Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20286 del 26/07/2019

Cassazione civile sez. III, 26/07/2019, (ud. 14/03/2019, dep. 26/07/2019), n.20286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26843-2017 proposto da:

COLABETON SPA, in persona del legale rappresentante, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA PIERO FOSCARI 40, presso lo studio

dell’avvocato VINCENZO COLAIACOVO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI,

rappresentato e difeso dagli avvocati MARIO D’ANGELO, WALTER

PUTATURO;

– controricorrente –

e contro

PA.MA., AXA ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1205/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 09/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/03/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

che:

1. Colabeton Srl ricorre, affidandosi a sei motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila che, in riforma della pronuncia del Tribunale di Pescara, aveva pienamente accolto la domanda proposta da P.D. per ottenere il risarcimento del grave danno alla persona subito a seguito di incidente sul lavoro, verificatosi in un cantiere per la ristrutturazione di un’immobile e causato da un violento colpo inferto sul volto del lavoratore da un tubo collegato alla betoniera in manovra.

Per ciò che interessa in questa sede, la Corte territoriale aveva escluso che ricorresse il 20% di concorso di colpa del P. riconosciuto, invece, dal giudice di primo grado.

2. L’intimato si è difeso con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, la società ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione degli art. 2947 e 2943 c.c.: assume che la Corte territoriale aveva erroneamente applicato il termine di prescrizione omettendo di considerare che, quanto alla decorrenza, non poteva farsi riferimento alla previsione, più vantaggiosa, contenuta nell’art. 2947 c.c., comma 3 in quanto, nel caso di specie, il termine previsto per la prescrizione del reato e quello relativo alla azione risarcitoria proposta in sede civile era il medesimo.

A ciò doveva conseguire, in tesi, la decorrenza dalla data del fatto ((OMISSIS)) e non da quella della sentenza penale (5.6.1996).

1.1. Contesta inoltre la validità degli atti interruttivi, in quanto provenienti dal difensore non munito da procura.

1.2. Tutte le censure sono infondate.

Questa Corte, infatti, sulla prima questione sollevata ha affermato il principio al quale il Collegio intende dare seguito secondo cui “dal disposto dell’art. 2947 c.c., comma 3 emerge, per l’ipotesi in cui il fatto causativo del credito costituisce anche reato, il regime giuridico in base al quale si applica il termine prescrizionale più lungo: quello della prescrizione penale se è di durata maggiore, per evitare di estinguere un reato entro un termine e le conseguenze civilistiche entro un altro. Quando, tuttavia, il reato si estingue per una ragione diversa dalla prescrizione, viene meno la predetta ragione e si applica il termine civilistico, omogeneo alla natura della controversia, ma il suo “dies a quo”, in considerazione della natura ontologica del fatto causativo (che resta, ad onta della estinzione, quella di reato), è il momento nel quale si è estinta il reato stesso, ovvero è divenuta irrevocabile la sentenza che lo ha accertato o ha pronunciato i suoi effetti.” (cfr. Cass. 530/2002; Cass. 3762/2007; Cass. 13218/2012).

1.3. Sul secondo rilievo, ancora, è stato ritenuto con orientamento ormai consolidato che “in tema di interruzione della prescrizione, posto che l’efficacia interruttiva va riconosciuta all’atto di costituzione in mora anche quando sia indirizzato al rappresentante del debitore, idoneo a produrre l’effetto di cui all’art. 2943 c.c. è anche l’atto inviato dal difensore del creditore a quello del debitore, purchè sia stato previamente accertato che detto legale possa considerarsi rappresentante, effettivo o apparente, del debitore medesimo, e ciò per avere risposto, in nome e per conto del cliente, alla richiesta di pagamento, facendo valere in via stragiudiziale le ragioni del proprio assistito.

Infatti, al fine anzidetto, l’effettività dei poteri rappresentativi è data dal conferimento del mandato difensivo, senza che sia necessaria la procura scritta ex art. 83 c.p.c., prevista solo per lo svolgimento dell’attività giudiziale; l’apparenza di detti poteri, invece, scaturisce da un comportamento colposo dell’apparente rappresentato, tale da ingenerare il ragionevole affidamento del creditore (o, nella specie, del suo difensore) circa il loro valido conferimento.” (cfr. Cass. 25894/2011; Cass. 5208/2015).

