Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2025 del 26/01/2018


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 2025 Anno 2018
Presidente: SCALDAFERRI ANDREA
Relatore: FALABELLA MASSIMO

ORDINANZA
sui ricorso 25479-2016 proposto da:
CHIANESE ANNA MARIA, CHIANESE ANTONIA, in proprio e
nella qualità di procuratrici generali della Sig.ra MAISTO
ANTONIETTA, PRAGLIOLA CLAUDIO, in proprio e nella qualità di
legale rappresentante della ditta individuale CASETTA ROSSA
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA GRANDE
MURAGLIA N .289, presso lo studio dell’avvocato ANGELO
PALETTA, rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO
P ETRELLA ;
– ricorrenti contro
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Data pubblicazione: 26/01/2018

BANCO DI NAPOLI SPA, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XX SETTEMBRE
3, presso lo studio legale RAPAZZO, rappresentato e difeso
dall’avvocato NICOLA ROCCO DI TORREPADULA;
controricorrente

avverso la sentenza n. 3796/2015 della CORTE D’APPELLO di
NAPOLI, depositata il 29/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non
partecipata del 28/11/2017 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO
FALABEI I A;
dato atto che il Collegio ha autorizzato la redazione del provvedimento
in forma semplificata, giusta decreto 14 settembre 2016, n.136/2016 del
Primo Presidente.

FATTI DI CAUSA

1. — E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di
appello di Napoli del 29 settembre 2015 con cui, in parziale
accoglimento del gravame proposto dal Banco di Napoli s.p.a., gli
appellati Pragliola Claudio, titolare della ditta denominata La Casetta
Rossa, Maisto Antonietta, Chianese Antonia e Chianese Anna Maria
sono stati condannati al pagamento della somma di € 25.331,74, oltre
interessi.
In prime cure il Tribunale di Napoli aveva accolto la domanda
attrice, riconoscendo la nullità della clausola contrattuale che
programmava la capitalizzazione degli interessi debitori: clausola inserita
nel contratto di conto corrente, oramai cessato, intrattenuto dalla
menzionata ditta con l’istituto di credito (all’epoca il Sanpaolo Banco di
Napoli); il giudice di prime cure aveva così condannato la banca al
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pagamento, in favore della ditta correntista, della somma di
103.225,63, oltre interessi. Lo stesso Tribunale aveva poi respinto la
domanda proposta dalla convenuta nei confronti della ditta e dei
fideiussori di questa (di cui aveva richiesto e ottenuto la chiamata in

che la banca assumeva di avere nei confronti di La Casetta Rossa per il
rimborso di un mutuo acceso proprio al fine di estinguere l’esposizione
debitoria derivante dal contratto di conto corrente.
La Corte di appello ha ritenuto fondato il gravame del Banco di
Napoli con esclusivo riguardo a tale domanda. Ha evidenziato, in
proposito, che il giudice di prime cure aveva omesso alcuna pronuncia
sul punto, essendosi lo stesso limitato a riferire, in termini generici, di
una compensazione (tra il credito della correntista per l’indebita
corresponsione degli interessi anatocistici e il credito della banca per
l’ammortamento del mutuo) che però, alla stregua dei calcoli svolti dal
consulente, non risultava essere stata posta in atto.
2. — Il ricorso per cassazione, proposto da Pragliola Claudio,
titolare della ditta denominata La Casetta Rossa, Maisto Antonietta,
Chianese Antonia e Chianese Anna Maria, si basa su tre motivi illustrati
da memoria. Resiste con controricorso il Banco di Napoli.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. — Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 166, 167, comma 2 e comma 3, e 269 c.p.c.. Deducono i
ricorrenti che la domanda riconvenzionale e la chiamata in causa dei
terzi erano inammissibili, e ciò in ragione della tardiva costituzione in
giudizio dell’istituto di credito.
La censura è infondata.
A prescindere da ogni approfondimento del tema circa la
proponibilità, nella presente sede di legittimità, della questione afferente
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causa), per l’importo di 25.331,74; tale domanda concerneva il credito

la

tempestività

della

costituzione

in

giudizio

dell’odierna

controricorrente, va osservato che la banca ebbe a depositare la propria
comparsa di risposta il 4 novembre 2004 (come è stato possibile
verificare attraverso la visione degli atti di causa, cui la Corte ha accesso,
Risulta così

