Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20303 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. III, 26/07/2019, (ud. 16/04/2019, dep. 26/07/2019), n.20303

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18586-2016 proposto da:

R.D.M., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 75, presso lo studio dell’avvocato

MARIO LACAGNINA, rappresentati e difesi dall’avvocato GIULIO

GENTILE;

– ricorrenti –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente

p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2357/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/04/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. I.M.L., + ALTRI OMESSI nel 2007 convennero dinanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Istruzione, il Ministero del Lavoro ed il Ministero dell’Economia, esponendo che:

-) dopo avere conseguito la laurea in medicina, si erano iscritti ad una scuola di specializzazione;

-) durante il periodo di specializzazione non avevano percepito alcuna remunerazione o compenso da parte della scuola stessa;

-) le direttive comunitarie n. 75/362/CEE e 75/363/CEE, così come modificate dalla Direttiva 82/76/CEE, avevano imposto agli Stati membri di prevedere che ai frequentanti le scuole di specializzazione fosse corrisposta una adeguata retribuzione;

-) l’Italia aveva dato tardiva e parziale attuazione a tali direttive solo con la L. 8 agosto 1991, n. 257.

Conclusero pertanto chiedendo la condanna delle amministrazioni convenute al risarcimento del danno sofferto in conseguenza della tardiva attuazione delle suddette direttive.

2. Con sentenza 7.3.2011 n. 5662 il Tribunale di Roma rigettò la domanda, ritenendo non dimostrato che gli attori avessero frequentato le rispettive scuole di specializzazione a tempo pieno, condizione necessaria per avere diritto alla remunerazione.

3. La Corte d’appello di Roma con sentenza 15.4.2016 n. 2357 riformò parzialmente la decisione di primo grado.

Con riferimento agli appellanti T. e To., la Corte d’appello rigettò il gravame sul presupposto che essi, essendosi iscritti alla scuola di specializzazione nell’anno accademico 1982-1983, non avessero diritto ad alcuna remunerazione, perchè solo il 31.12.1982 maturò l’obbligo per lo Stato italiano di dare attuazione alle direttive comunitarie.

Con riferimento agli appellanti I., + ALTRI OMESSI, la domanda venne rigettata sul presupposto che le specializzazioni da essi conseguite non fossero comuni ad almeno due Paesi dell’Unione Europea, requisito anche questo necessario per il diritto alla remunerazione.

Tali specializzazioni erano:

– oncologia;

– pediatria preventiva e puericultura;

– clinica pediatrica;

– neonatologia.

4. Ricorrono per cassazione avverso la suddetta sentenza d’appello tutti gli otto originari attori sopra indicati, con ricorso fondato su quattro motivi ed illustrato da memoria.

Ha resistito con controricorso la sola Presidenza del consiglio dei Ministri.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Il primo motivo di ricorso concerne la posizione dei soli ricorrenti T.L. e To.Ve.Ma.Ro..

Con tale motivo le ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1173,1183,1218 c.c.; nonchè delle Direttive comunitarie 362/75, 363/75 e 76/82.

Al di là di tali riferimenti formali, non tutti e non del tutto pertinenti, nella illustrazione del motivo le due ricorrenti appena indicate sostengono che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato la loro domanda di risarcimento. Deducono che, essendosi iscritte alla scuola di specializzazione nell’anno 1982-83, avevano diritto anch’esse ad essere indennizzate del danno sofferto in conseguenza della intempestiva attuazione delle direttive comunitarie da parte dello Stato italiano, giacchè tali direttive imponevano agli Stati membri di remunerare adeguatamente tutti i medici specializzandi iscritti nelle rispettive scuole a partire dal suddetto anno accademico.

1.2. Il motivo è fondato.

Come noto la (allora) Comunità Europea nel 1975 volle dettare norme uniformi per “agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di medico”, e lo fece con due direttive coeve: la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE, ambedue del 16.6.1975.

La prima sancì l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere l’efficacia giuridica dei diplomi rilasciati dagli altri Stati membri per l’esercizio della professione di medico; la seconda dettò i requisiti minimi necessari affinchè il suddetto riconoscimento potesse avvenire, tra i quali la durata minima del corso di laurea e la frequentazione a tempo pieno di una “formazione specializzata”.

