Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20219 del 31/07/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 20219 Anno 2018
Presidente: MATERA LINA
Relatore: BELLINI UBALDO

ORDINANZA

sul ricorso 8990-2015 proposto da:
RAPETTI FRANCESCO CLEMENTE, in proprio e nelle sua qualità di
legale rappresentante della Armando Rapetti s.r.I., rappresentato
e difeso dagli Avvocati GIOVANNI PATRIZI e CARLO PAOLESSI,
ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in ROMA,
VIA TIRSO 91;
– ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore
– intimata –

avverso la sentenza n. 1395/2014 del TRIBUNALE di GENOVA,
pubblicata il 31/12/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
07/03/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Data pubblicazione: 31/07/2018

FATTI DI CAUSA
Con

ricorso depositato il

18.1.2012,

FRANCESCO

CLEMENTE RAPETTI, in proprio e nella qualità di legale
rappresentante della ARMANDO RAPETTI s.r.l. proponeva
opposizione all’ordinanza ingiunzione n. 333656/2011, emessa il

provvedimento sanzionatorio conteneva tre addebiti, due di
omessa comunicazione dei compensi erogati all’ing. Aldo
Murchio, dipendente della P.A., per gli anni 2005 e 2006, in
violazione dell’art. 53, comma 11 del D. Lgs. n. 165/2001 ed il
terzo per il conferimento d’incarico professionale all’ing. Murchio
nel 2006 senza autorizzazione della P.A. di sua appartenenza, in
violazione dell’art. 53, comma 9 del D. Lgs. n. 165/2001. Il
ricorrente esponeva di non essere mai stato a conoscenza della
qualifica di pubblico dipendente dell’ing. Murchio prima della
notifica del verbale; che tale qualifica era stata taciuta dallo
stesso in occasione del conferimento degli incarichi e che l’ing.
Murchio aveva uno studio professionale in Genova ed era titolare
di partita IVA.
Nel corso del giudizio di primo grado emergeva che l’ing.
Murchio era stato dapprima sospeso e poi licenziato dal proprio
incarico presso il Comune di Genova, per l’eccessivo numero di
incarichi accettati da privati a discapito della sua attività di
pubblico dipendente.
Con sentenza n. 907/2014, depositata in data 14.3.2014, il
Giudice di Pace di Genova accoglieva il ricorso, ritenendo
l’operatività della causa di giustificazione prevista dall’art. 3 della
L. n. 689/1981 (mancanza dell’elemento psicologico e,
comunque, per errore incolpevole).

28.12.2011 nei loro confronti dall’AGENZIA DELLE ENTRATE. Il

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto
appello avanti al Tribunale di Genova, Sezione Lavoro, chiedendo
la riforma integrale della sentenza e la conferma dell’ingiunzione
opposta.
Si costituiva in giudizio l’odierno ricorrente eccependo, in

fuori termine, rilevando in ogni caso l’incompetenza funzionale
della Sezione Lavoro e contestando nel merito l’infondatezza
dell’appello.
Con sentenza n. 1395/2014, depositata il 31.12.2014, il
Tribunale di Genova, Sezione Lavoro, ha respinto l’opposizione
proposta avverso l’ordinanza ingiunzione da Francesco Clemente
Rapetti ed Armando Rapetti s.r.l. e ha condannato gli appellati
alle spese dei due gradi di giudizio.
Avverso tale sentenza Francesco Clemente Rapetti, in
proprio e nella qualità di legale rappresentante della Armando
Rapetti s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre
motivi, illustrati da memoria. L’Agenzia delle Entrate non ha
resistito.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto la
«violazione art. 360, n. 2 c.p.c. per violazione e falsa
applicazione dell’art. 6 L. n. 150/2011», che disciplina la
competenza per i procedimenti di opposizione a ordinanza
ingiunzione. Osserva il ricorrente che, dal momento che il caso in
esame non rientra tra le opposizioni che vanno proposte davanti
al Tribunale, il giudizio di primo grado è stato correttamente
introdotto davanti al Giudice di Pace territorialmente
competente, che ha ben deciso secondo il rito del lavoro;

via preliminare, l’inammissibilità del ricorso in quanto depositato

viceversa, il ricorrente non comprende per quale motivo il
Tribunale di Genova, Sezione Lavoro, si sia ritenuto
funzionalmente competente, avendo semplicemente osservato
che la controversia ha come presupposto un rapporto di lavoro,
sicché concerne materia “contigua” a quelle ex art. 409 c.p.c. Se

la cognizione a decidere avrebbe dovuto essere demandata al
Giudice del Lavoro già dal primo grado di giudizio, non potendo il
Giudice del Lavoro dichiarare la propria competenza solo in sede
di gravame. Inoltre, l’appello avrebbe dovuto essere proposto
con atto di citazione, in quanto il D. Lgs. n. 150/2011 nulla
dispone in ordine alla fase di impugnazione. E, anche ad
ammettere l’ammissibilità della forma del ricorso, è evidente che
fossero ampiamente decorsi i termini per la notifica del ricorso in
appello e del decreto di fissazione di udienza (notifica avvenuta il
17.11.2014, scadenza del termine il 30.10.2014).
1.1. – Il motivo non è fondato.
1.2.