sconfessato l’assunto degli istanti, secondo cui la costituzione si sarebbe
attuata nel mancato rispetto del termine di venti giorni di cui all’art. 166
c.p.c..
2. — Il secondo mezzo lamenta violazione e falsa applicazione
dell’art. 342 c.p.c.. Secondo i ricorrenti avrebbe errato il giudice di
appello a ritenere che i motivi di impugnazione fossero sufficientemente
specifici e ad escludere, quindi, l’inammissibilità del gravame.
Il motivo è anzitutto carente di autosufficienza, in quanto il
ricorso non riproduce i motivi di impugnazione. Si osserva che il
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione vale anche in
relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da
parte del giudice di merito; ne consegue che il ricorrente, ove deduca la
violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla
mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei
motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti
motivi formulati dalla controparte (Cass. 10 gennaio 2012, n. 86).
Peraltro, sono gli stessi ricorrenti ad evidenziare come col quinto
motivo di gravame la banca avesse richiamato la documentazione
prodotta (a evidente suffragio delle deduzioni svolte); la pronuncia della
Corte di appello, poi, fa menzione di un motivo di impugnazione (il
diciassettesimo) incentrato sul rilievo per cui, nel rigettare la domanda
riconvenzionale, il Tribunale non aveva tenuto conto della prova
documentale dell’erogazione del finanziamento, il quale risultava non
rimborsato per l’importo di 25.331,74: evenienza, quest’ultima, che
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venendo in questione l’esame di un error in procedendo).

dava ragione del credito che il Tribunale aveva mancato di portare in
compensazione. Tali elementi rendono pertanto evidente che — avendo
specificamente riguardo al tema della suddetta compensazione, su cui è
stata riformata la sentenza di prime cure — l’appello contenesse una

sentenza impugnata, mirasse ad incrinarne il fondamento logicogiuridico.
Ti principio della necessaria specificità dei motivi di appello
prescinde del resto da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo
sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le
ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in
relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate,
oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni
per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi
posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente
precisati il contenuto e la portata delle relative censure (Cass. 20 marzo
2013, n. 6978).
3. — Col terzo motivo i ricorrenti oppongono l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti.
L’impugnata sentenza viene censurata perché solo apparentemente
motivata, per di più con affermazioni tra loro inconciliabili, e perché
fondata sull’omesso esame dell’intervenuta compensazione.
Nemmeno tali deduzioni hanno fondamento.
Il giudice di appello ha nella sostanza rilevato che il Tribunale
aveva riconosciuto esistente una compensazione che, nei fatti, non
aveva avuto luogo, giacché in prime cure non era stato accertato il
diritto della banca avente ad oggetto il rimborso del finanziamento e il
consulente tecnico, nel proprio elaborato, non aveva operato, al
riguardo, alcuna compensazione. Come è intuibile, è dunque escluso
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parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della

che la sentenza prospetti quel radicale vizio motivazionale consistente
nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» (Cass. Sez. U. 7
aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054); parimenti
inconsistente è la censura vertente sull’apparenza della motivazione, dal

graficamente esistente, essa non renda, tuttavia, percepibile il
fondamento della decisione, perché recante argomentazioni
obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal
giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi
lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche
congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232).
Quanto, poi, alla censura di omesso esame del fatto decisivo (art.
360, n. 5 c.p.c.), essa si basa su due rilievi.
Anzitutto i ricorrenti deducono che la Corte di Napoli avrebbe
errato nel ritenere pacifico il credito fatto valere dalla banca, nonostante
nella comparsa di appello i medesimi avessero richiamato l’accertamento
del Tribunale, secondo cui «il presunto credito della banca è stato
assorbito dal calcolo della creditoria attrice». E’ facile però obiettare
come la Corte del merito non abbia affatto basato la propria decisione
su presunte condotte di non contestazione: essa ha accertato, piuttosto
— come si è detto — che il consulente tecnico non ci curò di detrarre
l’importo dovuto per l’ammortamento del finanziamento dalla maggior
somma dovuta dalla banca alla ditta correntista.
In secondo luogo, gli istanti introducono argomenti fondati sulle
risultanze peritali, assumendo che il giudice di appello avrebbe male
apprezzato l’elaborato del consulente. Ma deve obiettarsi, al riguardo,
che così facendo, il ricorso non prospetta, nemmeno astrattamente,
l’omesso esame di un fatto decisivo: come è stato già rilevato da questa
Corte, infatti, l’ipotetico cattivo esercizio del potere di apprezzamento
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momento che la motivazione è solo apparente quando, benché

delle prove non legali da parte del giudice di merito è estraneo alla
previsione del novellato art. 360, n. 5 c.p.c. (Cass. 10 giugno 2016, n.
11892).
3. — In conclusione, il ricorso è respinto, con condanna dei

P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in
favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità,
che liquida in € 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella
misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in 100,00, ed agli
accessori di legge; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115
del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 Sezione
Civile, in data 28 novembre 2017.

ricorrenti, secondo soccombenza, al pagamento delle spese processuali.

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