L’una e l’altra di tali direttive vennero modificate qualche anno dopo dalla Direttiva 82/76/CEE del Consiglio, del 26 gennaio 1982.

L’art. 13 di tale ultima direttiva aggiunse alla Direttiva 75/363/CEE un “Allegato”, contenente le “caratteristiche della formazione a tempo pieno (…) dei medici specialisti”.

L’art. 1, comma 3, ultimo periodo, di tale allegato sancì il principio per cui la formazione professionale “forma oggetto di una adeguata rimunerazione”.

1.3. La direttiva 82/76/CEE venne approvata dal Consiglio il 26.1.1982; venne notificata agli Stati membri (e quindi entrò in vigore) il 29.1.1982, e venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n. L43 del 15.2.1982; l’art. 16 della medesima direttiva imponeva agli Stati membri di conformarvisi “entro e non oltre il 31 dicembre 1982”.

Pertanto:

(a) l’ordinamento comunitario attribuì ai medici specializzandi il diritto alla retribuzione a far data dal 29.1.1982;

(b) gli Stati membri avevano tempo sino al 31.12.1982 dello stesso anno per dare attuazione al precetto comunitario.

Ne consegue che “qualsiasi formazione a tempo pieno come medico specialista iniziata nel corso dell’anno 1982 deve essere oggetto di una remunerazione adeguata”, così come stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 24 gennaio 2018, in causa C-616/16, Presidenza del Consiglio c. Pantuso.

La medesima sentenza ha precisato che, per coloro che hanno iniziato i corsi di specializzazione durante l’anno 1982, la remunerazione adeguata deve essere corrisposta per il periodo di formazione a partire dal 1 gennaio 1983 fino alla conclusione, dal momento che prima di tale data gli Stati membri avevano la facoltà di dare o non dare attuazione alla direttiva.

La Corte di giustizia, nella sentenza appena ricordata ha dunque distinto tre categorie di specializzandi:

1) quelli che hanno iniziato la specializzazione prima del 29 gennaio 1982 (data di entrata in vigore della direttiva 82 del 1976), i quali non hanno diritto ad alcuna remunerazione;

2) quelli che hanno iniziato la specializzazione nel corso dell’anno 1982, i quali hanno diritto alla remunerazione a partire dal 1 gennaio 1983;

3) quelli che hanno iniziato la specializzazione dopo il 1 gennaio 1983, i quali hanno diritto alla remunerazione per l’intera durata del ricorso (così anche, ex permultis, Sez. 3, Ordinanza n. 1066 del 17.1.2019; Sez. 3, Ordinanza n. 13761 del 31.5.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 13762 del 31.5.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 13763 del 31.5.2018).

1.4. Nel nostro caso la sentenza impugnata ha rilevato in punto di fatto che T.L. e To.Ve.Ma.Ro. si iscrissero alla scuola di specializzazione nell’anno accademico 1982-83 (p. 3, p. 5, della sentenza impugnata).

Ne consegue, per quanto appena detto, che all’epoca in cui si iscrissero alla scuola le due controricorrenti già indicate avevano diritto alla remunerazione, ovviamente a decorrere dal 1.1.1983.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Il secondo motivo di ricorso concerne i ricorrenti I.M.L., + ALTRI OMESSI.

Con tale motivo i ricorrenti, formalmente invocando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, deducono che la Corte d’appello, rilevando d’ufficio la non corrispondenza della specializzazione da essi conseguita con quelle previste in almeno altri due Paesi UE, avrebbe violato “l’effetto devolutivo dell’appello”.

Sostengono che, in primo grado, la suddetta eccezione non era mai stata sollevata dalle amministrazioni convenute; nè queste l’avevano riproposta in grado di appello; nè formò oggetto di un appello incidentale (deve ritenersi, condizionato). Di conseguenza, il difetto del requisito della equipollenza tra la specializzazione conseguita in Italia e quelle previste in almeno altri due Paesi dell’Unione Europea non poteva essere rilevato d’ufficio dalla Corte d’appello.

