Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20263 del 04/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2011, (ud. 09/06/2011, dep. 04/10/2011), n.20263

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19873-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato DI MODICA SERGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.T., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA B.

CAIROLI 2, presso L’ASSOCIAZIONE DOMINA, rappresentato e difeso

dall’avvocato CANDREVA BRUNELLA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 643/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 22/06/2006 R.G.N. 459/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega DI MODICA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 4/5 – 22/6/06 la Corte d’appello di Catanzaro accolse l’impugnazione proposta da C.T. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Crotone del 30/9 – 14/12/04, che gli aveva respinto la domanda diretta alla declaratoria di illegittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato il 14/7/00, e per l’effetto dichiarò la nullità di tale termine accertando che a decorrere da quest’ultima data si era instaurato tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con condanna della società appellata al ripristino dello stesso e al pagamento delle retribuzioni maturate, unitamente agli accessori di legge, dal 11/2/04, il tutto con l’attribuzione delle spese del doppio grado del giudizio al difensore del lavoratore. La Corte territoriale pervenne a tale decisione dopo aver escluso che il rapporto in esame potesse considerarsi risolto per mutuo consenso e che, una volta accertato che il contratto era stato concluso in epoca successiva al limite temporale del 30/5/98 fissato dalla contrattazione collettiva per il ricorso alle assunzioni in concomitanza delle ferie, la società postale avrebbe dovuto farsi carico di dimostrare, in base alle disposizioni della L. n. 230 del 1962, la specifica causa dell’assunzione a termine ed il nominativo o i nominativi dei lavoratori sostituiti, mentre ciò non era avvenuto.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società s.p.a.

Poste Italiane che affida l’impugnazione a sette motivi di censura.

Resiste con controricorso il C.. Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 346, 434 e 112 c.p.c.. In particolare la ricorrente evidenzia che le deduzioni svolte in appello dal lavoratore avverso il capo della sentenza di prime cure che aveva accolto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso non avevano il necessario grado di specificità tale da farle assurgere a vero e proprio motivo di impugnazione, per cui in relazione a tale autonomo capo della decisione doveva ritenersi essersi formato il giudicato interno che avrebbe potuto essere rilevato anche d’ufficio dalla Corte di merito. Invece, quest’ultima, nel farsi carico di trattare la questione della dedotta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, aveva finito per violare il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c..

Il motivo è infondato.

Invero, è sufficiente leggere il tenore delle deduzioni dell’appellante, come riportate dalla stessa difesa dell’odierna ricorrente a pagina 5 e 6 del presente ricorso, per rendersi conto che le stesse erano tali da non poter consentire alla Corte di merito di esimersi dal risolvere la questione della risoluzione per mutuo consenso eccepita in prime cure dalla società ed accolta da quel giudice, per cui è da escludere che la Corte d’appello sia incorsa nel lamentato vizio di ultrapetizione.

Infatti, nel ricorso d’appello il lavoratore sottoponeva al giudicante il rilievo della natura imprescrittibile dell’azione di nullità parziale della clausola temporale, richiamava uno specifico precedente della Corte suprema (Cass. n. 15403/2000) sulla ininfluenza del dato temporale ai fini della verifica della persistenza dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., evidenziava che l’onere della prova per la dimostrazione della estinzione del rapporto per mutuo consenso non poteva gravare su lavoratore, come asserito dalla società appellata, ma su chi voleva avvalesi in giudizio di una tale causa estintiva del rapporto lavorativo ed infine faceva presente che quest’ultima circostanza non era stata provata, nè la controparte si era offerta di provare alcunchè.

2. Col secondo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1175 c.c., art. 1375 c.c., art. 2697 c.c., art. 1427 c.c., art. 1431 c.c., art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) sostenendosi che la Corte territoriale avrebbe erroneamente interpretato la norma di cui all’art. 1372 c.c., posto che l’inerzia del lavoratore che rinuncia a contestare la pretesa illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro è elemento sufficiente ad integrare la sua volontà negoziale allorquando una tale durata abbia avuto, come nella fattispecie, una congrua durata;

inoltre, il giudice d’appello avrebbe errato nei porre a carico della società l’onere di provare le circostanze rivelatrici del comportamento concludente del lavoratore, dai momento che quest’ultimo non aveva dedotto, nè tantomeno dimostrato, l’esistenza di circostanze atte a rivelare una sua volontà idonea a contrastare la presunzione di estinzione dei rapporto per mutuo consenso.

Il motivo è infondato.

Invero, l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’11/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010;

Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 de 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell111/12/02) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso dei tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabtlità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).

Tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 del 1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).

3. Col terzo motivo è, infine, lamentata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto: artt. 346, 434, 437 e 112 c.p.c. e si sostiene quanto segue: il primo giudice aveva spiegato che il limite temporale del 30.4.98 era riferito solo all’ipotesi della ricorrenza delle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione dell’ente di cui all’art. 8 del ccnl del 25/9/97 e su tale punto della decisione non era stato svolto alcun motivo specifico d’appello, per cui la Corte di merito non avrebbe potuto estendere il proprio esame su un tale capo della sentenza ormai coperto da giudicato, se non incorrendo, come avvenuto, in un vizio di ultrapetizione.

Anche tale motivo è infondato: occorre, infatti, rilevare che l’impugnativa specifica delle singole motivazioni della sentenza di primo grado, legate alla causale rappresentata dall’assunzione per necessità di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno – settembre, quali l’asserita insindacabilità delle ipotesi previste dalla contrattazione, l’affermata notorietà della carenza di organico in detto periodo di ferie, la non necessità di indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, non potevano, di certo, esimere il giudice d’appello dal dovere di esaminare la normativa collettiva di riferimento, rivisitandola anche negli aspetti vagliati in prime cure, per cui è da escludere il denunziato vizio di ultrapetizione. Tra l’altro, la diversa soluzione fornita al riguardo dal giudice d’appello non è l’unica ragione del rigetto del gravame, posto che la Corte di merito non ha motivato la decisione di illegittimità dell’apposizione del termine esclusivamente sul rilievo del superamento del limite temporale del 30/4/98 posto dalla fonte collettiva per il ricorso ad un tale tipo contrattuale, ma ha anche chiaramente evidenziato che in ogni caso la società era venuta meno all’onere probatorio della specificazione, nel contratto così stipulato, sia della causa dell’assunzione a termine, sia dei nominativi del singolo lavoratore o dei lavoratori sostituiti, per cui nell’economia della decisione finale la questione oggetto della presente censura non era da sola decisiva.

4. Col quarto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto: della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 ccnl 26/11/94, dell’accordo integrativo del 25/9/97, dell’accordo del 27/4/98 in connessione con l’art. 1362 e ss. cod. civ. (art. 360 c.p.c., n. 3). Si deduce, in concreto, che il giudice d’appello ha omesso di valutare nel loro significato letterale i documenti e gli atti di causa, ritenendo inopinatamente che la stipulazione del contratto “de quo” traeva origine dall’accordo del 25/9/97, integrativo dell’art. 8 del ccnl 26/11/94, con riferimento all’ipotesi delle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione dell’ente, unica ipotesi, questa, per la quale vigeva il limite temporale del 30/4/98 ed, oltretutto, completamente diversa da quella concretamente realizzatasi nella fattispecie, posto che l’assunzione in esame era stata determinata dalla necessità di espletamento del servizio in concomitanza delle assenze per ferie ne periodo giugno – settembre e per la quale non era stato fissato il predetto limite.

5. Col quinto motivo è denunziata l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5), sostenendosi che la Corte di merito non avrebbe spiegato le ragioni della ritenuta operatività del termine del 30/4/98 per entrambe le ipotesi di cui all’art. 8 del ccnl del 1994, vale a dire sia quella delle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione dell’ente, sia quella della necessità di espletamento del servizio in concomitanza delle assenze per ferie nel periodo estivo, pur ricavandosi dalla lettura degli accordi integrativi che si trattava di un limite temporale contemplato solo per la prima delle summenzionate causali.

6. Col sesto motivo si segnala la violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b) art. 8 ccnl 26/11/94, della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 1362 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e si pongono i seguenti quesiti di diritto:

Dica la Suprema Corte se un’ipotesi di legittima apposizione del termine individuata dalla contrattazione collettiva in forza della L. n. 56 del 1987, art. 23 è ipotesi del tutto autonoma e diversa da quella contemplata in via generale e, pertanto, essa risulta sottratta alle condizioni di legittima apposizione del termine previste dalla disciplina legislativa; dica la Suprema Corte se l’ipotesi di legittima apposizione del termine prevista dall’art. 8 CCNL 26/11/94 (in forza della delega rilasciata dalla L. n. 56 del 1987 alle parti collettive) relativa alla “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno – settembre”, in quanto ipotesi diversa ed ulteriore rispetto a quella prevista in via generale dalla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b) e dalla L. n. 18 del 1978, art. 1, comma 2, lett. b) non richiede, quale requisito di legittimità del contratto, l’indicazione del nome del soggetto sostituito e del periodo della sostituzione e la necessità di preventiva autorizzazione dell’ispettorato del lavoro.

