Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20252 del 25/09/2020

Cassazione civile sez. lav., 25/09/2020, (ud. 20/07/2020, dep. 25/09/2020), n.20252

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19233/2016 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COMANO 95,

presso lo studio dell’avvocato LUCIANO FARAON, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANDREA FARAON;

– ricorrente –

contro

SITA S.P.A, IN LIQUIDAZIONE, BUSITALIA – SITA NORD S.R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 694/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 03/02/2016 R.G.N. 1079/2013.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che con sent. n. 694/2015, pubblicata il 3 febbraio 2016, la Corte di appello di Venezia, esclusa la nullità del ricorso introduttivo, ha respinto nel merito le domande di P.S. e altri lavoratori già dipendenti di ATP S.p.A. e poi, ex art. 2112 c.c., di SITA S.p.A. per il pagamento di differenze retributive in relazione al trattamento già goduto presso la società cedente;

– che, per ciò che attiene all’odierno ricorrente per cassazione, la Corte ha esaminato le domande proposte alla luce della propria sentenza (definitiva) n. 581/2009, rilevando come con la stessa fosse stato riconosciuto al P. il diritto all’inquadramento al livello di qualifica spettante secondo l’anzianità maturata alle dipendenze delle diverse imprese succedutesi nel servizio (di trasporto pubblico) ma fosse stata rigettata la domanda relativa alla non riassorbibilità dell’indennità di professionalità, dichiarata indipendente dall’anzianità di servizio: con la conseguenza che doveva escludersi il diritto a riproporre domande, per questa come per altre voci retributive, rigettate con la pronuncia passata in giudicato, a fronte della relativa eccezione formulata dalle parti appellate;

– che la Corte ha poi ritenuto l’erroneità dello stesso presupposto indicato dal lavoratore a sostegno delle domande e cioè l’esistenza di un giudicato sulla illegittimità dell’Accordo del 2 novembre 1994 concluso tra le organizzazioni sindacali e la società SITA S.p.A., allorchè questa era divenuta cessionaria del servizio di trasporto pubblico nella provincia di Padova, e sul conseguente obbligo della medesima società di ripristinare gli accordi in essere durante la gestione di ATP S.p.A.;

– che al riguardo la Corte ha, in particolare, chiarito come detta sentenza n. 581/2009, e la sentenza anch’essa definitiva (n. 403/2005) pronunciata con riguardo alle posizioni degli altri appellanti, non avessero posto affatto tale principio (nè esso si sarebbe potuto trarre dalle decisioni di legittimità che avevano respinto i ricorsi contro di esse), ma, ritenendo l’applicazione dell’art. 2112 c.c., ai rapporti dedotti in giudizio e, quindi, la loro continuazione, avessero statuito in ordine al diritto dei lavoratori all’inquadramento loro spettante sulla base dell’anzianità di servizio maturata anche alle dipendenze dei datori di lavoro precedenti a SITA S.p.A. e perciò anche con l’applicazione dell’Accordo nazionale del 13 maggio 1987 che aveva disciplinato l’inquadramento: e tuttavia – ha rilevato ancora la Corte di appello – tali statuizioni neppure implicitamente comportavano la dichiarazione di illegittimità di tutte le pattuizioni dell’Accordo aziendale 2 novembre 1994 ma al più soltanto della previsione riferita all’esclusione dell’obbligo di SITA S.p.A. di riconoscere la continuità del rapporto di lavoro;

– che avverso la sentenza n. 694/2015 della Corte di appello di Venezia ha proposto ricorso per cassazione P.S., affidandosi a tre motivi;

– che le società SITA S.p.A. in liquidazione e BUSITALIA – SITA NORD S.r.l. sono rimaste intimate;

rilevato

che con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2112 c.c., nel testo vigente alla data del 2 novembre 1994, così come modificato dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47: si duole che la Corte, una volta accertata la ritualità del ricorso introduttivo, non abbia preso in esame tutta la domanda proposta dai lavoratori, e, quindi, anche quella avente ad oggetto la quantificazione delle differenze retributive, e che non abbia disposto a tal fine una C.T.U., partendo dall’obbligatorietà dell’applicazione degli accordi nazionali e aziendali derivante dal giudicato fra le parti e dalle previsioni dell’art. 2112 c.c., in tema di applicazione delle fonti collettive, sia nazionali che aziendali, vigenti presso ATP S.p.A.;

– che con il secondo motivo il ricorrente deduce il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di appello, pur a fronte di giudicati incontestabili, trascurato di compiere l’attività di istruzione necessaria per la determinazione del quantum debeatur e, in particolare, per non avere disposto una C.T.U.;

– che con il terzo motivo viene dedotta dal ricorrente la violazione dell’art. 421 c.p.c., per non avere la Corte di appello esercitato il potere-dovere di ricercare e attuare ogni mezzo per la determinazione del quantum, in contrasto con i propri giudicati, dando ingresso all’ordine di esibizione della documentazione necessaria e ad una C.T.U.;

osservato:

che il primo motivo è inammissibile, poichè non contiene alcuna censura relativa ad una erronea applicazione dell’art. 2112 c.c., da parte della Corte territoriale e non si confronta specificamente con la motivazione della sentenza impugnata;

– che al riguardo è consolidato il principio, per il quale “In materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione” (Cass. n. 16038/2013; conformi, fra le più recenti: Cass. n. 25419/2014; Cass. n. 287/2016);

– che, d’altra parte, il motivo in esame neppure riporta la sentenza n. 581/2009 della Corte di appello di Venezia, resa tra le parti e passata in giudicato, ove avesse inteso contestare la lettura che della stessa ha dato la sentenza impugnata, e ciò in contrasto con Cass. n. 5508/2018, per la quale “L’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale” (conforme n. 26627/2006);

– che il secondo motivo risulta egualmente inammissibile, non conformandosi al modello normativo del vizio motivazionale, quale risultante dalle modifiche introdotte nel 2012 e dalle precisazioni fornite da questa Corte a Sezioni Unite circa il perimetro applicativo del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5 e i relativi oneri di deduzione (sentenze n. 8053 e n. 8054/2014 e successive numerose conformi);

– che si deve in ogni caso ribadire il principio, secondo il quale “La consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato” (Cass. n. 326/2020; conf. n. 15219/2007);

– che anche il terzo motivo risulta, pertanto, inammissibile;

ritenuto:

conclusivamente che deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso;

– che non ricorrono i presupposti per la pronuncia sulle spese di lite, essendo le società rimaste intimate.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 20 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2020

 

 

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