– Va,

innanzitutto,

rilevato che

il

presente

procedimento è iniziato davanti al Giudice di pace di Genova, con
ricorso depositato il 18 gennaio 2012, dopo l’entrata in vigore (in
data 6 ottobre 2011) del D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che
ha abrogato l’art. 23 della legge n. 689 del 1981 ed ha disposto,
nel precedente art. 6, comma 1, che «le controversie previste
dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22 (opposizione ad
ordinanza-ingiunzione), sono regolate dal rito del lavoro, ove non
diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo»;
l’opposizione si propone davanti al Giudice di pace del luogo in
cui è stata commessa la violazione (art. 6, commi 2 e 3), ove
non ricorra alcuna delle situazioni elencate nei commi 4 e 5, in

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avesse un fondamento quanto esposto nell’impugnata sentenza,

deroga all’enunciato precedente (derivanti dalla specifica materia
ovvero dalla entità della sanzione). A sua volta l’art. 2 del
medesimo decreto legislativo al comma 1, dispone che «nelle
controversie disciplinate dal Capo II [rubricato “Delle
controversie regolate dal rito del lavoro”, tra cui appunto le

applicano, salvo che siano espressamente richiamati, gli articoli
413, 415, settimo comma, 417,

417-bis, 420-bis, 421, terzo

comma, 425, 426, 427, 429, terzo comma, 431, dal primo al
quarto comma e sesto comma, 433, 438, secondo comma, e 439
del codice di procedura civile». Il che comporta che alle
medesime controversie siano invece applicabili, in mancanza
appunto della previsione in contrario, le altre disposizioni per le
controversie in materia di lavoro dettate dal codice di rito (Cass.
n. 72 del 2018), tra le quali l’art. 434 c.p.c. che stabilisce la
forma (ricorso) ed i contenuti dell’atto di appello.
1.3 – Correttamente dunque il Tribunale di Genova
(richiamando tale normativa) ha motivato in ordine alla ritualità,
nella fattispecie, della impugnazione effettuata dalla Agenzia
delle Entrate mediante deposito del ricorso nella cancelleria del
Tribunale medesimo, sulla base altresì dell’avallo interpretativo
dato dalle Sezioni unite che hanno affermato – riguardo ai giudizi
instaurati dopo l’entrata in vigore (in data 6 ottobre 2011) del
D.Lgs. n. 150 del 2011 – che «l’indubbia applicabilità al giudizio
di cui all’art. 6 dell’art. 434 cod. proc. civ., che, sotto la rubrica
“Deposito del ricorso in appello”, individua il contenuto dell’atto
introduttivo del giudizio di appello, che deve, appunto, essere il
ricorso, implica, non solo che le sentenze emesse nei giudizi di
cui all’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 (ma analoghe

5

opposizioni ad ordinanza ingiunzione di cui all’art. 6], non si

considerazioni valgono per quelle di cui all’art. 7 in tema di
opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice
della strada) siano appellabili, ma anche che l’appello debba
essere proposto nella forma del ricorso, con le modalità e nei
termini ivi previsti» (Cass. sez un. n. 2907 del 2014).

risultava tempestivo (ai sensi dell’art. 327, primo comma,
c.p.c.), in quanto ritualmente proposto con ricorso depositato il
16.9.2014, entro dunque i sei mesi dalla pubblicazione della
decisione di primo grado (depositata in data 14.3.2014).
Laddove, poi, non coglie nel segno il profilo di censura relativo
alla contestata radicazione del giudizio d’appello davanti al
giudice del lavoro, giacché la ripartizione delle funzioni tra la
sezione lavoro e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non
implica l’insorgenza di una questione di competenza, attenendo
piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno
dello stesso ufficio (Cass. n. 14790 del 2016; Cass. 8905 del
2015).
2. – Con il secondo motivo, il ricorente lamenta, «in
relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 3 della L.
n. 689/1981», che il Tribunale avrebbe altresì violato il disposto
dell’art. 3 della L. n. 689/1981, avendo ritenuto insussistente la
scriminante della buona fede, così come disciplinata in tema di
responsabilità amministrativa: la buona fede dell’autore è causa
di esclusione della responsabilità amministrativa solo quando
l’errore sulla liceità del fatto risulti incolpevole. In realtà, i
ricorrenti, fin dal primo atto difensivo, hanno sempre dichiarato
di non conoscere la qualifica di pubblico dipendente dell’ing.
Murchio. Inoltre, l’albo professionale degli ingegneri di Genova

