Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20212 del 21/08/2017


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Cassazione civile, sez. II, 21/08/2017, (ud. 03/05/2017, dep.21/08/2017),  n. 20212

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10164-2014 proposto da:

T.A., BANCA POPOLARE DELL’EMILIA ROMAGNA s. coop. a

r.l., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA BARBARINI 12, presso

lo studio dell’avvocato UGO PATRONI GRIFFI, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato FISICARO EMANUELE giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3769/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 21/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Leonardo Patroni Griffi per delega dell’Avvocato Ugo

Patroni Griffi per i ricorrenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il rigetto dei

ricorsi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano con le sentenze nn. 1913 e 1915 del 1 febbraio 2013 rigettava le opposizioni promosse separatamente da T.A. e dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna s.c.a.r.l. avverso l’ordinanza con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro, Direzione V, Ufficio VII aveva ingiunto agli opponenti il pagamento della sanzione ammnistrativa, rispettivamente dell’importo di Euro 93.748,00 e di Euro 256.912,00, per la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 3 conv. nella L. n. 197 del 1991.

L’ordinanza opposta scaturiva dall’attività ispettiva della Guardia di Finanza che aveva accertato l’omessa segnalazione di operazioni finanziarie sospette da parte dei funzionari dell’Agenzia (OMISSIS) di Milano della banca opponente, i quali avevano consentito a tal B.M., indagato per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione dei reati di usura ed altro, di compiere nel periodo tra il (OMISSIS) una serie di operazioni irregolari, relativamente a tre conti correnti accesi presso la detta Agenzia, intestati al B., alla coniuge, Bo.Ne., ed alla società Epower S.r.l.

Ad avviso del provvedimento opposto, le operazioni erano irregolari in quanto connotate da evidenti intenti dissimulatori e concernenti transazioni estranee all’attività imprenditoriale lecitamente svolta dal B.. In particolare, grazie al rapporto privilegiato che aveva intrattenuto con la banca, il correntista aveva potuto porre all’incasso assegni postdatati e cambiali depositate per lo sconto, per operazioni estranee alla sua attività commerciale ed a quella della società e dell’altra intestataria del conto corrente.

Era altresì emerso che alcuni dei titoli depositati all’incasso erano stati emessi da vittime dei reati di usura a titolo di restituzione delle somme a suo tempo date a titolo di finanziamento dal B., recando la firma per girata di alcuni dei sodali nei reati contestati.

Inoltre anche molte delle transazioni formalmente riferibili alla società non trovavano riscontro nella documentazione contabile e fiscale della stessa società, dovendo quindi ritenersi che fossero state compiute in frode al fisco.

Ancora emergeva che dai conti correnti erano state prelevate ingenti quantità di denaro contante, ovvero tramite assegni al portatore o tramite titoli emessi a favore dello stesso traente, risultando infine sul conto della società compiuti dei versamenti da parte di persone fisiche e giuridiche rivelatesi inesistenti.

Avverso tali sentenze proponevano separati appelli il T. e la banca, e la Corte d’Appello di Milano, riunte le due impugnazioni, con la sentenza n. 3769 del 21 novembre 2013, rigettava entrambi i gravami.

In primo luogo reputava inammissibile la deduzione della banca con la quale, tramite uno specifico motivo di impugnazione, si deduceva il proprio difetto di legittimazione passiva, in mancanza di una precedente contestazione alla persona fisica responsabile dell’illecito amministrativo, trattandosi di eccezione nuova, non consentita dal regime delle preclusioni.

In merito alla violazione della L. n. 689 del 1981, art. 28, in punto di prescrizione della pretesa sanzionatoria, osservava che la stessa era iniziata a maturare a far data dal 27/2/2006, ossia dalla data di commissione dell’illecito, e non invece, come sostenuto dal Tribunale, dal 1 marzo 2007, allorquando era stato redatto e comunicato il processo verbale di contestazione.

Tuttavia a tale data si era realizzata, proprio con la comunicazione del verbale de quo, un’ipotesi di interruzione della prescrizione, di guisa che alla data della notifica dell’ordinanza non era maturata la prescrizione.