1.4. La Corte d’appello, su entrambe le questioni, ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza sopra riportata, ragione per cui le censure devono essere rigettate.

2. Con il secondo motivo, la società ricorrente, deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, ovvero sulle modalità di verificazione del sinistro e sulla sussistenza di un caso fortuito: lamenta che la Corte territoriale “non si sarebbe soffermata ad esaminare tutte le doglianze e le argomentazioni delle parti ma avrebbe proceduto “a sommi capi”, indicando apoditticamente e senza puntuale individuazione i risultati dell’istruttoria di primo grado” (cfr. pag. 12 del ricorso).

2.1. Il motivo è inammissibile.

Esso, infatti, oltre a non presentare una rubrica completa della specifica indicazione della norma violata, ove si ritenga riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omette di indicare il fatto storico che non sarebbe stato esaminato.

2.2. Al riguardo, questa Corte ha reiteratamente affermato che “il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e

proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo.” (cfr. Cass. 17761/2016; Cass. 22238/2017; Cass. 16703/2018; Cass. 27415/2018).

2.3. E, tanto premesso, la censura, lungi dal riferirsi ad un individuato fatto storico connotato da tale caratteristica, tale da poter determinare una diversa soluzione della controversia, si limita a prospettare l’omesso esame delle doglianze e delle argomentazioni delle parti (cfr. pag. 12 punto I del n. 2) che, da un lato, non sono idonee a configurare il vizio dedotto e, dall’altro, potrebbero eventualmente ridondare soltanto rispetto ad una valutazione della sufficienza costituzionale della motivazione che, nel caso in esame, risulta congrua e logica.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la “violazione di legge (artt. 2043 e 2048)”: assume che la Corte, a fronte della specifica contestazione sul titolo di responsabilità che era stato ascritto alla società, si era limitata ad affermare che la vicenda doveva essere ricondotta all’art. 2043 c.c., e che gli elementi di prova acquisiti deponevano per la sussistenza del profilo di colpa in capo al conducente della betoniera che non aveva osservato le fondamentali norme di prudenza, omettendo così di ripercorrere la dinamica del sinistro.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. Preliminarmente, infatti, anche tale censura presenta una rubrica incompleta; in secondo luogo, la critica risulta generica e prospetta questioni di mero fatto che mascherano una richiesta di rivalutazione di merito delle emergenze processuali che sono state correttamente qualificate dalla Corte territoriale che ha ricostruito in modo congruo e logico l’incidente, tanto da aver riformato la sentenza proprio escludendo dalla condotta del P. qualsiasi forma di corresponsabilità (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). 3.3. Sulla base di tali premesse, il Collegio ritiene che la censura contenga una surrettizia istanza volta ad ottenere un inammissibile “terzo grado” di giudizio (cfr. al riguardo Cass. 8758/2017; Cass. 16721/2018).

4. Con il quarto ed il quinto motivo, i ricorrenti deducono l’omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione fra le parti, ovvero i presupposti dell’affermazione di responsabilità della Colabeton e quelli idonei a configurare la responsabilità esclusiva o quanto meno, concorsuale, della vittima del sinistro in relazione alla circostanza che egli non indossava il casco protettivo.

4.1. Entrambe le censure, quasi interamente sovrapponibili fra loro, chiedono, così come la precedente, una rivalutazione di merito della controversia a fronte di una motivazione sul punto (cfr. pag. 6 terzo cpv della sentenza), che ha compiutamente valutato le emergenze processuali (in primis, il nesso di causalità fra l’evento ed il danno e l’esclusione di corresponsabilità del P. per il mancato utilizzo del casco che, secondo la convincente ricostruzione del CTU, non avrebbe evitato le gravi lesioni subite) con un percorso argomentativo certamente al di sopra della sufficienza costituzionale.