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Peraltro, come ancora ritenuto dal Tribunale, l’appello

non indicava l’amministrazione di appartenenza e non forniva le
indicazioni essenziali per adeguarsi alla norma (ad esempio la
tipologia di contratto di lavoro subordinato che lega il
professionista alla P.A., posto che in un regime di tempo parziale
non sussiste alcun obbligo di informazione preventiva

2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – L’applicazione che il Tribunale di Genova ha
praticato della regola generale enunciata dall’art. 3 della legge n.
689 del 1981, appare immune da vizi e conforme ai principi
dettati da questa Corte in ordine alla configurabilità dell’elemento
soggettivo in capo all’autore dell’illecito amministrativo. E’
consolidata infatti l’affermazione secondo cui (poiché per
integrare l’elemento soggettivo delle violazioni cui è applicabile
una sanzione amministrativa è sufficiente la semplice colpa, che
si presume a carico dell’autore del fatto vietato, riservando a
questi l’onere di provare di aver agito senza: Cass. n. 2406 del
2016; Cass. n. 13610 del 2007,) a concretizzare quella buona
fede che esclude la responsabilità dell’autore dell’illecito non è
sufficiente che al momento dell’infrazione costui si trovi in uno
stato di mera ignoranza circa la concreta sussistenza dei
presupposti ai quali l’ordinamento positivo riconduce il suo
dovere (punito in caso di inosservanza con la detta sanzione) di
tenere una determinata condotta; occorre, invece, che tale stato
di ignoranza sia incolpevole (Cass. n. 14107 del 2003, citata
dallo stesso ricorrente), ossia che non sia superabile
dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (Cass. n. 13011
del 1997). Pertanto, se l’errore sul fatto esclude la responsabilità
dell’agente solo quando non è determinato da sua colpa, ne

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all’amministrazione di appartenenza per conferire l’incarico).

consegue che la norma limita la rilevanza della causa di
esclusione alle sole ipotesi in cui l’errore sul fatto sia dovuto a
caso fortuito o forza maggiore (Cass. n. 24803 del 2006), e che
l’onere della prova dell’erroneo convincimento grava su chi lo
invoca (Cass. n. 5877 del 2004), non essendo sufficiente una

15195 del 2008).
2.3. – Del tutto correttamente, dunque, il Tribunale, con
una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità, in
quanto congrua e coerente con i consolidati, richiamati, principi
affermati da questa Corte – secondo cui l’esimente della buona
fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato
dalla legge n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della
responsabilità amministrativa (al pari di quanto avviene per la
responsabilità penale, in materia di contravvenzioni) solo quando
sussistano elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della
violazione il convincimento della liceità della sua condotta e
risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per
conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa
essergli mosso (Cass. n. 13610 del 2007, richiamata dalla stessa
parte ricorrente) – ha ecluso la configurabilità nella specie
dell’esimente in questione.
Il giudice del gravame ha, infatti, sottolineato come gli
stessi appellati non avessero mai negato di conoscere il
contenuto dell’albo degli ingegneri da loro stessi depositato (all.
5 ricorso), in cui, sotto il nominativo dell’ing. Aldo Murchio
riportava la dizione “pubblico dipendente”. Ciò era sufficiente a
dimostrare che essi fossero a conoscenza della posizione del
professionista; e che non potessero conferirgli incarichi

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extra

mera asserzione sfornita di qualsiasi sussidio probatorio (Cass. n.