Inoltre il verbale de quo non era meramente ripetitivo del precedente verbale dell’8 novembre 2006, in quanto emergeva la sostanziale diversità tra i due atti, atteso che nel secondo verbale in ordine cronologico l’amministrazione aveva riformulato gli addebiti inizialmente contestati, escludendo dal novero dei trasgressori il sig. Cremonesi, e rideterminando la data di commissione dell’illecito, il valore delle operazioni sospette e l’ammontare della sanzione amministrativa.

Quanto invece alla diversa violazione della previsione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14, la sentenza d’appello, pur dando atto dell’omessa disamina della stessa da parte del Tribunale, riteneva che comunque fosse infondata, in quanto il termine de quo non poteva farsi decorrere dal 24 marzo 2006, allorquando la Procura di Lodi aveva disposto il sequestro delle somme depositate sui conti correnti facenti capo al B., ma alla diversa data in cui era stata completata l’attività istruttoria, sviluppatasi con la presentazione di deduzioni difensive in data 6 e 7 dicembre 2006, e con la successiva audizione del Cremonesi e del T. in data 7 ed 8 febbraio 2007, occorrendo altresì ribadire la diversità tra l’istruttoria concernente la responsabilità penale del B. e quella che investiva la responsabilità amministrativa oggetto dell’ordinanza impugnata.

La sentenza proseguiva poi disattendendo le contestazioni in merito alla corretta applicazione della L. n. 197 del 1991.

Infatti, si rilevava che effettivamente erano state poste in essere una serie di operazioni anomale connotate dall’ingente movimentazione di denaro in un lasso di tempo alquanto breve, operazioni che apparivano incongruenti con la dimensione artigianale dell’attività professionale dell’indagato.

Nelle movimentazioni risultavano poi coinvolti dei prestanome nonchè dei soggetti che, una volta sentiti, avevano negato di aver impartito ai funzionari di banca gli ordini apparentemente eseguiti su loro disposizione.

Quanto alla assenza di elementi che potessero indurre a sospettare della natura anomala delle operazioni eseguite, la sentenza osservava che in realtà il sospetto doveva nascere dalla qualità dei soggetti coinvolti, dal numero e dalla rilevanza economica delle operazioni, tenuto conto della qualità di operatori qualificati degli opponenti.

Le anomalie poi si presentavano anche in relazione alle transazioni eseguite sul conto intestato alla Sorella ed alla società Epower, atteso che le stesse non trovavano corrispondenza nelle attività lecitamente svolte dalle correntiste, e risalendo molte delle operazioni a soggetti inesistenti, a favore dei quali erano stati emessi assegni tratti sul conto della società e poi riversati nuovamente sullo stesso conto corrente.

Andava altresì esclusa la carenza dell’elemento soggettivo, posto che l’obbligo di segnalazione non può essere eluso facendo riferimento al personale convincimento degli operatori circa l’estraneità delle operazioni rispetto all’attività delittuosa, dovendosi quindi ribadire la regola secondo cui l’operatore e gli intermediari devono comunque effettuare la segnalazione delle operazioni anomale, essendo poi rimessa alla valutazione del responsabile del cd. secondo livello (legale rappresentante o funzionario all’uopo delegato) la decisione di procedere o meno alla comunicazione esterna.

La sentenza continuava poi a confutare le tesi difensive degli opponenti, rilevando che non era necessario avere la piena consapevolezza o certezza della commissione dei reati di usura da parte del B., in quanto, a seguito della riformulazione del reato di cui all’art. 648 bis c.p., lo stesso è svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, attagliandosi la fattispecie criminale a tutte le ipotesi in cui l’attività delittuosa possa portare alla creazione di capitali illeciti, che si mira a ripulire mediante le operazioni presso gli intermediari finanziari.

In merito alla precedente segnalazione effettuata dalla banca nel 2003, si osservava che la stessa non esimeva i funzionari della banca dal dover provvedere a nuove segnalazioni in presenza di ulteriori operazioni sospette, e ciò anche in assenza di attivazione da parte delle autorità inquirenti a seguito della prima segnalazione.

A tal fine andava evidenziato che la prima segnalazione si riferiva ad un’operazione di valore contenuto, laddove le transazioni interessate dall’ordinanza opposta erano state reiterate nel tempo ed avevano riguardato un complessivo importo di oltre tre milioni di Euro.

