Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2029 del 24/01/2022

Cassazione civile sez. VI, 24/01/2022, (ud. 01/07/2021, dep. 24/01/2022), n.2029

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20693-2020 proposto da:

D.B.G., rappresentato e difeso dagli avvocati LUCA

DONZELLI e FRANCESCO CAPOZZI e con i medesimi elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 5, presso lo studio

dell’avvocato XIMENA CASSANELLO, pec:

francesco.capozzi.milano.pecavvocati.it,

luca.donzelli.cert.ordineavvocatimilano;

– ricorrente –

contro

DARP SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’avvocato VITTORIO ACCARINO e domiciliata

ex lege presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA

CAVOUR, ROMA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1262/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 22/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata dell’1/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MOSCARINI

ANNA.

 

Fatto

CONSIDERATO

che:

1. La società Darp s.r.l. (di seguito Darp) citò in giudizio l’architetto D.B.G. per sentirne pronunciare la condanna al risarcimento danni per responsabilità contrattuale maturata nell’ambito dell’attività di progettazione e direzione dei lavori svolta per conto della società su due immobili siti in Milano.

Il giudizio fu definito dal Tribunale di Milano, con sentenza del 4/12/2014, di condanna dell’architetto D.B. al risarcimento dei danni in favore della società attrice per l’importo complessivo di Euro 149.100,00.

Nelle more del giudizio di appello, il D.B. pose in essere atti di disposizione del proprio patrimonio, trasferendo con tre distinti rogiti la nuda proprietà di propri beni immobili alla figlia D.B.S. e al figlio D.B.L. e, unitamente ai medesimi, l’usufrutto di uno degli stessi immobili al cognato S.R..

La Darp convenne allora il D.B. e gli acquirenti davanti al Tribunale di Milano chiedendo la revocatoria degli atti di trasferimento immobiliare lesivi della garanzia patrimoniale del credito.

2. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 822 del 2017, accolse la domanda, dichiarò ex art. 2901 c.c. l’inefficacia di tutti gli atti dispositivi, ordinò l’annotazione della sentenza a margine della trascrizione degli stessi atti e condannò i convenuti alle spese.

3. D.B.G., D.B.S. e S.R. proposero appello e la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1262 del 22/5/2020, ha rigettato il gravame confermando integralmente la sentenza di primo grado. Per quanto ancora qui di interesse ha ritenuto che il credito della Darp fosse anteriore agli atti di disposizione patrimoniale e che sussistessero tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria.

4. Avverso la sentenza D.B.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

La società Darp ha resistito con controricorso.

5. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di Consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c. La proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di Consiglio.

In vista dell’adunanza l’architetto D.B. ha depositato memoria.

Diritto

RITENUTO

che:

1. Con il primo motivo – omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di elementi e fatti decisivi consistiti nell’insussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 2901 c.c. – il ricorrente censura la sentenza per avere, a suo dire erroneamente, ritenuto sussistenti i presupposti dell’azione revocatoria.

1.1 Il motivo è palesemente inammissibile per plurimi e distinti profili.

1.1.1 Innanzitutto perché, in presenza di una “doppia conforme”, ravvisabile qualora la Corte d’Appello abbia, come nel caso in esame, reputato condivisibili le ragioni di fatto su cui è fondata la decisione impugnata, è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici del merito, in difetto di prova, da parte del ricorrente, della diversità degli elementi di fatto posti a base delle decisioni di primo e secondo grado (Cass., 6-3, n. 26097 dell’11/12/2014; Cass., 1, n. 26774 del 2212/2016; Cass., L, n. 20994 del 6/8/2019).

1.1.2 In secondo luogo il motivo è inammissibile perché è volto ad evocare un riesame nel merito dei presupposti dell’actio pauliana, accertamento compiuto dal Giudice di merito nell’ambito della sua discrezionale valutazione, con motivazione immune da censure.

La sentenza impugnata ha, infatti, ritenuto, quanto all’eventus damni, che l’atto del debitore rendesse più difficile la soddisfazione coattiva del credito, determinando anche la sola modificazione qualitativa del patrimonio, in assenza di prova, da parte del debitore stesso dell’insussistenza del rischio per il creditore in ragione di ampie residualità patrimoniali (Cass., 3, n. 3470 del 15/2/2007, Cass., 2, n. 26331 del 31/10/2008; Cass., 1, n. 8931 del 12/4/2013; Cass., 2, n. 1902 del 3/2/2015; Cass., 6-3, n. 27066 del 2021).

Quanto alla scientia damni la sentenza ha ritenuto che, trattandosi di atti di disposizione successivi al sorgere del credito, fosse sufficiente la semplice conoscenza che il debitore aveva del pregiudizio delle ragioni creditorie, desunta dalla circostanza che, a distanza di nemmeno due mesi dal deposito della sentenza di condanna emessa a suo carico, il D.B. aveva dismesso, con tre atti notarili successivi e nel complessivo arco temporale di nemmeno quattro mesi, la totalità del proprio patrimonio. Quanto al consilium fraudis, la Corte ha ritenuto che gli acquirenti dei beni non potessero non avere un intento fraudolento, in collusione con il debitore, per il vincolo di parentela, per la vicinanza temporale degli atti e per la conseguenzialità tra i medesimi.

