Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20238 del 22/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 22/08/2017, (ud. 21/04/2017, dep.22/08/2017),  n. 20238

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano P. – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24637-2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO LALLI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7699/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/10/2010 R.G.N. 5995/07.

Fatto

RILEVATO

Che, con sentenza n. 7699/2010, la Corte di Appello di Roma ha confermato la pronuncia, emessa in data 19.6.2006 dal Tribunale della stessa città, con la quale era stata dichiarata (per quello che interessa) la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, intercorso tra Poste Italiane spa e L.L., dal 6 giugno 2001 al 30 settembre 2001, ai sensi dell’art. 25 CCNL 11.1.2001, per “esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, nonchè derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti e servizi nonchè a fronte della necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre”, nonchè la persistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 6.6.2001 ed il diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e spettanti dal 14.2.2005 fino alla riassunzione, oltre accessori;

che avverso tale sentenza Poste Italiane spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi, chiedendo comunque la applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, medio tempore sopravvenuta;

che L.L. ha resistito con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste;

che non sono state depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

Che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) la erronea motivazione in ordine all’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175,13752697,1427, e 1431 c.c., art. 100 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3), per non avere la Corte distrettuale ritenuto che, nel caso di specie, fosse ravvisabile una ipotesi di risoluzione del rapporto per mutuo consenso; 2) la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per avere i giudici di seconde cure ritenuto provata, sulla base di documentazione peraltro rimasta incontestata, la domanda in ordine alla clausola di contingentamento pur in assenza di una specifica istanza da parte della lavoratrice; 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 230 del 1962, art. 3, (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte distrettuale attribuito immotivatamente alla società l’onere probatorio in ordine a rispetto della clausola di contingentamento; 4) l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e art. 2697 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3) per non avere i giudici del merito ritenuto che la prova documentale offerta dalla società e quella per testi articolata in memoria fossero idonee a dimostrare la specificità della causale; 5) la violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, e art. 25, comma 3, CCNL 11.1.2001 (art. 360 c.p.c., n. 3) perchè le conseguenze sanzionatorie, derivanti dal mancato rispetto della clausola di contingentamento, estranea al contenuto normativo del contratto collettivo, non avrebbero potuto essere quelle individuate dalla Corte territoriale; 6) l’omessa motivazione circa un punto fondamentale nonchè la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1218,1219,1223,2094,2099, e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè, a differenza di quanto ritenuto dai giudici di seconde cure, le retribuzioni avrebbero potuto decorrere solo dal momento dell’effettiva ripresa del servizio e perchè sull’aliunde perceptum era onere del lavoratore di provare di non avere intrattenuto altri e successivi rapporti di lavoro nè di avere percepito somme a titolo retributivo; 7) la ricorrente chiede, poi, in caso di rigetto delle suindicate censure, l’applicazione della sopravvenuta disciplina in tema di risarcimento introdotta dalla L. n. 183 del 2010, art. 32;

che il primo motivo non è fondato in quanto deve rilevarsi che l’accertamento di merito, svolto al riguardo dalla Corte di merito, è conforme a diritto ed è stato congruamente motivato, con riferimento alla giurisprudenza prevalente di questa Corte di legittimità (cfr. Cass. 14.10.2015 n. 20704; Cass. 27.10.2015 n. 21876; Cass. 1.7.2015 n. 13535; Cass. 28.1.2014 n. 1780) la quale ha confermato la necessità dell’accertamento della “chiara e comune volontà delle parti”:

requisito, nel caso di specie, non ravvisabile, come correttamente sottolineato dai giudici di seconde cure, ai fini di ritenere risolto il rapporto per mutuo consenso;

che il secondo motivo è parimenti infondato: invero, l’interpretazione della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità e, pertanto, la Corte di Cassazione è abilitata all’espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorchè il giudice del merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine (Cass. 11.3.2011 n. 5876; Cass. 22.7.2009 n. 17109); nella fattispecie in esame i giudici di seconde cure, con argomentazioni congrue e logiche, hanno ritenuto che il thema decidendum comprendesse anche la questione relativa alla clausola di contingentamento e ciò è sufficiente ai fini della insindacabilità della pronuncia in questa sede;

che il terzo, quarto e quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati: infatti, come è stato affermato da questa Corte (cfr. Cass. 1.8.2014 n. 17535; Cass. ord. 27.11.2012 n. 21100) l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine, in base alle regole di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 3, incombe sul datore di lavoro che deve dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro;

che la determinazione, da parte della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr. Cass. 24.11.2011 n. 22009 implicitamente e Cass. 3.3.2006 n. 4677 nonchè Cass. ord. 20.11.2012 n. 20398); l’illegittimità si evince chiaramente non solo dalla formulazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, che stabilisce appunto che i contratti collettivi stabiliscono il numero percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato, ma anche dall’interpretazione sistematica di tale norma che fissa parametri rigidi per la individuazione delle fattispecie autorizzatorie; in tal senso si è espressa, del resto, univocamente la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 19.1.2010 n. 839; Cass. 19.1.2013 n. 701; Cass. 6.2.2015 n. 2269) la quale ha costantemente confermato le sentenze di merito che avevano ritenuto illegittimo il contratto a termine stipulato in violazione della clausola di contingentamento con la conversione dello stesso in contratto di lavoro a tempo indeterminato;

che la Corte territoriale, attraverso motivazione congrua ed immune da rilievi di carattere logico-giuridico, ha rilevato, da un lato, che la prova per testi diretta a dimostrare il rispetto della clausola di contingentamento, era generica perchè mancante dei riferimenti essenziali occorrenti a dimostrare il rispetto della condizione imposta e che anche la documentazione era inidonea a tal fine perchè concerneva una serie di dati e di comunicazioni in sostanza non pertinenti;

che quanto alla censura relativa alla mancata attivazione dei poteri di ufficio in materia di prova da parte dei giudici, si rileva che la società non specifica se in proposito abbia tempestivamente invocato tale esercizio, con la necessaria indicazione dell’oggetto possibile degli stessi (Cass. 23.10.2014 n. 22534; Cass. 12.3.2009 n. 6023), ciò anche in palese violazione del principio di autosufficienza del ricorso (Cass. ord. 20.4.2016 n. 10376); inoltre, deve richiamarsi l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui il mancato esercizio dei poteri istruttori del giudice, anche in difetto di espressa motivazione sul punto, non è sindacabile in sede di legittimità se non si traduce in un vizio di illogicità della sentenza: vizio non ravvisabile nel caso de quo;

che sono, infine, inammissibili i motivi in ordine alle conseguenze, anche di carattere patrimoniale (e quindi pure per l’applicazione dello jus supervenens), della ritenuta nullità della clausola perchè la Corte territoriale sul punto ha affermato che nessuna specifica censura era stata mossa dalla società con l’appello per cui le doglianze avanzate in questa sede non sono attinenti alla suddetta ratio decidendi riguardando, invece, statuizioni non adottate dai giudici di seconde cure;

che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato con conseguente determinazione sulle spese di lite, liquidate come da dispositivo, secondo il criterio della soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2017

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