alcuna illustrazione degli elementi di prova e delle ragioni in considerazione delle quali si dovrebbe pervenire alla conclusione che i giudici di merito abbiano fatto, in concreto, erronea applicazione del principio di diritto sopra evocato (sul punto v., in motivazione, Sez. U, Sentenza n. 7074 del 20/03/2017).

Con il secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dei principi sanciti da questa Corte in tema di “omesso riconoscimento delle conseguenze dannose sul piccolo L.”.

La censura presenta, anzitutto, un profilo di inammissibilità per carente indicazione delle norme di legge che si assumono violate (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4). Inoltre, poichè con tale motivo si sostiene che il consulente tecnico d’ufficio avrebbe fornito quegli elementi di prova che i giudici di merito hanno invece ritenuto mancanti, lo stesso risulta altresì aspecifico. Infatti, i ricorrenti omettono di riferire le esatte conclusioni cui sarebbero pervenuti, da un lato, il c.t.u. e, dall’altro, la consulenza di parte cui fanno riferimento, nonchè di localizzare tali atti in questo giudizio di legittimità. Ed invero, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7), di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ma resta ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Sez. U, Sentenza n. 22726 del 03/11/2011, Rv. 619317; conf. Sez. L, Sentenza n. 21554 del 18/09/2017, Rv. 645870; Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016, Rv. 638424).

Tanto non esime dal rilevare pure che i ricorrenti, pur lamentando che si sarebbe dovuto disporre una nuova consulenza tecnica d’ufficio e che a torto la corte territoriale non ha provveduto in tal senso, hanno assolutamente omesso di indicati in che termini vi fosse stata necessità disporre siffatta consulenza, sicchè risulta impossibile apprezzare la decisività della censura.

Con il terzo motivo, parzialmente sovrapponibile alla precedente censura, si deduce la violazione o falsa applicazione dei principi affermati da questa Corte “in merito all’omesso riconoscimento delle conseguenze dannose sui ricorrenti”. Anche in questo caso deve rilevarsi la mancata indicazione delle norme di legge che si assumono violate (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4). Inoltre, la censura si risolve nella affermazione che le prove mancanti si sarebbero potute raccogliere attraverso una c.t.u. di natura medico-psichiatrica, richiesta e non autorizzata, richiamando la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio può costituire fonte oggettiva di prova, oltre che valutazione tecnica, in caso di accertamenti di particolari situazioni di fatto rilevabili solo attraverso cognizioni tecniche e percepibili esclusivamente attraverso specifiche strumentazioni tecniche.

Invero, la giurisprudenza richiamata non è riferibile al caso di specie, dal momento che i fatti dei quali si sarebbe voluta fornire la prova tramite la consulenza tecnica d’ufficio non presentano quelle caratteristiche di rilevabilità solamente attraverso cognizioni e strumentazioni tecniche che giustificano una deroga al principio generale secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio non è qualificabile come mezzo di prova in senso proprio.

Oltretutto, il ricorso anche in questo caso è carente di specificità, dal momento che non viene indicata l’occasione in cui i ricorrenti avrebbero richiesto la consulenza tecnica d’ufficio che si assumono sia stata loro negata e, soprattutto, la natura dei quesiti che si sarebbero dovuti sottoporre al consulente.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.

Ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte degli impugnanti soccombenti, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da loro proposta.

PQM

dichiara inammisibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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