Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20218 del 15/07/2021

Cassazione civile sez. III, 15/07/2021, (ud. 25/02/2021, dep. 15/07/2021), n.20218

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI FLORIO Antonella – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37523/2019 proposto da:

M.D., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la

CANCELLERIA della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONINO CIAFARDINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rapp.to e difeso Avv. Gen. Stato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 753/2019 emessa dalla CORTE D’APPELLO DI

L’AQUILA depositata in data 30/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/2/2021 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che:

M.D., cittadino del Bangladesh, ha chiesto alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politica, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

a sostegno della domanda proposta, il ricorrente ha dedotto di essersi originariamente allontanato dal proprio paese per sottrarsi alle misere condizioni di vita dettate dalle gravi condizioni economiche del Bangladesh e, successivamente, per il timore di subire violenze e ritorsioni da parte dei soggetti che avevano trafugato il denaro dallo stesso inviato in patria per consegnarlo alla propria famiglia;

la Commissione Territoriale ha rigettato l’istanza;

avverso tale provvedimento M.D. ha proposto, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso dinanzi al Tribunale di L’Aquila, che ne ha disposto il rigetto con ordinanza del 11/8/2016;

tale ordinanza, appellata dal soccombente, è stata confermata (in sede di rinvio, a seguito di una precedente pronuncia di cassazione) dalla Corte d’appello di L’Aquila con ordinanza in data 30/4/2019;

a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle forme di protezione internazionale invocate dal ricorrente, tenuto conto: 1) della mancata corrispondenza delle ragioni di fuga del ricorrente dal paese di origine con i presupposti di legittimazione della protezione internazionale rivendicata; 2) della mancanza, nei territori di provenienza del ricorrente, di condizioni tali da integrare, di per sé, gli estremi di una situazione generalizzata di conflitto armato; 3) della insussistenza di un’effettiva situazione di vulnerabilità suscettibile di giustificare il riconoscimento dei presupposti per la c.d. protezione umanitaria;

il provvedimento della Corte d’appello è stato impugnato per cassazione da M.D. con ricorso fondato su due motivi d’impugnazione;

il Ministero dell’Interno non ha svolto difese in questa sede.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che:

con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), avendo la corte territoriale confermato il rigetto della domanda di protezione sussidiaria avanzata dal ricorrente sulla base di argomentazioni del tutto contraddittorie e illogiche;

il motivo è infondato;

osserva il Collegio come il vizio denunciato dall’odierno ricorrente sia stato erroneamente ricondotto al paradigma del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5;

sul punto, è appena il caso di rilevare come, secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sé (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830);

dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, l’odierna doglianza del ricorrente deve ritenersi inammissibile, siccome diretta a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360, n. 5 cit., bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo all’intero materiale probatorio, che, viceversa, il giudice a quo risulta aver elaborato in modo sufficientemente completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, senza incorrere in alcuno dei gravi vizi d’indole logico-giuridica unicamente rilevanti in questa sede;

peraltro, per quando voglia diversamente intendersi la doglianza in esame (secondo la prospettiva aperta dal principio sancito da Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013, in motivazione) come contestazione dell’eventuale violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – ossia come sostanziale omissione di motivazione – varrà rilevare come la motivazione dettata dalla corte territoriale a fondamento della decisione impugnata sia, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico, avendo la corte d’appello dato conto, in termini lineari e logicamente coerenti, delle ragioni connesse al rigetto delle domande di riconoscimento della protezione sussidiaria avanzata dal ricorrente, tenendo conto, da un lato, come le ragioni poste a fondamento della relativa domanda non corrispondessero a nessuna delle ipotesi di danno grave alla persona di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), (avendo l’istante riferito le ragioni del proprio allontanamento dal Bangladesh alle condizioni economiche di detto paese e al timore di ritorsioni e di violenze di carattere meramente privato, senza che neppure risulti la prospettazione di alcuna impossibilità o mancata volontà delle istituzioni locali di garantire la protezione delle ragioni individuali), e dall’altro, come le fonti di informazione relative al paese di origine (espressamente indicate in motivazione), escludessero il riconoscimento di una situazione indiscriminata di violenza generalizzata suscettibile di integrare i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c);

l’iter argomentativo compendiato dal giudice a quo sulla base di tali premesse è pertanto valso a integrare gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dal ricorrente;

con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la corte territoriale erroneamente escluso il ricorso dei presupposti per il riconoscimento del diritto del richiedente ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari;

il motivo è fondato;

osserva al riguardo il Collegio come, secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02; Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01);

nella ricordata decisione delle Sezioni Unite, si è dunque sottolineata, con riguardo al tema del riconoscimento della c.d. protezione umanitaria, la piena condivisibilità dell’approccio che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva che verrebbe a determinarsi nel paese di origine a seguito del rimpatrio, al fine di verificare se tale rientro non valga a determinare una non tollerabile privazione dell’esercizio dei diritti umani del richiedente, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale;

in particolare, il giudice di merito, nel procedere alla ridetta comparazione, mentre non potrà riconoscere al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dell’isolata e astratta considerazione del suo livello di integrazione in Italia, sarà tenuto a coniugare, quella considerazione, con l’esame del modo in cui l’eventuale rimpatrio (e dunque il contesto di generale compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza) verrebbe a incidere sulla vicenda esistenziale dell’interessato, avuto riguardo alla sua storia di vita e al grado di sviluppo della sua personalità; e tanto, indipendentemente dalla circostanza che tale compromissione possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale, sanitaria; culturale, etc.;