In sostanza, attraverso tali quesiti, la ricorrente contesta la decisione impugnata nella parte in cui, reputando scaduta al 30/5/98 l’efficacia temporale della previsione collettiva di cui all’art. 8 del ccnl 26/11/94, ha dichiarato nullo il contratto in esame sulla scorta della considerazione che l’unica norma ad esso applicabile era quella di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b) così giungendo alla conclusione che non erano state rispettate le condizioni previste da quest’ultima fonte normativa per l’assunzione a termine finalizzata alla sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, vale a dire l’indicazione del nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione.

Osserva la Corte che i motivi n. 4, 5 e 6 vanno trattati congiuntamente in quanto implicano nel loro insieme la soluzione unitaria della questione dell’interpretazione del contratto collettivo del 26/11/94 e dei relativi accordi integrativi citati dalla ricorrente ai fini della verifica della correttezza dell’iter logico-argomentativo impugnato, in special modo con riferimento al problema della efficacia dei limiti temporali previsti per il ricorso alle tipologie contrattuali oggetto di causa.

Tuttavia, una tale operazione non è allo stato possibile non avendo la ricorrente provveduto a produrre il testo del contratto collettivo e degli accordi integrativi diffusamente citati, in spregio a quanto previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, con conseguente improcedibilità degli stessi motivi. Oltretutto, non può non rilevarsi che la produzione stessa del contratto collettivo non è nemmeno indicata tra gli atti annoverati in calce al presente ricorso, subito dopo le conclusioni.

Si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 15495 del 2/7/2009) che “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui i ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato D.Lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dall’art. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ispecie, con la regola prevista dall’art. 1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa”.

Si è, altresì, precisato (Cass. sez. lav. Ordinanza n. 11614 del 13/5/2010) che “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilttà del ricorso per cassazione, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – è soddisfatto solo con il deposito da parte del ricorrente dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, senza che possa essere considerata sufficiente la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui sia stato effettuato il deposito di detti atti o siano state allegate per estratto le norme dei contratti collettivi. In tal caso, ove pure la S.C. rilevasse la presenza dei contratti e accordi collettivi nei fascicoli del giudizio di merito, in ogni caso non potrebbe procedere al loro esame, non essendo stati ritualmente depositati secondo la norma richiamata”, (conforme anche a Cass. sez. lav. n. 4373 del 23/2/2010).

Da ultimo le sezioni unite di questa Corte, con sentenza n. 20075 del 23/9/2010, hanno statuito espressamente che “l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., comma 2, la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (ne testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale. Ove, poi, la Corte ritenga di porre a fondamento della sua decisione una disposizione dell’accordo o contratto collettivo nazionale depositato dal ricorrente diversa da quelle indicate dalla parte, procedendo d’ufficio ad una interpretazione complessiva ex art. 1363 cod. civ. non riconducibile a quanto già dibattuto, trova applicazione, a garanzia dell’effettività del contraddittorio, l’art. 384 c.p.c., comma 3, (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 12), per cui la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione”.

7. Col settimo ed ultimo motivo è evidenziata la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 e 2697 c.c. (art. 360 c.p., n. 3).

La ricorrente formula, quindi, i seguenti quesiti di diritto: a) Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. cod. civ.”; b) “se in applicazione del principio di sinallagmaticità che disciplina il rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni per l’intervallo in cui non ha reso la prestazione e se dalle somme dovute a titolo risarcitorio ed in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 e ss. c.c. e dell’art. 2043 e ss. c.c., in quanto dai primi richiamati, devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale graverebbe conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa.” Da ultimo, immediatamente a seguito dei suddetti quesiti, la ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di merito affermato correttamente, dapprima, il principio in base ai quale il pagamento delle retribuzioni può decorrere solo dalla data di messa in mora della società, e per aver, poi, disposto la corresponsione delle stesse dalla data della nota recante la data del 7/11/02, anche se tale documento non conteneva alcuna offerta della prestazione.

Osserva la Corte che i suddetti quesiti risultano del tutto generici e non pertinenti rispetto alla fattispecie, in quanto si risolvono nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15-2- 2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum, alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Così risultato inammissibile il motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore da 24 novembre 2010, al quale si è richiamato la ricorrente con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

E’, infine, infondato il rilievo inerente la presunta erronea decorrenza della messa in mora, in quanto, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, nella sentenza impugnata è fatto chiaro riferimento alla data dell’11/2/2004 e non a quella, indicata nel presente ricorso, dei 7/11/2002.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario e di Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2011

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