L’omessa risposta dell’Ufficio Italiano Cambi alla prima segnalazione ben poteva giustificarsi, oltre che per l’assenza di un obbligo di fornire risposta al segnalante, per la necessità di mantenere un doveroso riserbo in ordine ad accertamenti che coinvolgevano anche profili di rilevanza penale, come appunto confermato dal successivo sequestro delle somme giacenti presso la banca e riconducibili al B..

Quanto alla mancata segnalazione di anomalie da parte del sistema informatico denominato (OMISSIS), la Corte distrettuale rilevava che il malfunzionamento di tale sistema non esimeva gli operatori qualificati dal dovere in ogni caso di attivarsi in relazione alle operazioni anomale riscontrate, come peraltro confermato dalla circostanza che anche in occasione della prima segnalazione del 2003, il sistema de quo non aveva rilevato l’anomalia, senza che ciò però avesse impedito alla banca di far partire la segnalazione. Inoltre, quanto alle regole di cui al cd. decalogo della Banca d’Italia del 12 novembre 2001, correttamente il Tribunale aveva escluso che lo stesso avesse valenza normativa, ma aveva tratto dallo stesso argomenti per ritenere doveroso da parte degli operatori bancari un impegno concreto e costante, anche in termini di formazione del personale, e di adeguamento delle strutture organizzative, al fine di assicurare il conseguimento dell’obiettivo di una vigilanza attiva.

La valutazione di antigiuridicità della condotta degli opponenti non si fondava quindi unicamente sulla violazione di tali regole, ma era il frutto del riscontro della violazione delle norme che avevano nel complesso disegnato la rete di controlli interni a tutela del sistema antiriciclaggio.

Infine era disatteso anche il motivo di appello concernente la quantificazione della sanzione dovendosi reputare che la sua determinazione in una percentuale pari a circa il 10 % dell’importo complessivo movimentato, era conforme alla cornice edittale di cui alla L. n. 197 del 1991, art. 5, comma 5 (che prevede un’oscillazione tra il 5 ed il 40 % del valore dei trasferimenti finanziari), essendo altresì avvenuta nel rispetto dei criteri dettati dall’art. 11 della legge n. 689/81.

Per la cassazione di tale provvedimento ha proposto ricorso T.A. sulla base di quattro motivi.

Anche la Banca Popolare dell’Emilia Romagna S.c.a.r.l. ha proposto autonomo ricorso affidato a sei motivi.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha resistito con controricorso.

Entrambi i ricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Ragioni di ordine logico impongono la previa disamina dei primi due motivi del ricorso proposto dalla Banca, i quali possono essere congiuntamente esaminati per la connessione che li connota.

Con il primo si deduce la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’omessa pronuncia sull’eccezione di inesistenza del presupposto di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 6, ai fini della comminatoria della sanzione amministrativa nei confronti dell’obbligato solidale.

A tal fine si evidenzia che con il processo verbale del 1 marzo 2007, il Ministero, mutando avviso rispetto al precedente atto notificato, aveva escluso ogni addebito a carico del C., conservando la contestazione nei riguardi della Banca e del T., circostanza di cui aveva preso atto anche il Tribunale.

Tuttavia l’istituto di credito con il primo motivo di appello aveva eccepito la violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c. e della L. n. 689 del 1981, art. 6, facendo rilevare che una volta che il Ministero aveva ritenuto di non procedere nei confronti del trasgressore, non poteva operare la responsabilità soldale della banca ex art. 6 citato.

La sentenza impugnata ha invece ritenuto che la deduzione de qua concretasse un’eccezione nuova, non consentita in grado di appello ex art. 437 c.p.c., omettendo di considerare che la doglianza investiva la legittimazione passiva sostanziale e quindi la sussistenza di un fatto costitutivo della domanda. Trattasi quindi di una mera difesa o al più di un’eccezione in senso lato, suscettibile di essere liberamente proposta anche in grado di appello, ove fondata sui fatti già allegati nel corso del giudizio di primo grado.

Il secondo motivo denunzia poi la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 6 ai fini della comminatoria della sanzione amministrativa nei confronti dell’obbligato solidale.

Richiamandosi l’omessa contestazione dell’illecito al trasgressore persona fisica, si sostiene che non vi sarebbe possibilità di pretendere il pagamento della sanzione da parte del coobbligato solidale ex art. 6 citato, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio e come tale suscettibile di disamina da parte del giudice di appello senza i limiti dell’effetto devolutivo delle impugnazioni.

I motivi sono infondati.