2.2. Va premesso che il motivo in esame, pur denunciando un vizio di violazione di legge, nella illustrazione prospetta in realtà un vizio di ultrapetizione, censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Questo errore nell’inquadramento della censura, tuttavia, non è di ostacolo all’esame del secondo motivo di ricorso.

Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

E nel caso di specie, per quanto detto, l’illustrazione del motivo non dà adito a dubbi circa l’effettivo contenuto della doglianza che i ricorrenti hanno inteso formulare.

2.3. Nel merito, il motivo è infondato.

In primo grado, il Tribunale rigettò la domanda sul presupposto che gli attori non avessero provato di avere frequentato la scuola a tempo pieno.

Trattandosi di valutazione sufficiente di per sè al rigetto della domanda, il Tribunale non era tenuto a prendere in esame la sussistenza degli altri requisiti necessari per ottenere il risarcimento, che perciò restarono impregiudicati.

Pertanto correttamente la Corte d’appello, una volta ritenuto sussistente il requisito della frequentazione della scuola di specializzazione a tempo pieno, poteva e doveva, anche d’ufficio, verificare la sussistenza degli altri presupposti in fatto della domanda, tra cui la corrispondenza tra la specializzazione conseguita e quelle previste da almeno altri due Paesi dell’UE (così già, su fattispecie identica, Sez. 3, Ordinanza n. 458 del 10.1.2019).

Infatti il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sacrificato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto. (Sez. U, Ordinanza interlocutoria n. 10531 del 07/05/2013, Rv. 626194 – 01)

Non vi fu, perciò, nessuna violazione dell’art. 345 o dell’art. 346 c.p.c..

Non del primo, perchè non può dirsi “nuova” la questione rilevabile d’ufficio; e non del secondo, perchè nel caso in cui il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda per carenza di una delle condizioni richieste dalla legge per il riconoscimento del diritto, il giudice di appello è legittimato a rilevare d’ufficio la carenza di altri elementi costitutivi del diritto stesso, non potendosi ritenere formato, sul punto, alcun giudicato interno ove la parte appellata, per altro verso vittoriosa, abbia in primo grado contestato tout court la sussistenza dei requisiti di legge (la cui ricorrenza, dunque, non poteva dirsi implicitamente ammessa e doveva essere verificata d’ufficio) (così, testualmente, Sez. 1, Sentenza n. 12855 del 15/06/2005, Rv. 583150 – 01).

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Anche col terzo motivo i ricorrenti (ed anche in questo caso formalmente lamentando la violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3) lamentano che la Corte d’appello abbia pronunciato ultra petitum, decidendo su una questione (la corrispondenza tra specializzazioni italiane e degli altri Paesi UE) non rilevabile d’ufficio e non prospettata dalle amministrazioni, nè in primo, nè in secondo grado.

3.2. Il motivo è infondato, per le medesime ragioni per le quali è infondato il secondo motivo, ed appena esposte al p. 2.3.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Il quarto motivo di ricorso, sebbene formalmente unitario, contiene in realtà una pluralità di censure frammiste fra loro, così riassumibili:

(a) la sentenza d’appello è immotivata nella parte in cui ha escluso l’equipollenza tra la specializzazione conseguita dagli odierni ricorrenti, e quelle indicate nelle direttive 362/75 e 363/75.;

(b) la sentenza d’appello è erronea nella parte in cui ha escluso l’equipollenza delle specializzazioni conseguite dai ricorrenti, con quelle previste da almeno altri due Stati membri, equipollenza che invece si doveva ritenere sussistente perchè prevista sia dalla direttiva 362/75, sia dal D.M. 31 ottobre 1991; sia dal D.M. 30 ottobre 1993; sia dal D.M. n. 9 marzo 2000;

(c) in ogni caso, la Corte d’appello avrebbe dovuto sottoporre la questione dell’equipollenza, rilevata d’ufficio, al dibattito delle parti, e non lo fece.