2. Con il secondo motivo – nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver violato gli artt. 112,115,116 c.p.c. omessa pronunzia e motivazione circa la domanda formulata dal ricorrente di riduzione dell’azione revocatoria – il ricorrente lamenta che, nel rigettare il terzo motivo di appello, la Corte territoriale abbia omesso di pronunziarsi sulla sua domanda subordinata di riduzione dell’azione revocatoria ad uno soltanto dei beni oggetto di disposizione patrimoniale.

2.1 Il motivo è inammissibile in quanto le censure non rientrano né nel perimetro dell’art. 112 c.p.c. né in quello di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. E’ noto che il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c. riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass., 2, n. 1616 del 26/1/2021; Cass., n. 29254 del 2019).

Orbene, la sentenza impugnata non ha omesso di motivare in ordine alla domanda subordinata di riduzione dell’azione revocatoria ma l’ha considerata priva di giuridico fondamento con riguardo alla universalità della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.

Ne’ la censura veicolata dal ricorrente con riguardo agli artt. 115 e 116 c.p.c. rispetta le condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte.

E’ noto che, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.

E’ altresì noto che la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., S.U. n. 20867 del 30/9/2020).

Nessuna delle due condizioni risulta soddisfatta dalla formulazione della censura.

3. Con il terzo motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello, confermando in parte qua, la sentenza di primo grado, abbia condiviso la condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., comma 3, senza considerare che i convenuti avevano svolto una mera attività difensiva di guisa da non poter essere, in alcun modo, tacciati di mala fede o colpa grave.

3.1 Anche questo motivo è inammissibile per almeno due distinti profili.

Innanzitutto in quanto è volto sollecitare un riesame della valutazione, compiuta dai giudici di merito, sulla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3, che non è sindacabile da questa Corte, se non nei limiti del vizio di motivazione, insussistente nel caso di specie.

La sentenza impugnata ha ritenuto che, tra le finalità perseguite dall’art. 96 c.p.c., comma 3, il giudice di primo grado abbia inteso sanzionare l’uso strumentale del processo a fini dilatori e che tale valutazione sia da condividere per la presenza di elementi inequivoci e per la pervicace difesa opposta alle evidenti ragioni di parte creditrice.

In secondo luogo la sentenza è conforme all’orientamento ormai consolidato di questa Corte, che consente di dedurre la mala fede o colpa grave della parte soccombente dalla strumentalità dell’azione processuale nel suo complesso, per contrarietà al diritto vivente e alla giurisprudenza consolidata (Cass., S.U. n. 9912 del 20/4/2018), e che ritiene sufficiente anche la sola condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass., 63, n. 29812 del 18/11/2019).

Infine, con pronuncia del tutto appropriata alla fattispecie in esame, questa Corte ha precisato che, anche la proposizione di un ricorso per cassazione in violazione dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, o contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione del merito della controversia, giustifica la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3 (Cass., 3, n. 5725 del 27/2/2019; Cass., 3, n. 10327 del 30/4/2018).

4. Con il quarto motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e dei parametri di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, per eccessiva quantificazione della condanna alle spese – il ricorrente si duole di aver ricevuto una sproporzionata condanna al pagamento delle spese processuali perché il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi avrebbero erroneamente fatto riferimento ai valori medi dello scaglione e all’aumento del 30% in ragione del numero delle parti chiamate in causa dalla parte attrice.

4.1 Il motivo è inammissibile perché non costituisce idoneo esercizio del diritto di impugnazione.

La sentenza impugnata ha ritenuto gli importi fissati dal primo giudice conformi a tariffa sulla base del valore della causa, della natura delle questioni trattate e della pluralità delle parti convenute, essendo queste ultime litisconsorti necessarie, capo, quest’ultimo neppure impugnato e dunque coperto da giudicato. A fronte di tale statuizione il ricorrente si limita a lamentare il ricorso alle tariffe medie e all’aumento del 30% in ragione del numero delle parti, etc.: è evidente che il motivo non contiene una critica alla decisione impugnata né l’esplicita indicazione delle ragioni per le quali è errata, esso è da considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, un “non motivo”, come tale sanzionato con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, (Cass., 3, n. 359 dell’11/1/2005; Cass., 3, n. 17330 del 31/8/2015, Cass., 1 n. 22478 del 24/9/2018).

5. Conclusivamente il ricorso è dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di una somma, a titolo di contributo unificato, pari a quella versata per il ricorso, se dovuta.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 8.400 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile 3 della Corte di cassazione, il 1 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2022

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