in questi termini, la considerazione delle condizioni del paese di provenienza (comunque da indagarsi e accertarsi, dal giudice di merito, in termini obiettivi) varrà – non già a tradursi in una valutazione meramente generale e astratta della relativa situazione nazionale bensì a declinarsi e sintetizzarsi in un giudizio “personalizzato” mediante la ponderazione, di quelle generali condizioni del paese di origine, con l’incidenza che le stesse finirebbero per assumere sulla storia di vita (sulla ‘biografià) del richiedente, alla luce del principio che impone in ogni caso la salvaguardia della dignità della persona;

in tal senso, il giudizio fermato sull’entità della degradazione che l’interessato sarebbe destinato a subire a seguito del rimpatrio chiede d’essere calibrato in rapporto alle modalità concrete e irripetibili della vicenda esistenziale di quella specifica persona, sì che l’esame del modo della compromissione del c.d. nucleo ineliminabile della dignità personale (e dunque il senso della sua specifica “vulnerabilità”) consisterà propriamente nella verifica del grado di aggressione (“qualitativa”) della dignità di quella singolare ed unica esperienza individuale, sì da non potersi astrattamente escludere che, con riguardo a uno stesso paese, l’esame diretto al riconoscimento della protezione umanitaria possa anche condurre ad esiti diversi in rapporto a storie di vita differenti e non commensurabili; e ciò, non già in forza di un’inammissibile (e inaccettabile) graduazione qualitativa della dignità umana, bensì in ragione dell’inevitabile conformazione di quest’ultima (anche) in correlazione ai differenti percorsi di vita che sostanziano in modo irripetibile il senso dell’identità individuale, da valutarsi anche in relazione alla situazione psico-fisica attuale del richiedente e al contesto culturale e sociale di riferimento (v., in tal senso, Sez. 1, Ordinanza n. 13088 del 15/05/2019, Rv. 653884 – 02; e Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20/01/2020);

proprio in forza di tali premesse, dunque, acquista significato il senso (sul piano propriamente esistenziale) della comparazione tra le condizioni del paese di origine del richiedente e la relativa storia di vita, ivi compreso il grado di sviluppo e di integrazione della propria esperienza nel tessuto socio-economico del nostro paese;

nei casi in cui la ricostruzione della storia di vita del richiedente risulti ostacolata dalla ritenuta non credibilità delle relative dichiarazioni, o dall’irriducibile frammentarietà delle informazioni complessivamente acquisite, il giudice di merito dovrà in ogni caso procedere a verificare se le condizioni sociali, politiche o economiche, obiettivamente riscontrate nel paese di origine non appaiano tali da porsi in evidente contrasto con la misura del rimpatrio, avuto riguardo all’incidenza di dette condizioni con la conservazione, in capo al richiedente, del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità umana, al di là di ogni specifica caratterizzazione che valga a qualificarne l’identità;

ciò posto, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche ed economiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicché il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente (Sez. 1, Ordinanza n. 13897 del 22/05/2019, Rv. 654174 – 01);

nel caso di specie, il giudice a quo, dopo aver sottolineato come l’integrazione del richiedente nel quadro del tessuto economico-sociale italiano non valga di per sé a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, ha affermato, in termini meramente apodittici, come “le situazioni di povertà e finanche di indigenza derivanti (come nella specie) dalla situazione economica del paese di origine” non costituiscano, in sé, motivo idoneo a fondare il riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata), trascurando di tener conto che – proprio in considerazione degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano – le premesse che giustificano il diniego della protezione umanitaria necessariamente chiedono d’essere rinvenute nell’accertata insussistenza di condizioni obiettive che, riflesse sulla storia di vita del richiedente (anche in rapporto al livello di effettiva integrazione socio-economica realizzato nel paese di arrivo), valgano a esporlo al rischio di un abbandono a condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti della persona, per come rappresentate, nel loro aspetto critico, dallo stesso ricorrente; e tanto, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale, culturale, etc.;

ciò posto, il discorso giustificativo in tal guisa elaborato dal giudice a quo deve ritenersi tale – al di là dell’assorbente rilievo riguardante la violazione delle norme e di principi che presiedono al riconoscimento della c.d. protezione umanitaria – da non integrare gli estremi di una motivazione adeguata sul piano del c.d. “minimo costituzionale”;

sulla base di tali premesse, rilevata la parziale fondatezza del secondo motivo (disatteso il primo), dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, che – oltre a provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità – si atterrà al seguente principio di diritto:

“Ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nel testo applicabile al caso in esame), il giudice del merito è tenuto ad approfondire e circostanziare, in forza di un’iniziativa istruttoria ufficiosa, gli aspetti dell’indispensabile valutazione comparativa tra la situazione personale ed esistenziale attuale del richiedente sul territorio italiano, e la condizione cui lo stesso verrebbe lasciato in caso di rimpatrio, al fine di attestare (attraverso l’individuazione delle specifiche fonti informative suscettibili di asseverare le conclusioni assunte in relazione alle condizioni generali del paese di origine, indipendentemente da quanto attestato con riguardo alla domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria) che il ritorno del richiedente nel proprio paese non valga piuttosto a esporlo al rischio di un abbandono a condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti della persona, per come rappresentate, nel loro aspetto critico, dallo stesso ricorrente; e tanto, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale, culturale, etc.”.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo; rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021

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