Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20296 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. III, 26/07/2019, (ud. 15/04/2018, dep. 26/07/2019), n.20296

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27882-2017 proposto da:

D.F., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSIO

NOBILE;

– ricorrente –

contro

EDITRICE LECCHESE SRL, in persona del legale rappresentante

F.G., F.G. in qualità di Direttore Responsabile

del (OMISSIS), N.C., domiciliati ex lege in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato CESARE MARIA DE CAROLIS;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2116/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 16/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/04/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RILEVATO

che:

1. D.F. ricorre, affidandosi a due motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano che, riformando la pronuncia del Tribunale di Como, aveva respinto la domanda di risarcimento danni da lui avanzata nei confronti della Editrice Lecchese srl, di F.G. e di N.C. in qualità, rispettivamente, di editore, direttore responsabile e giornalista del settimanale “(OMISSIS)”, per la diffamazione a mezzo stampa che assumeva fosse stata posta in essere attraverso un articolo pubblicato sul quotidiano in data (OMISSIS), in occasione del suo arresto in flagranza per alcuni reati fra i quali l’usura, dal quale era stato successivamente scagionato.

2. Le parti intimate hanno resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 Cost. e della L. n. 47 del 148.

1.1. Contesta che la Corte aveva riformato la sentenza di primo grado, valutando al di fuori dei canoni di verità e continenza, il carattere diffamatorio dell’articolo contestato che aveva qualificato la sua persona con epiteti quali “aguzzino e strozzino” nonostante che l’imputazione elevata nei suoi confronti dalla Procura della Repubblica fosse riferita ai reati di “estorsione” e di “furto con strappo”.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Il Collegio osserva, infatti che il ricorrente si è limitato a trascrivere la parte della sentenza censurata (pag. 8 e 9) e ad illustrare, da un punto di vista meramente teorico, le caratteristiche qualificanti la correttezza dell’informazione, necessarie per escludere il reato di diffamazione a mezzo stampa (verità, continenza, correttezza formale dell’esposizione, interesse pubblico): assume al riguardo che esse non sono stati rispettate in quanto la notizia diffusa dal quotidiano rendeva noto il suo arresto per il gravissimo reato di usura anche se, ben undici giorni prima della pubblicazione, l’imputazione elevata era stata circoscritta dall’autorità competente ai reati di estorsione e furto con strappo. Con ciò, tuttavia, viene completamente omessa la trascrizione, nel corpo del ricorso, del testo dell’articolo diffamatorio, attraverso il quale si sarebbero potute apprezzare le censure proposte.

1.3. Il motivo, pertanto, è, da una parte, privo di autosufficienza e, dall’altra, chiede una rivisitazione di merito dei fatti, esaustivamente esaminati dalla Corte territoriale che ha reso una motivazione congrua, logica ed al di sopra della sufficienza costituzionale (cfr. 8 e 9 della sentenza impugnata).

2. Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti. Lamenta che la Corte non aveva considerato la circostanza che la Procura non aveva confermato, successivamente alla convalida dell’arresto, l’ipotesi del reato di usura, nei capì di imputazione a lui ascritti.

2.1. Il motivo, parzialmente sovrapponibile a quello precedente, è infondato. La sentenza impugnata, infatti, da atto (pag. 10, terzo rigo) della “mancata contestazione successiva del PM”: a tale affermazione – dalla quale emerge che il fatto è stato esaminato – segue un congruo percorso argomentativo, incensurabile in questa sede in quanto logico ed al di sopra della sufficienza costituzionale (cfr., al riguardo, Cass. SUU 8053/2014; Cass. 27415/2018), che da atto dell’avvenuto esame di tale circostanza e delle ragioni che hanno indotto la Corte ad escludere che ricorresse la diffamazione dedotta.

3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 15 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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