Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20293 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. III, 26/07/2019, (ud. 15/04/2019, dep. 26/07/2019), n.20293

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21710/2017 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI, 94, presso lo studio dell’avvocato MARCO MORRA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE DELLE

GIOIE 13, presso lo studio dell’avvocato CAROLINA VALENSISE, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 122/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 16/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/04/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

che:

1. G.R. ricorre, affidandosi a cinque motivi illustrati anche con memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Perugia che, riformando la pronuncia del Tribunale, aveva respinto la domanda da lui proposta nei confronti di M.G. che lo aveva querelato per diffamazione, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti derivanti dall’abuso di diritto che assumeva fosse stato perpetrato nei suoi confronti.

2. Ha resistito la parte intimata con controricorso e memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Per maggiore chiarezza, è opportuno sintetizzare in premessa gli aspetti fattuali della controversia.

1.1. G.R. rilasciò un intervista sul quotidiano “La Nazione” con la quale denunciava, riferendosi a “comportamenti familiaristici”, abusi edilizi perpetrati nel paese di (OMISSIS) su un palazzo storico di proprietà di M.G. la quale presentò contro di lui una querela, assumendo di essere stata diffamata specialmente attraverso le allusioni al “comportamento familiaristico” che presentava evidenti riferimenti al proprio fratello, assessore comunale.

1.2. Nelle more, il Tar si pronunciò, affermando che l’immobile era abusivo.

Il pubblico Ministero, pertanto, propose ed ottenne l’archiviazione della querela.

1.3. Per ciò che qui interessa, il G. convenne, dunque, in giudizio la M. dinanzi al Tribunale di Perugia, domandando il risarcimento dei danni derivanti dall'”abuso di diritto” subito, consistente nelle ingiuste conseguenze causate dalla querela per diffamazione contro di lui proposta, nonostante l’esito del giudizio amministrativo che aveva qualificato l’opera come abusiva e quello “assolutorio” del procedimento penale per diffamazione.

1.4. Il Tribunale accolse la domanda, ritenendo sussistente il comportamento abusivo.

1.5. La Corte territoriale riformò la pronuncia, escludendo che la condotta della M. potesse configurare la fattispecie invocata.

2. I primi due motivi di ricorso devono essere congiuntamnete esaminati per l’intrinseca connessione logica.

2.1. Con il primo, il ricorrente, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce la violazione a falsa applicazione degli artt. 2043,2059,1175 c.c. e degli artt. 2 e 24 Cost., criticando la motivazione e denunciando che la Corte territoriale aveva omesso di realizzare un controllo degli atti funzionale a verificare il principio di causalità: lamenta al riguardo che non era stato esaminato il principale profilo dedotto e, cioè, che la querela della M. era stata proposta per uno scopo diverso da quello tutelato dall’ordinamento; e che l’interruzione del nesso causale statuita dalla Corte non teneva conto che si trattava di un reato perseguibile a querela, contrariamente all’impostazione della giurisprudenza richiamata che era riferita ai reati perseguibili d’ufficio.

2.2. Con il secondo si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 116 c.p.c., per mancata valutazione delle prove documentali consistenti, fra le altre cose, nella querela e nell’opposizione presentate dalla M., dalle quali si sarebbe potuto evincere che lo scopo perseguito era diverso da quello tutelato dall’ordinamento.

3. Entrambi i motivi sono inammissibili.

3.1. La prima censura, infatti, prospetta questioni di mero fatto già compiutamente affrontate dalla Corte territoriale (cfr. in particolare pag. 5 e 6 della sentenza).

3.1. Al riguardo, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato il principio, condiviso da questo Collegio e sul quale si sono fondati i giudici d’appello, secondo il quale anche la proposizione di querela per un reato perseguibile solo su iniziativa di parte possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante (o querelante), in caso di successivo proscioglimento o assoluzione, solo ove contengano sia l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato di calunnia, poichè, al di fuori di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante (o querelante), interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato) (cfr. da Cass. 5597/2015; Cass. 11898/2016; Cass. 30988/2018).

3.2. Tanto premesso, il motivo si risolve nella contrapposizione di una tesi difensiva all’argomentato convincimento della Corte territoriale, oltretutto fondato sulla consolidata giurisprudenza di questa Corte.

4. Ciò ridonda anche sulla seconda censura che postula una rivalutazione di merito della controversia, ed in particolare delle prove raccolte, preclusa in questa sede (cfr. Cass. 8758/2017; Cass. 18721/2018).

5. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio discusso fra le parti, consistente nell’omessa considerazione che le sue affermazioni, oggetto di denuncia, riguardavano gli abusi edilizi e che la Corte aveva impropriamente valorizzato, in motivazione, che la querela era riferita all’espressione volta ad alludere a “comportamenti familiaristici”.

5.1. Anche tale censura prospetta questioni di merito già affrontate dalla Corte territoriale (cfr. pag. 5 e 6 della sentenza) rispetto alla quali il riesame richiesto configura l’istanza di un inammissibile terzo grado di merito.

6. Con il quarto motivo, ancora, il ricorrente deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la nullità della sentenza per motivazione apparente visto che era stato del tutto omesso il ragionamento sotteso alla decisione, e l’indicazione delle ragioni di diritto sulle quali era fondata l’esclusione della fattispecie abusiva dedotta.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Il ricorrente, infatti, omette di considerare che questa Corte ha da tempo chiarito che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (cfr. Cass. SU 8053/2014); e che il vizio in questa sede denunciato, è riscontrabile solo ove il percorso argomentativo sia totalmente mancante ovvero esso risulti del tutto inidoneo ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. ex multis Cass. 22598/2018).

6.3. Nel caso in esame, la motivazione della sentenza presenta un percorso logico ben individuabile che, lungi dal presentarsi meramente assertivo, contiene, con modalità sintetica ma al di sopra della sufficienza costituzionale, le argomentazioni della Corte in base alle quali è stato escluso che potesse configurarsi l’abuso di diritto invocato (cfr. pag. 5 ultimo cpv e pag. 6 della sentenza impugnata) attraverso l’esame di tutti i passaggi della vicenda processuale in cui la M. aveva avuto il ruolo di protagonista.

Il vizio dedotto, pertanto, non trova riscontro nell’esame della sentenza.

7. Con il quinto motivo, infine, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.: lamenta che il giudice avea applicato il principio della soccombenza mentre “avrebbe potuto compensare le spese fra le parti”.

7.1. Il motivo è inammissibile.

Questa Corte ha affermato il principio, ormai consolidato secondo il quale in tema di compensazione delle spese processuali ex art. 92 c.p.c., poichè il sindacato di legittimità è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensarle, in tutto o in parte, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altre giuste ragioni senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione (cfr. Cass. 17692/2003; Cass. 2397/08; Cass. 20457/2011).

7.1. Nel caso in esame, le spese sono state poste a carico della parte soccombente, in applicazione della regola di cui all’art. 92 c.p.c. e ciò esclude il vizio cassatorio dedotto.

8. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

9. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrnte alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 15 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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