Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20218 del 25/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 25/07/2019, (ud. 04/06/2019, dep. 25/07/2019), n.20218

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29868-2017 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARIAGRAZIA MARELLI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 2704/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 16/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 04/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA

ACIERNO.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Milano ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino pakistano S.A..

In fatto la Corte ha precisato che nel corso dell’audizione il ricorrente aveva riferito di essere fuggito dal Pakistan a seguito della persecuzione sfociata in vera e propria violenza fisica che sia lui che il fratello avevano subito a causa dell’assunzione di un ruolo politico nel Partito Popolare Pakistano. Dopo un periodo di carcerazione e successiva liberazione ad opera di un parente, le persecuzioni della polizia erano continuate da parte dei poliziotti che li avevano tratti in arresto. Essendo, dopo il periodo di sospensione, (così nel testo del provvedimento impugnato), nuovamente minacciato si era determinato a lasciare il paese.

Secondo la Corte territoriale, dal racconto del ricorrente non sarebbero emersi elementi per il riconoscimento dello status di rifugiato o di straniero ammesso alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14. Ha osservato la Corte territoriale che il racconto non è credibile non perchè i fatti allegati non sono suffragati da prove ma perchè la prova è inaffidabile e pertanto le dichiarazioni non risultano sufficienti ai fini della valutazione della componente soggettiva.

Gli articoli di giornale sono relativi a soggetti diversi dal ricorrente e comunque quest’ultimo non ha fornito alcuna prova che si riferissero alla sua situazione personale. In particolare nell’articolo di giornale del 2/12/2011 si fa riferimento a A.M., nome diverso da quello del ricorrente; dal certificato medico allegato si evince che si è presentato in ospedale una persona con il nome Rama Arshad e la spiegazione che il nome Rama corrisponda all’appartenenza alla casta Rajpot non ne spiega la diversità; il ricorrente ha conservato solidi legami con i parenti rimasti in Pakistan; il periodo di tempo intercorrente tra i fatti e la fuga dal Pakistan non è compatibile con una persecuzione personale. Lo straniero avrebbe dovuto chiarire le ragioni della non corrispondenza dei nominativi oggetto dei documenti con quello del ricorrente ed inoltre sarebbe stato onere della difesa fornire indicazioni sufficienti al riguardo. La circostanza che il primo giudice avesse essenzialmente fatto riferimento alle dichiarazioni del richiedente non significa aver violato il dovere di cooperazione ma soltanto aver messo in luce la contraddittorietà della narrazione. Peraltro la situazione certamente critica del paese di appartenenza, soltanto dichiarata, senza fornirne un valido riscontro, non consente di riconoscere la protezione sussidiaria.

Non vi sono i presupposti per la protezione umanitaria dato che non sussistono condizioni di particolare vulnerabilità neanche alla luce della nuova documentazione prodotta in appello. In relazione al contratto di lavoro non si evince il nominativo del datore di lavoro e la produzione documentale sulle condizioni del Pakistan non è rilevante alla luce del difetto di credibilità.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero. La parte intimata non ha svolto difese.

Nel primo motivo viene censurato sotto il profilo del vizio di violazione di legge il mancato riconoscimento del concreto pericolo di persecuzione subito dal ricorrente. Viene rilevata al riguardo la violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, per non avere il giudice d’appello valutato le prove documentali offerte a sostegno della riscontrata diversità del nominativo. Tali documenti avrebbero potuto evidenziare che la divergenza era solo apparente e giustificata dall’usanza del luogo di usare il patronimico (doc. 4,5,6,7,17,18,19). Il travisamento dei fatti riguarda anche il nominativo riportato sul certificato medico (docomma 3 fascicolo appello) dal momento che lo stesso interprete in sede di udienza di comparizione davanti al Tribunale ha chiarito che in conformità alle usanze del paese di origine si tratta del riferimento alla casta cioè il nome del gruppo di appartenenza Rajpoot, ed ha altresì chiarito che il padre del ricorrente è M..

