Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20273 del 04/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2011, (ud. 30/06/2011, dep. 04/10/2011), n.20273

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14153/2008 proposto da:

S.M., T.C., domiciliati in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato ZEZZA Luigi, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, rappresentata e difesa

dall’avvocato TOSI PAOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 159/2007 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 16/06/2007 R.G.N. 285/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/06/2011 dal Consigliere Dott. FILIPPO CURCURUTO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega GIUSEPPE VELLA (presenta

delega difensore non costituito);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’Appello di Brescia, rigettando l’appello, ha confermato la sentenza che aveva dichiarato legittime le sanzioni disciplinari irrogate da Poste Italiane s.p.a. a T.C. e S.M. per il rifiuto di svolgere prestazioni lavorative secondo il sistema cosiddetto “dell’area territoriale”.

La Corte di merito ha osservato anzitutto che nessuna norma prevede il diritto del lavoratore di essere convocato a sua difesa nel luogo e durante l’orario di lavoro, salvo che la convocazione assuma modalità abnormi, il che, nella specie, doveva escludersi, trattandosi di convocazione avvenuta in orario ordinario a (OMISSIS), luogo facilmente raggiungibile dalla sede di lavoro di (OMISSIS).

La Corte ha poi ritenuto che l’adesione allo sciopero indetto dal Cobas Pt non poteva escludere la colpa dei lavoratori nell’inadempimento delle loro obbligazioni contrattuali. Ha messo in rilievo, al riguardo, che il sistema già detto ad “areola” in base al quale la società Poste Italiane aveva organizzato il recapito della corrispondenza comportava la suddivisione del territorio in aree di recapito (c.d. areole) costituite da zone adiacenti, e l’assegnazione dell’areola ai titolari di zona, tenuti al recapito dell’intero corriere nella propria zona, nonchè a collaborare, unitamente agli altri colleghi titolari delle altre zone componenti l’areola, all’azzeramento del corriere destinato alla zona il cui titolare sia assente, con un compenso forfettario da dividere fra gli operatori coinvolti nella sostituzione.

Secondo la Corte l’orario settimanale normale per gli addetti al recapito è di 36 ore, nell’ambito delle quali poteva esser chiesto all’addetto al recapito nel caso di impossibilità o insufficienza dell’agente di scorta di sostituire colleghi assenti con ripartizione del lavoro fra i presenti. Quindi non si trattava di lavoro straordinario o comunque di prestazione non ordinaria, fin quando non fosse superato il limite dell’orario settimanale di 36 ore.

La Corte ha poi notato, in sostanza, che l’accordo 29 luglio 2004 dettando una più disciplina più specifica aveva fissato un’ orario di recapito di 36 ore settimanali, aveva previsto la compensazione settimanale della prestazione giornaliera ed aveva altresì stabilito l’obbligo aggiuntivo di sostituzione dell’agente assente appartenente all’area di riferimento, entro il limite mensile di 10 ore e quello giornaliero di 2 ore. Tale accordo non poteva considerarsi peggiorativo rispetto al ccnl ed era da ritenere obbligatorio anche per i non aderenti alle organizzazioni stipulanti ai quali il ccnl, che dell’accordo costituiva la fonte di legittimazione, si applicava in forza del contratto individuale.

Conseguentemente, il rifiuto di effettuare le prestazioni cosiddette di “areola” , poi “area territoriale”, eccedenti le 6 ore giornaliere senza alcuna prova del superamento dell’orario settimanale costituiva inadempimento contrattuale. Pertanto le sanzioni irrogate agli appellanti risultavano del tutto legittime. Inoltre, quanto alla posizione dell’appellante S., il rifiuto di rendere la prestazione riferita al giorno 14 marzo 2005 era rimasto privo di qualunque giustificazione.

S.M. e T.C. chiedono la cassazione di questa sentenza con ricorso per otto motivi.

Poste Italiane resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e o falsa applicazione degli artt. 2106, 1175 e 1375 cod. civ., e della L. n. 300 del 1970, art. 7.

Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte si è orientata anche di recente nel senso che in tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, si interpreta nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte, oralmente o per iscritto, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale. Ne consegue che, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere “sentito a difesa” nel termine previsto dallo stesso art. 7, comma 5, dello statuto dei lavoratori, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, senza che tale istanza – fuori dai casi in cui la richiesta appaia ambigua ed incerta – sia sindacabile dal datore di lavoro in ordine all’effettiva idoneità difensiva, rispondendo tale esito all’esigenza di consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio tra le parti e all’espressa previsione dell’impossibilità di applicare qualsiasi sanzione più grave del rimprovero verbale senza che il lavoratore, che ne abbia fatto richiesta, sia sentito a sua discolpa. (Cass. 12978/2011, conforme a Cass. 5864/2010).