4.2. Le doglianze, pertanto devono essere dichiarate inammissibili.

5. Con il sesto motivo, infine, si deduce la violazione dell’art. 2059 c.c.: la società ricorrente contesta infatti l’avvenuto risarcimento del danno morale ed assume che tale quantificazione avrebbe determinato una illegittima duplicazione delle voci di danno riconosciute.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Posto che la Corte territoriale ha dato atto di aver applicato le tabelle milanesi e di aver liquidato il danno morale (consistente nella sofferenza interiore, nel turbamento dello stato d’animo, oltre che nella lesione della dignità umana conseguenti all’evento) mediante la personalizzazione di quanto dovuto a titolo di danno biologico ed indicando il range entro il quale la somma determinata è stata collocata, si osserva che non ricorre la duplicazione contestata.

5.3. Questa Corte, infatti, ha avuto modo di chiarire che:

a. le tabelle del Tribunale di Milano – che a seguito del noto arresto di questa Corte portato da Cass. 12408/2011 sono state ritenute come quelle idonee a garantire l’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale – non hanno cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico, ma hanno provveduto ad una liquidazione congiunta della fattispecie “danno non patrimoniale” per la parte derivante dalla lesione permanente all’integrità psicofisica collegata, in termini di dolore e sofferenza soggettiva, al danno biologico;

b. la fattispecie del danno morale, da intendersi come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, ha trovato conferma e rinnovata espressione già in risalenti interventi normativi, quali il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 e il D.P.R. n. 30 ottobre 2009, n. 181, che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente, tra la “voce” di danno c.d. biologico e la “voce” di danno morale;

c. da tale distinzione il giudice del merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto (cfr. al riguardo anche Cass. 18641/2011);

d. tale principio è stato anche ribadito nella più recente L. n. 124 del 2017 (cfr. art. 1, comma 17) che ha modificato l’art. 138 C.d.A, prevedendo distintamente, nella declinazione della fattispecie del “danno non patrimoniale da lesioni di non lieve entità” il danno biologico (lett. a) come la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito), ed il danno morale (lett. e) quale conseguenza derivante da lesione all’integrità fisica, prevedendo tuttavia che “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale di cui al comma 2, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30 per cento” (cfr. art. 138, comma 3 Codice delle Assicurazioni, come modificato dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 17).

5.4. Ed è stato ribadito che il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dalle disposizioni sopra richiamate, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana che, ove non sia direttamente ascrivibile al pregiudizio fisico riportato ma configuri un danno ulteriore ad esso conseguente (Cass. civ. Sez. 3, 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ. Sez. Lav. 16 ottobre 2014 n. 21917) ben può essere oggetto di ulteriore quantificazione. In sostanza, le tabelle di liquidazione offrono i parametri di base ai quali attenersi, in vista di valutazioni tendenzialmente unitarie; ma l’esigenza dell’integrale e adeguato risarcimento dei danni impedisce di attribuire loro efficacia vincolante e inderogabile ed impone di valutarne l’adeguatezza ad assicurare al danneggiato l’integrale risarcimento, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto (cfr. Cass. 16197/2015).

5.5. Tale principio deve ritenersi ormai consolidato essendo stato definitivamente chiarito che “la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (come quella prevista per il danno patrimoniale) deve essere intesa nel senso di attribuire al soggetto danneggiato una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una ipotetica simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di “vulnus” “interno” al patrimonio del creditore), quanto sotto il profilo dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione, considerata in ogni sua forma ed in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche “(cfr. Cass. 901/2018); e che “non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (cfr. Cass. 7593/2018; Cass. civ. n. 27482/2018).

5.6. Tanto premesso, si osserva che la Corte territoriale ha fatto una corretta applicazione di tali principi, condividendo la quantificazione del danno formulata dal primo giudice sulla base della CTU, ed affrontando anche compiutamente la censura riferita al sospetto di duplicazione delle poste risarcitorie, in relazione alla quale è stata resa una motivazione che rispetta la sufficienza costituzionale.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5600,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre ad accessori e rimborso spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

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