Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20290 del 23/08/2017
Cassazione civile, sez. lav., 23/08/2017, (ud. 13/04/2017, dep.23/08/2017), n. 20290
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18939-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
L.M.M.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in
ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO
VACIRCA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato
CLAUDIO LALLI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2669/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 19/07/2010, R. G. N. 1097/2008.
Fatto
RILEVATO
– che con sentenza del 19 luglio 2010, la Corte d’Appello di Roma, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Roma, accoglieva la domanda proposta da M.M.G. nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avente ad oggetto la declaratoria di nullità del contratto a termine concluso tra le parti per il periodo 25.10/31.12.2002 sulla base della seguente causale “esigenze tecniche, organizzative e produttive, anche di carattere straordinario, conseguenti a processi di riorganizzazione, vi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni
di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13 febbraio, 17 aprile, 30 luglio e 18 settembre 2002” sancendo la conversione a tempo indeterminato del rapporto e la spettanza del risarcimento del danno, limitatamente al triennio dalla data di illegittima interruzione;
che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto non assolto l’onere di specificazione che impone al datore la determinazione, già nell’accordo scritto, in modo diretto o indiretto, delle esigenze che, nel caso concreto, legittimano il ricorso al contratto a termine; legittima la conversione del rapporto; dovuto il risarcimento del danno nei limiti del triennio per l’operatività nella specie del disposto dell’art. 1227 c.c.; che per la cassazione di tale decisione ricorre la Società, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, peraltro proposto tardivamente, l.M., che ha poi presentato memoria, ammissibile, pur a fronte del controricorso tardivo, alla stregua dell’orientamento espresso da questa Corte (Cass. 4906/2017).
Diritto
CONSIDERATO
– che con il primo motivo, la Società ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2 e art. 4, comma 2, dell’art. 12 disp. gen., dell’art. 1362 e segg. e dell’art. 1325 c.c., censura il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine al mancato assolvimento dell’onere previsto dalla legge di specificazione della ragione posta a base dell’assunzione a termine del lavoratore conseguente all’indicazione nel contratto individuale di una pluralità di causali giustificative;
– che, con il secondo motivo il medesimo convincimento è censurato sotto il profilo motivazionale in relazione all’omessa considerazione dell’aspetto, qualificato come fatto controverso decisivo per il giudizio, dell’idoneità della compresenza nel contratto di più ragioni fra loro non incompatibili a porsi quali elementi di sufficiente specificazione dell’esigenza giustificativa;
– che il terzo motivo, rubricato con riguardo alla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2, art. 2697 c.c., artt. 115,116,244 e 253 c.p.c. e art. 421 c.p.c., comma 2, è inteso a censurare il malgoverno da parte della Corte territoriale delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova, accollato alla Società medesima in contrasto con la presunzione desumibile dal sistema della legge circa la ricorrenza delle invocate esigenze, superabile con onere della prova a carico del lavoratore e, comunque, di non aver consentito alla Società di assolvere a tale onere, pur ad essa non incombente, non ammettendo i mezzi di prova richiesti, anche eventualmente valendosi dei propri poteri istruttori d’ufficio;
– che tale ultima censura è riproposta nel quarto motivo sotto il profilo del vizio di motivazione, lamentandosi da parte della Corte territoriale la carenza dell’iter logico-argomentativo seguito ad esplicazione della mancata ammissione dei mezzi di prova richiesti dalla Società medesima ed al mancato esercizio dei propri poteri istruttori di ufficio in ordine all’accertamento dell’effettività dell’esigenza sostitutiva invocata.
che i quattro motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, risultano infondati, dovendosi, per un verso, condividere, in armonia con i precedenti pronunciamenti di questa Corte (cfr. già Cass. n. 2279/2010), l’interpretazione che del disposto del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 ha accolto la Corte territoriale nel senso della necessaria specificazione già nell’accordo scritto, sebbene anche per relationem alle causali all’uopo recate dai contratti collettivi, delle ragioni che, in concreto e, dunque, con riferimento al singolo contratto, giustificano l’apposizione del termine, ai fini dell’individuazione delle reali esigenze tenute presenti dal datore e del controllo circa la loro effettività e, per altro verso, ritenere l’adeguatezza dell’iter valutativo, comprensivo dell’analisi degli accordi collettivi richiamati nel contratto individuale, che sostiene il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine al mancato assolvimento del predetto onere di specificazione;
che il ricorso va, dunque, rigettato conseguendone la condanna alle spese secondo il principio della soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 aprile 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2017