4.2. La prima censura è infondata.

Una sentenza può dirsi “immotivata” quando le ragioni della decisione manchino del tutto, quando siano incomprensibili, oppure quando siano tra loro insanabilmente contraddittorie (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Nel caso di specie nessuno di questi vizi è ravvisabile nella motivazione della sentenza d’appello: questa infatti, sebbene sintetica, a p. 6, terzo capoverso, esprime un concetto inequivocabile: e cioè che le specializzazioni ivi elencate sono state ritenute non comuni ad almeno due Paesi membri dell’UE, e di conseguenza chi le ha conseguite non aveva diritto alla remunerazione o, in sostituzione, al risarcimento per tardivo recepimento delle Direttive comunitarie.

4.3. Con la seconda censura contenuta nel quarto motivo di ricorso sostengono i ricorrenti che, ai fini del riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno per non avere goduto della remunerazione che si sarebbe dovuto accordar loro in virtù della normativa comunitaria, l’equipollenza tra la specializzazione rispettivamente conseguita, e le specializzazioni comuni ad almeno due Paesi membri, andava accertata non solo in base agli elenchi di specializzazioni contenuti nelle Direttive 362/75 e 363/75, ma anche in base ai successivi decreti del Ministro dell’università, giusta la previsione del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 1, comma 2.

E tali decreti, proseguono i ricorrenti, hanno espressamente “confermato” la possibilità per le Università di istituire scuole di specializzazione sia in pediatria (D.M. 31 ottobre 1991); sia in oncologia, sia in igiene e medicina preventiva (D.M. n. 30 ottobre 1993, art. 2).

Osservano, conclusivamente, che la Corte d’appello “non dice nè fa capire” per quali ragioni abbia escluso dal diritto al risarcimento gli specializzati in oncologia, pediatria preventiva, clinica pediatrica.

Tutte le censure appena riassunte, e tutte insieme, sono prospettate dai ricorrenti come integranti ben quattro diversi vizi:

a) “violazione di legge sotto il profilo dell’omessa e comunque insufficiente motivazione”;

b) “violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.”;

c) violazione “del contraddittorio di cui all’art. 112 c.p.c.”;

d) “violazione (…) dell’art. 360 c.p.c., n. 5”.

4.4. In merito a tali censure va in primo luogo dichiarata la inammissibilità manifesta della censura di omesso esame del fatto.

Infatti, anche ad ammettere un lapsus calami della difesa dei ricorrenti nell’affermazione secondo cui la Corte d’appello avrebbe “violato l’art. 360 c.p.c., n. 5” (norma che la Corte d’appello non poteva violare perchè non doveva applicare, e che disciplina infatti i presupposti del ricorso per cassazione), quel che rileva è che la censura in esame viene solo annunciata nell’epigrafe del motivo, ma non viene affatto illustrata; e comunque non viene illustrata come si sarebbe dovuto.

Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, nell’interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito (due anni prima dell’introduzione del presente ricorso) che colui il quale intenda denunciare in sede di legittimità un errore consistito nell’omesso esame d’un fatto decisivo da parte del giudice di merito, ha l’onere di indicare:

(a) quale fatto non sarebbe stato esaminato;

(b) quando e da chi era stato dedotto in giudizio;

(c) come era stato provato;

(d) perchè era decisivo (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Nel caso di specie, invece, il ricorso non contiene nemmeno una delle suddette analitiche indicazioni, nè spiega in qualche modo quale “fatto materiale” la Corte d’appello avrebbe trascurato di considerare.

4.5. Inammissibile per inintelligibilità, altresì, è la censura nominalmente definita “violazione del contraddittorio ex art. 112 c.p.c.”.

L’art. 112 c.p.c non disciplina infatti “il contraddittorio”, ma il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che nel caso di specie è stato pacificamente rispettato: una domanda di condanna formularono i ricorrenti, e sulla domanda di condanna ha statuito la Corte d’appello.

4.6. Parimenti inammissibile, per totale difetto di illustrazione, è la censura di “violazione dell’art. 3 Cost.”, e ciò anche a prescindere dall’ovvia considerazione che le norme costituzionali sono parametro di valutazione della correttezza delle fonti normative di rango ordinario, e non delle decisioni giurisdizionali, le quali potrebbero violarle solo indirettamente, ovvero applicando norme incostituzionali, oppure interpretando la legge in modo non coerente col dettato costituzionale: ma in tali casi il vizio da censurare in sede di legittimità sarebbe ovviamente rappresentato – nel primo caso – dalla mancata proposizione d’un incidente di legittimità costituzionale; e nel secondo caso dalla violazione delle norme e dei principi sull’interpretazione della legge ordinaria.

