Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20248 del 22/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 22/08/2017, (ud. 28/04/2017, dep.22/08/2017),  n. 20248

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27265-2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.G.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO

VACIRCA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CLAUDIO LALLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7844/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/11/2010 R.G.N. 2819/2008.

Fatto

RILEVATO

Che la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 10 novembre 2010, ha ritenuto illegittimo, per difetto di specificità dei motivi, il contratto a termine stipulato tra la società Poste Italiane e D.G.M. il 7.2.02 (motivato da “esigenze tecniche, organizzative e produttive, anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre 2001, 11 dicembre 2001, 11 gennaio 2002”), confermando la condanna al risarcimento del danno di Poste dalla data di costituzione in mora sino all’effettivo ripristino del rapporto.

Che avverso tale sentenza la società Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resiste il D.G. con controricorso, poi illustrato con memoria.

Diritto

CONSIDERATO

Che con il primo motivo la società Poste censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto risolto il rapporto per mutuo consenso, in ragione del tempo trascorso dalla cessazione di fatto del rapporto e l’instaurazione del giudizio.

Che il motivo è infondato, avendo questa Corte più volte affermato (cfr. da ultimo Cass. n. 14422/2015, Cass. 9 aprile 2015 n. 7156; Cass. 12 gennaio 2015 n.231, Cass. 28 gennaio 2014 n. 1780, Cass. n. 1780/14) che ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio dei suoi diritti, essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (v. Cass. 15.11.10 n. 23057; Cass. 11.3.2011 n. 5887, Cass. 4.8.2011 n. 16932), circostanze non adeguatamente evidenziate dalla ricorrente.

Che con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2, art. 2697 c.c., art. 12 preleggi, art. 1362 c.c. e segg. e art. 1325 c.c. e segg., oltre ad omessa e/o insufficiente motivazione su fatti decisivi del giudizio, evidenziando che la corte territoriale escluse erroneamente la legittimità della clausola appositiva del termine, che risultava invece sufficientemente motivata dalle plurime e concorrenti ragioni ivi indicate, che comunque risultavano dagli Accordi sindacali parimenti indicati in contratto, e che la società aveva tempestivamente chiesto di provare senza che la corte di merito desse ingresso alle richieste istruttorie.

Che il motivo è infondato, dovendosi rilevare che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa (cfr. per tutte, Cass. 27 aprile 2010 n. 10033).

Che questa Corte ha tuttavia osservato che tale specificazione può risultare anche indirettamente dal contratto di lavoro e da esso “per relationem” da altri testi scritti accessibili alle parti (ex multis, Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279, Cass. 27 aprile 2010 n. 10033, Cass. n. 17612/14), come avvenuto nel caso di specie.

Che l’odierna ricorrente pur avendo riportato ampi stralci del contenuto degli Accordi 17, 18 e 23 ottobre 2001, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, non considera che la corte territoriale ha esaminato il contento dei detti Accordi, ritenendoli insufficienti allo scopo, nonchè accertato la mancata prova del nesso causale tra le causali indicate in contratto e le mansioni in concreto assegnate al D.G.. Su tali statuizioni non risultano adeguate censure ad opera della ricorrente Poste.

Che risultando infondata la censura in esame, restano assorbite le restanti, inerenti la legittimità dell’assunzione a termine e la prova della sua legittimità (non corredate dai capitoli di prova richiesti e basate del resto sull’erroneo presupposto che l’onus probandi gravi sul datore di lavoro solo con riferimento alla proroga del contratto, D.Lgs. n. 368 del 2001, ex art. 4).

Che resta dunque da esaminare l’ultima censura (la quinta), inerente le conseguenze patrimoniali della illegittimità del termine apposto al contratto de quo.

Che la censura è fondata, avendo la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, della stabilito che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”.

Che la L. n. 92 del 2012, art. 1 comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica ha poi disposto: “La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Che le S.U. di questa Corte (sent. n.21691/2016) hanno stabilito che tale disciplina si applica anche ai giudizi in corso, quale che sia l’epoca della sentenza impugnata e del ricorso per cassazione, salvo il limite del giudicato, nella specie insussistente.

Che per tali ragioni la sentenza impugnata va cassata in ordine alla determinazione della misura risarcitoria, con rinvio ad altro giudice per la sua quantificazione alla luce del predetto L. n. 183 del 2010, art. 32 per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la sentenza che ha ordinato la ricostituzione del rapporto (cfr. Cass. n. 14461/15), con interessi e rivalutazione a decorrere dalla detta pronuncia (cfr. Cass. n. 3062/16), oltre che per la determinazione delle spese, comprese quelle di cui al presente giudizio di legittimità.

Che la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio per l’ulteriore esame alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese, come da dispositivo.

PQM

 

La Corte accoglie l’ultimo motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione e rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 28 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2017

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