Peraltro la valutazione della concreta condotta delle parti e in particolare l’accertamento che le modalità di convocazione del lavoratore non siano contrarie a buona fede o alla lealtà contrattuale è rimessa al giudice di merito ed è insindacabile se congruamente motivava, come è avvenuto nella specie, nella quale la Corte territoriale ha ritenuto legittima la convocazione del dipendente in orario ordinario a (OMISSIS), luogo facilmente raggiungibile dalla sede di lavoro, considerando anche le dimensioni dell’azienda e la sua organizzazione sul territorio rispondente a direzioni diverse, ognuna con una sua competenza quanto ai rapporti con il personale.

Il secondo motivo di ricorso contenente denunzia di omessa, sufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti sarebbe inammissibile rispetto al parametro invocato (art. 360 c.p.c., n. 5) poichè in esso manca il momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. Sez. un. 20603/2007 ed altre successive conformi). In realtà, con tale motivo si sostiene che nella fattispecie considerata ogni censura di ordine disciplinare spetterebbe alla Commissione di garanzia. Si pone quindi una questione di diritto rispetto alla quale sarebbe stato necessario formulare il relativo quesito ex art. 366 bis c.p.c., il che non è avvenuto. Inoltre, tale questione non risulta trattata nella sentenza impugnata e deve considerarsi nuova.

Conviene ora prendere in esame il quarto ed il sesto motivo di ricorso.

Il quarto motivo, contenente denunzia di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, è inammissibile per sostanziale mancanza del momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) qui necessario in relazione al contenuto del motivo, che – come già osservato- deve circoscriverne puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. Sez. un. 20603/2007 cit. ed altre successive conformi). Il fatto controverso e decisivo per il giudizio viene infatti indicato “nello sciopero oggetto di causa siccome storicamente proclamato ed attuato” sicchè il momento di sintesi è sostanzialmente assente per la estrema genericità della menzionata indicazione.

Il sesto motivo, contenente denunzia di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, è inammissibile per mancanza anche formale del sopraindicato momento di sintesi.

Possono ora essere esaminati il terzo, il quinto e il settimo motivo di ricorso.

Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 2104, 2105 e 2016 c.c..

Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’accordo collettivo 29 luglio 2004.

Il settimo motivo di ricorso denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., in relazione all’accordo collettivo 29 luglio 2004, e dell’art. 40 Cost..

I tre motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

Questa Corte ha avuto già occasione di occuparsi di analoga questione decidendo di un ricorso molto simile a quello oggi in esame (v. Cass. 547/2011). Quindi, richiamando gli argomenti utilizzati in quella decisione, dai quali non vi è ragione per discostarsi, può affermarsi che “la prima questione, in ordine logico sistematico, è quella di stabilire se l’astensione dal lavoro oggetto di questa controversia rientri o meno nel concetto di sciopero. Se il comportamento dei lavoratori che hanno aderito all’astensione proclamata dal Cobas ricorrente è una forma di sciopero, la sanzione disciplinare è illegittima e la sua applicazione costituisce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 28, in quanto lo sciopero è un diritto costituzionalmente sancito e il suo esercizio sospende il diritto al corrispettivo economico, ma rende immune il comportamento da sanzioni. Se, al contrario, non è sciopero, il rifiuto della prestazione costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali e l’applicazione della sanzione disciplinare è legittima.

Non esiste una definizione legislativa dello sciopero. I lineamenti del concetto sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle relazioni industriali. Peraltro, la stessa dottrina che chiede all’interprete questa attenzione al dato storico-sociologico ed una particolare duttilità ermeneutica, al tempo stesso precisa che non può essere definita sciopero ogni manifestazione di lotta che i soggetti agenti designino come tale.

Lo sciopero nei fatti si risolve nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione. Questa mancata esecuzione si estende per una determinata unità di tempo: una giornata di lavoro, più giornate, oppure periodi di tempo inferiori alla giornata, sempre che non si vada oltre quella che viene definita “minima unità tecnico temporale”, al di sotto della quale l’attività lavorativa non ha significato esaurendosi in una erogazione di energie senza scopo.

In tale logica, la giurisprudenza, dopo alcune oscillazioni, riportò entro la nozione di sciopero anche la mancata prestazione del lavoro straordinario (Cass., 28 giugno 1976, n. 2480). L’astensione anche in questo caso ha una precisa delimitazione temporale e concerne tutte le attività richieste al lavoratore.