4.7. Resta dunque da esaminare la correttezza delle censure riassunte supra, al p. 4.3, con riferimento al vizio di violazione di legge, ovviamente di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 (non evocato dai ricorrenti, ma corrispondente al contenuto effettivo della censura da essi proposta, e come tale qualificabile ed esaminabile da questa Corte: cfr., in tal senso, Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

Ebbene, sotto tale profilo la censura è infondata.

4.7.1. L’art. 5, comma 3, della Direttiva 75/362/CEE elenca le seguenti specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri:

anestesia e rianimazione;

chirurgia generale;

neurochirurgia;

ostetricia e ginecologia;

medicina interna;

oculistica;

otorinolaringoiatria;

pediatria;

tisiologia e malattie dell’apparato respiratorio;

urologia;

ortopedia e traumatologia.

Il successivo art. 7, comma 2, della medesima Direttiva stabilisce l’equipollenza in almeno due Stati membri tra le seguenti ulteriori specializzazioni:

biologia clinica;

ematologia biologica;

microbiologia – batteriologia;

anatomia patologica;

biochimica;

immunologia;

chirurgia plastica;

chirurgia toracica;

chirurgia pediatrica;

chirurgia vascolare;

cardiologia;

gastroenterologia;

reumatologia;

ematologia generale;

endocrinologia;

fisioterapia;

stomatologia;

neurologia;

psichiatria;

neuropsichiatria;

dermatologia e venereologia;

radiologia;

radio diagnostica;

radioterapia;

medicina tropicale;

psichiatria infantile;

geriatria;

malattie renali;

malattie infettive;

community medicine;

farmacologia;

occupational medicine;

allergologia;

chirurgia dell’apparato digerente.

Le medesime specializzazioni sono previste dagli artt. 4 e 5 della Direttiva 75/363/CEE.

Gli elenchi di cui sopra non includono dunque alcuna delle specializzazioni conseguite dagli odierni ricorrenti, ovvero oncologia (conseguita da I.M.L.); pediatria preventiva e puericultura (conseguita da M.M.G., M.G., R.D.M. e Z.C.S.); clinica pediatrica (conseguita da Mi.Gi.Ro.Ma.).

Per contro, il II Considerando della Direttiva 75/363 stabiliva che per il reciproco riconoscimento dei diplomi di specializzazione tra gli Stati membri “e per mettere tutti i professionisti cittadini degli Stati membri su una certa base di parità all’interno della Comunità, è apparso necessario un certo coordinamento delle condizioni di formazione del medico specialista”, soggiungendo però che tale “coordinamento” “riguarda soltanto le specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri nonchè quelle comuni a due o più Stati membri”.

Nel 1982, pertanto, delle due l’una: o una specializzazione era comune ad almeno due Stati dell’UE, ed allora l’Italia aveva l’obbligo di prevedere per legge una remunerazione in favore di chi la frequentava (giusta la previsione dell’Allegato “A” alla Direttiva 1975/363, aggiunto dalla Direttiva 1982/76); oppure quella specializzazione non era comune, ed allora non vi era l’obbligo comunitario di prevedere una remunerazione per chi l’avesse frequentata.

4.7.3. Nè rileva, in senso contrario, la normativa invocata dai ricorrenti alle pp. 22-23 del proprio ricorso, ovvero il D.M. 31 ottobre 1991, e ciò per due ragioni.

4.7.3.1. La prima ragione è che il D.M. 31 ottobre 1991, nel testo applicabile ratione temporis (e dunque alla data di completamento delle scuole di specializzazione da parte degli odierni ricorrenti) non includeva affatto nell’elenco delle specializzazioni “di tipologie e durata conformi alle norme delle Comunità economiche Europee” nè l’oncologia, nè la pediatria preventiva e puericultura, nè la clinica pediatrica.