istituzionali

prima

di

avere

ottenuto

l’autorizzazione

dall’Amministrazione di appartenenza, imposta dal precetto, così
violato, di cui all’art. 53, comma 10, D.Lgs. n. 165 del 2001.
Inoltre, altrettanto correttamente, il Tribunale ha, da un
lato, rilevato che l’art. 3, secondo comma, della legge n. 689 del

l’errore di diritto, ma che, nel caso in esame, tale ignoranza
neppure era stata invocata dagli appellati. E, dall’altro lato, ha
ritenuto capziosa l’affermazione, nella memoria di costituzione in
appello, secondo cui la consultazione dell’albo professionale non
consentiva di applicare correttamente la legge, non potendosi
conoscere l’amministrazione di appartenenza, giacché la
conoscenza della qualità di pubblico dipendente imponeva di non
conferire l’incarico prima di aver accertato tale elemento e di
avere ottenuto la prescritta autorizzazione, a prescindere da una
collaborazione del dipendente pubblico interessato.
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, «in relazione
all’art. 360, n. 5 c.p.c., per aver omesso di esaminare un fatto
decisivo», che il Tribunale non ha considerato che dagli elementi
agli atti emergeva la non conoscibilità della qualifica di impiegato
dipendente del Comune di Genova del professionista incaricato,
che non aveva palesato alla società la propria qualità di pubblico
dipendente, le caratteristiche del proprio rapporto di lavoro e
l’amministrazione di appartenenza.
3.1. – Il motivo è inammissibile.
3.2. – La denuncia di “omesso esame di un fatto decisivo”
deve essere riconducibile al modello introdotto dall’art. 360,
primo comma, n. 5 c.p.c. nella nuova formulazione adottata dal
d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012,

9

1981, esclude la colpa nel caso di errore sul fatto, ma non per

applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di
cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca
successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis
anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 18
marzo 2014.

impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti”. Orbene è noto come, secondo le
Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di
denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si
tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e
cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”,
nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio
dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato,
avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n.
14014 e n. 9253 del 2017).
3.3. – Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni degli
artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n. 4, cod. proc.
civ., la ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare il “fatto
storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o
extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando”

Io

Prevede, infatti, il nuovo testo che la sentenza può essere

tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti
e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Orbene, della enucleazione di siffatti presupposti
(sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere
all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicché, alla

riguardante la più angusta latitudine della nuova formulazione
rispetto al previgente vizio di “omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo
per il giudizio”, le censure mosse in riferimento al parametro di
cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. si risolvono, in buona sostanza,
nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una
(ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in
parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018),
inammissibile seppure effettuata con asserito riferimento alla
congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito
per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e
contestata dalla ricorrente.
3.4. – Altrettanto inammissibile, infine, è la censura
aggiunta con le memorie di parte, riguardante gli effetti sulla
fattispecie della sentenza della Corte costituzionale n. 98 del
2015, secondo cui «è costituzionalmente illegittimo, per
violazione degli artt. 3 e 76 Cost., l’art. 53, comma 15, del d.lgs.
30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui assoggetta gli enti
pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti
a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione
dell’amministrazione di appartenenza, alla sanzione pecuniaria
pari al doppio degli emolumenti corrisposti, in caso di omessa
comunicazione dell’ammontare dei compensi. La disciplina

11

luce del sopra richiamato consolidato indirizzo giurisprudenziale,

censurata non risulta riconducibile ai principi o criteri direttivi
enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo, che non
avevano autorizzato il legislatore delegato a prevedere sanzioni
amministrative per l’inadempimento dell’obbligo di
comunicazione dei compensi corrisposti. Inoltre, la censurata

che la sanzione in esame si duplica rispetto a quella già prevista
per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione».
Con le memorie non possono, infatti, essere dedotte nuove
censure, né venire sollevate questioni nuove (Cass. n. 2631 del
2014) e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il
contenuto dei motivi originari del ricorso (Cass. n. 3780 del
2015). Peraltro, la declaratoria di illegittimità costituzionale
riguarda la previsione del comma 15 dell’art. 53 del D.Lgs. n.
165 del 2001, che è estranea all’odierno thema decidendum,
poiché – non solo diversa da quelle su cui si fonda l’ordinanza
ingiunzione impugnata, contenente gli addebiti per l’omessa
comunicazione dei compensi erogati al dipendente della P.A., per
gli anni 2005 e 2006, in violazione dell’art. 53, comma 11 del D.
Lgs. n. 165/2001 ed il conferimento d’incarico professionale
senza autorizzazione della P.A. di appartenenza, in violazione
dell’art. 53, comma 9 del D. Lgs. n. 165/2001 – ma anche
riguardante il profilo della determinazione delle sanzioni
applicate, trattate in sentenza (pagg. 5-6) e non oggetto di
censura.
4. – Il ricorso va dunque rigettato. Nulla per le spese, in
ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte
della intimata Agenzia delle Entrate.

12

previsione finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso

Va emessa altresì la dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei

dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art.
13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda
sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 marzo
2018.
Il Presidente
Dr. Lina Matera

DEPOSITATO IN CANCELLERIA
Roma,

31

Luo, 2018

presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,

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