Viene dedotta anche la violazione dell’art. 8 comma 3 del D.Lgs. n. 25 del 2008 per non avere la Corte esercitato il proprio dovere di cooperazione istruttoria al fine di verificare se il supporto documentale fornito dal ricorrente ed, in particolare, le ragioni della apparente non corrispondenza dei nominativi fossero giustificate, tenuto conto che il ricorrente nella specie ha fornito il principio di prova sufficiente ed idoneo a fornire indizi adeguati della riconducibilità dei nominativi alla sua identità. Anche la valutazione del difetto di credibilità è stata svolta fuori de i parametri normativi indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, perchè non è stata svolta alcuna indagine comparativa con le informazioni generali aggiornate sul paese cui il giudice è tenuto. La vicenda narrata, infine, integra i presupposti del rifugio politico. Il cittadino straniero ha narrato di aver subito atti persecutori, torture e violenze del tutto verosimili in ragione del contesto generale. Il solo fattore del tempo intercorso tra fatti narrati e partenza non può essere ritenuto esaustivo dovendosi svolgere l’esame con riferimento all’attualità del pericolo persecutorio, avendo il ricorrente adeguatamente argomentato la persistenza del pericolo a proprio danno per l’ipotesi di rientro anche alla luce delle informazioni fornite sul paese.

Nel secondo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), nonchè dell’art. 112 c.p.c., non essendosi la Corte d’Appello pronunciata sull’ipotesi del rischio trattamenti inumani e degradanti.

Nel terzo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), nonchè il vizio di motivazione sull’esclusione di questa forma di protezione sussidiaria sulla sola base della valutazione di non credibilità nonostante le informazioni documentate fornite dal ricorrente sulla situazione generale del paese che avrebbero dovuto indurre alla verifica D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8.

Nel quarto motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè il vizio di motivazione. Viene rilevato che la documentazione sul contratto di lavoro è completa e consente l’identificazione del datore di alvoro e che la vulnerabilità deriva dalla rappresentazione della situazione generale documentata che presenta i caratteri di grave violazione dei diritti umani.

Il primo motivo è manifestamente fondato in relazione all’omessa attivazione del potere dovere di cooperazione istruttoria da parte della Corte territorial in violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. La Corte d’appello ha escluso l’attendibilità delle dichiarazioni del ricorrente non per la mancanza d’intrinseca credibilità ma per l’insufficienza della documentazione prodotta, ancorchè non ne sia stata posta in discussione la rilevanza in relazione alla qualificazione dei fatti narrati come ipotesi di protezione internazionale tipica (rifugio politico o protezione sussidiaria).

La dedotta inattendibilità è stata infatti fondata esclusivamente sulla non corrispondenza dei nominativi indicati nei documenti ed il nome e cognome del ricorrente, senza, tuttavia, considerare la spiegazione delle differenze riscontrate, tempestivamente fornita, e verificare D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8, la veridicità delle spiegazioni. Così operando, la Corte territoriale ha disatteso l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la valutazione di non credibilità non può fondarsi sulla mancanza di riscontri obiettivi relative ai fatti narrati o sull’insufficienza dei riscontri probatori offerti quando il richiedente abbia fornito dichiarazioni che evidenzino situazioni riconducibili alla protezione internazionale (Cass. 19716 del 2018) in modo soggettivamente credibile, abbia dimostrato d’impegnarsi nel fornire supporti probatori idonei a sostenere la narrazione (Cass. 11907 del 2019) e gli elementi di difformità siano marginali (Cass. 25534 del 2016). Poichè la mancanza di credibilità si fonda sulla sostanziale insufficienza probatoria dei documenti prodotti (articoli di giornale e certificazioni mediche) deve ritenersi che la Corte territoriale non abbia fatto buon governo dei principi sopra esposti e dei parametri di verifica della credibilità del cittadino straniero che richiede il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale contenuti nella pronuncia n. 26921 del 2017 così massimata: “la credibilità del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una pro cedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente” (di cui al D.Lgs. cit., art. 5, comma 3, lett. c)), con riguardo alla sua condizione sociale e all?età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale”.

L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento dei rimanenti.

In conclusione, all’accoglimento del ricorso consegue che la pronuncia deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di

Milano in diversa composizione, anche per provvedere sulle spese.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri. Cassa la pronuncia impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa Composizione, anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2019

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