4.7.3.2. La seconda ragione per la quale le previsioni del D.M. 31 ottobre 1991 non giovano alla pretesa degli odierni ricorrenti è che, quale che fosse la qualificazione che volesse darsi alla condotta dello Stato il quale, tardivamente recependo una direttiva comunitaria attributiva ai singoli soggetti di diritti sufficientemente determinati, causi loro un pregiudizio economico (“fatto illecito”, “obbligazione di fonte legale”, od altro), quel che è certo è che la stima del pregiudizio da quella condotta causato non sfugge ai principi generali in tema di risarcimento del danno.

Principio generale in tema di risarcimento del danno patrimoniale è ovviamente quello di causalità, in virtù del quale in tanto si può predicare l’esistenza d’un “danno” in senso giuridico, in quanto sia possibile affermare che, se il responsabile avesse tenuto una condotta diversa da quella effettivamente tenuta, il danneggiato si sarebbe trovato in una diversa e più favorevole condizione patrimoniale.

Nel nostro caso, pertanto, un credito risarcitorio (o indennitario, se si preferisce) degli odierni ricorrenti in tanto sarebbe predicabile in iure, in quanto potesse affermarsi che, se lo Stato italiano avesse dato attuazione alle direttive comunitarie entro il termine da quelle previsto, gli odierni ricorrenti avrebbero beneficiato d’un incremento patrimoniale che invece hanno perduto.

Or bene, tutti i ricorrenti hanno dedotto (cfr. il ricorso, p. 2, lettera a)) di avere frequentato le rispettive scuole di specializzazione tra il 1982 ed il 1991.

Pertanto nel periodo compreso tra la scadenza del termine per lo Stato italiano di dare attuazione alle direttive comunitarie (1982), e il completamento del corso di specializzazione da parte degli odierni ricorrenti, non esisteva alcuna delle norme sulla “equipollenza” delle specializzazioni invocate dagli odierni ricorrenti (e segnatamente il D.M. 31 ottobre 1991).

E’ pertanto giuridicamente insostenibile pretendere che il corso di specializzazione frequentato dagli odierni ricorrenti debba ritenersi equipollente a quelli previsti in almeno altri due Stati membri, in virtù di norme che non esistevano all’epoca in cui quel corso venne frequentato.

E se può imputarsi allo Stato italiano di avere dato tardiva attuazione alla Direttiva 1975/363 (come modificata dalla Direttiva 1982/76), nella parte imponeva agli Stati membri l’obbligo di remunerare i dottori specializzandi, certamente non gli si può rimproverare a titolo di “illecito comunitario” di non avere ampliato il novero delle specializzazioni equipollenti, dal momento che tale ampliamento per gli Stati membri costituiva una facoltà, e non un obbligo loro imposto dalla normativa comunitaria.

4.8. Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., i ricorrenti hanno introdotto un ulteriore argomento in iure: e cioè che l’equipollenza tra le specializzazioni da essi rispettivamente conseguite e quelle previste da almeno due Stati membri sarebbe stata prevista, già all’epoca in cui essi frequentarono le scuole di specializzazione, dal D.M. 10 marzo 1983 (per un evidente lapsus calami indicato nella memoria come “D.M. 10 settembre 1983”).

La deduzione non ha pregio.

Il suddetto provvedimento amministrativo è rubricato “Elenco delle discipline equipollenti ed affini rispetto alle discipline oggetto degli esami di idoneità e dei concorsi presso le unità sanitarie locali valevole per la formazione delle commissioni esaminatrici e per la valutazione dei titoli negli esami di idoneità e nei concorsi di assunzione dei medici, farmacisti e veterinari presso le unità sanitarie locali”.

Esso disciplina l’equivalenza delle specializzazioni previste dalla normativa regolamentare per la formazione delle commissioni esaminatrici e la valutazione dei concorsi per il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale.