Al contrario, ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere. E’ il caso del c.d. sciopero delle mansioni, comportamento costantemente ritenuto estraneo al concetto di sciopero e pertanto illegittimo dalla giurisprudenza (Cass., 28 marzo 1986, n. 2214).

Il rifiuto di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell’obbligo di sostituzione previsto dal contratto collettivo non è astensione dal lavoro straordinario, nè astensione per un orario delimitato e predefinito, ma è rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute. Situazione assimilabile a quella del c.d. sciopero della mansioni, perchè, all’interno del complesso di attività che il lavoratore è tenuto a svolgere, l’omissione concerne uno specifico di tali obblighi.

L’astensione pertanto non può essere qualificata sciopero e resta un mero inadempimento parziale della prestazione dovuta. Di conseguenza, la sanzione disciplinare non è illegittima e il comportamento datoriale non è antisindacale.

Questa conclusione non solo è in linea con le coordinate generali prima tracciate, ma anche con la specifica giurisprudenza di legittimità sull’argomento: Cass. 25 novembre 2003, n. 17995, occupandosi di una situazione analoga, concernente il sistema di sostituzioni entro l’ambito della c.d. areola (antecedente dell’area territoriale nell’organizzazione delle Poste), ha affermato che il rifiuto di effettuare la sostituzione del collega assente, è “rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni, legittimamente richiedibili al lavoratore” e “non costituisce esercizio del diritto di sciopero”, con la conseguenza che deve escludersi l’antisindacalità della scelta datoriale di applicare una sanzione disciplinare”.

Sebbene, come detto, nel ricorso in esame la questione concernente le determinazioni della Commissione di garanzia non è stata ritualmente proposta, ragioni di completezza argomentativa impongono di svolgere in proposito alcune sintetiche considerazioni.

Si è già detto del perchè l’astensione in esame non costituisce esercizio del diritto di sciopero. Deve aggiungersi che la nozione di sciopero proposta dal ricorrente non è condivisibile, perchè non può definirsi sciopero ogni astensione sindacale che comporti una riduzione del servizio. Nè, invero, lo sciopero si caratterizza per il fatto che determina un danno per gli utenti. Questo può essere un effetto collaterale, ma non è elemento costitutivo dello sciopero;

molti scioperi non danneggiano gli utenti.

La definizione di sciopero proposta dal sindacato ricorrente invero richiama l’espressione usata dalla Commissione di garanzia nel provvedimento del 7 marzo 2002 “allegato anche al ricorso in esame” che peraltro non si occupa delle astensioni contro l’accordo sulle aree territoriali, che del resto è del 2004, bensì in generale gli scioperi dei dipendenti delle Poste. In ogni caso, tale provvedimento non incide sulla soluzione delle questioni oggetto di questa controversia.

Nel delineare il suo campo di applicazione, la delibera precisa che “la presente disciplina si applica ad ogni forma di azione sindacale, comunque denominata, comportante una riduzione del servizio tale da determinare un pregiudizio per tutti gli utenti”. Ed aggiunge che si applica anche al caso di astensione dal lavoro straordinario.

La Commissione, con tali espressioni, si prefiggeva solo, nella sua ottica specifica, di limitare le conseguenze di azioni sindacali implicanti danni per l’utenza, siano o non siano qualificabili come sciopero. Qualora si tratti di azioni qualificabili come sciopero varranno le esenzioni dal diritto comune dei contratti derivanti dall’art. 40 Cost.. Al contrario, in caso di azioni estranee a tale ambito, l’esenzione non opererà e si applicheranno le regole civilistiche ordinarie in materia di inadempimento delle obbligazioni prima esaminate. L’intervento della Commissione di garanzia non incide su questo ordine di conseguenze, nè, in caso di inadempimento della prestazione non qualificabile come sciopero, incide sul potere disciplinare del datore di lavoro”.

Questi argomenti sono idonei a giustificare il rigetto dei tre motivi in esame.

L’ottavo motivo di ricorso denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., art. 1372 c.c., e segg., dell’art. 2107 c.c., degli artt. 28 e 30 ccnl Poste italiane 11 luglio 2003.

Il motivo deve esser disatteso, giacchè come esattamente sottolineato nella sentenza impugnata l’accordo 29 luglio 2004 fondandosi sul ccnl non può esser rifiutato dal lavoratore al quale il ccnl si applica in base al contratto individuale.

In conclusione, l’intero ricorso va rigettato con condanna dei ricorrenti alle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00 per spese, nonchè Euro 2.500,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2011

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