Pertanto la circostanza che nella “Tabella A” allegata al suddetto decreto le specializzazioni conseguite dagli odierni ricorrenti possano essere equiparate a talune delle specializzazioni elencate anche nelle Direttive 75/363 e 75/362 nulla rileva, perchè quella equipollenza venne stabilita al solo fine di rendere comparabili i titoli di studio dei membri delle commissioni esaminatrici e dei candidati agli esami. Un fine, dunque, del tutto estraneo al reciproco riconoscimento tra Stati membri dei diplomi di specializzazione.

Infine non sarà superfluo rilevare, ad abundantiam, che al punto 14 della Tabella “A” allegata al D.M. 10 marzo 1983 l’oncologia è qualificata equipollente a “medicina generale”, e “medicina generale” è anch’essa specializzazione non prevista dalle Direttive 75/363 e 75/362; mentre al punto 23 della medesima tabella, tra le discipline affini alla pediatria non è compresa la pediatria preventiva e puericultura, nè la neonatologia.

4.8. Escluso dunque che tra le specializzazioni conseguite dagli odierni ricorrenti e quelle previste dalle Direttive 75/363e 75/362 esista una coincidenza nominale, ulteriori indagini sulla sostanziale equipollenza di fatto delle prime con le seconde costituiscono accertamenti riservati al giudice di merito, e non praticabili in questa sede.

4.9. La terza censura contenuta nel quarto motivo di ricorso, infine, è inammissibile.

Con tale censura, come accennato, i ricorrenti lamentano nella sostanza la violazione dell’art. 101 c.p.c., per avere la Corte d’appello rigettato la loro domanda rilevando d’ufficio la non equipollenza tra le specializzazioni da esse conseguite e quelle previste dalle direttive comunitarie, senza dar loro la possibilità di dimostrare in fatto la corrispondenza tra le une e le altre.

I ricorrenti, dunque, denunciano un error in procedendo.

E tuttavia questa Corte ha ripetutamente affermato che la violazione della legge processuale da parte del giudice di merito in tanto può condurre ad una cassazione della sentenza impugnata in sede di legittimità, in quanto il ricorrente deduca quale concreto pregiudizio gli sia derivato da quella violazione, e quali diverse attività avrebbe potuto compiere, o quali ulteriori argomenti spendere, nel caso in cui essa non vi fosse stata.

Non esiste, infatti, nel nostro ordinamento processuale un astratto “diritto” al rispetto della legge processuale, se dalla violazione di questa non sia disceso alcun concreto pregiudizio.

Ne consegue che colui il quale si dolga, in sede di legittimità, d’un error in procedendo commesso dal giudice di merito ha l’onere almeno di indicare a quale diverso esito il giudizio sarebbe pervenuto, se quell’errore non fosse stato commesso. Nel caso di specie, in virtù di tale principio, sarebbe stato onere dei ricorrenti indicare quali sarebbero stati i “documenti e le attestazioni”, di cui si fa menzione a pag. 25 del ricorso, che essi avrebbero inteso depositare nel giudizio di merito, se la Corte d’appello avesse previamente sottoposto alle parti la questione della equipollenza sostanziale tra le specializzazioni da essi conseguite, e quelle previste dalle direttive più volte citate.

In mancanza di tale allegazione è inibito a questa Corte verificare l’esistenza d’un interesse al ricorso, ex art. 100 c.p.c., del quale va perciò dichiarata l’inammissibilità.

5. Le spese.

5.1. Nei rapporti tra le ricorrenti To. e T. da un lato, e le amministrazioni resistenti dall’altro, le spese saranno liquidate dal giudice del rinvio.

5.2. Nei rapporti tra le amministrazioni intimate e gli altri ricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate interamente tra le parti, in considerazione delle incertezze giurisprudenziali che, rispetto all’epoca di introduzione del giudizio di legittimità, hanno caratterizzato la materia.

PQM

la Corte di cassazione:

(-) accoglie il ricorso proposto da T.L. e To.Ve.Ma.Ro., cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;

(-) rigetta il ricorso proposto da I.M.L., Ma.Ga., Mi.Gi.Ro.Ma., M.G., R.D.M. e Z.C.;

(-) compensa integralmente tra I.M.L., Ma.Ga., Mi.Gi.Ro.Ma., M.G., R.D.M. e Z.C. da un lato, e le amministrazioni controricorrenti dall’altro, le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 16 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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