Ed, invero rilevata la manifesta infondatezza in punto di violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte in ogni caso statuito sulla contestazione de qua, affermandone comunque la tardività, ritiene la Corte che debba confermarsi la sentenza impugnata proprio ribadendo la inammissibilità della deduzione in punto di violazione della L. n. 689 del 1981, art. 6, così come sollevata per la prima volta dalla società solo in grado di appello.

A tal fine occorre prendere le mosse dalla natura impugnatoria del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa così come ribadito dalla costante giurisprudenza della Corte, la quale ha appunto affermato che (cfr. Cass. n. 20425/2006) l’opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione di pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa, di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 22 e 23 (richiamati per le violazioni relative al codice della strada dall’art. 205 di tale codice), introduce un giudizio, disciplinato dalle regole proprie del processo civile di cognizione, i cui limiti sono segnati dai motivi dell’opposizione, che costituiscono la “causa petendi” dell’azione. Da ciò consegue poi che il giudice non può rilevare d’ufficio vizi dell’atto amministrativo impugnato, diversi da quelli fatti valere con l’atto introduttivo, ostandovi il principio di cui all’art. 112 c.p.c., che vieta al giudice di porre a fondamento della decisione fatti estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (così cass. n. 13751/2006), non potendo essere, nel giudizio di opposizione a ordinanza – ingiunzione, rilevabili d’ufficio ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che l’ha preceduto non dedotte dal ricorrente (Cass. n. 18288/2010; conf. Cass. n. 22637/2013).

Pertanto poichè i motivi di opposizione si pongono come “causa petendi” del giudizio de quo, i quali, a norma dell’art. 22 cit., devono essere proposti con il ricorso entro trenta giorni dalla notificazione della ingiunzione (Cass. n. 6519/2005), deve escludersi che potesse essere dedotta per la prima volta in grado di appello una patologia dell’ordinanza, chiaramente non riconducibile ad un’ipotesi di inesistenza, quale quella ora in esame, non potendosi in tal modo eludere il carattere perentorio tipico dei termini previsti per l’opposizione e per la concreta delimitazione del thema decidendum.

Pertanto, i motivi devono essere rigettati, previa correzione parziale della motivazione, nel senso che l’inammissibilità della deduzione de qua piuttosto che scaturire da una pretesa novità dell’eccezione è conseguenza della inammissibile deduzione di un nuovo motivo di opposizione avanzato per la prima volta solo in sede di appello, trattandosi evidentemente di un vizio del provvedimento che non ne determina l’inesistenza, e che come tale andava dedotto nel rispetto dei termini previsti per l’opposizione.

2. Con il terzo motivo del ricorso della banca, che coincide con il primo motivo del T., si lamenta la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 28,in relazione all’art. 2043 ed all’art. 12 preleggi.

Si evidenzia che, risalendo le operazioni anomale delle quali era stata omessa la segnalazione, al periodo tra il 1 aprile 2005 ed il 3 marzo 2006, la prescrizione quinquennale era stata interrotta con la notifica del verbale di accertamento avvenuta in data 8/11/2006, con la conseguenza che la successiva notifica dell’ordinanza opposta era intervenuta in data 10/11/2011 a prescrizione ormai maturata.

La Corte d’Appello aveva però disatteso lo specifico motivo di appello, ritenendo che la successiva notifica del verbale di accertamento del 1 marzo 2007 fosse idonea a determinare una nuova interruzione del termine prescrizionale, sul rilievo delle oggettive diversità con il precedente verbale del novembre 2006, sia per la diversa individuazione della data di commissione dell’illecito, sia per avere escluso dalla contestazione il C., sia per avere rideterminato l’importo delle operazioni anomale non segnalate, mutando anche l’ammontare della sanzione irrogata.

Ad avviso dei ricorrenti tale conclusione è errata, in quanto l’invito al pagamento della sanzione era già contenuto nel primo verbale, sicchè è in relazione all’atto più risalente nel tempo che deve ricondursi la formazione del titolo esecutivo e quindi l’effetto interruttivo della prescrizione.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

I giudici di merito con accertamento in fatto, non sindacabile in questa sede, hanno ritenuto che il verbale comunicato il 1 marzo 2007 diverga significativamente da quello inizialmente comunicato ai trasgressori, e che ciò sia evidentemente il frutto di una riconsiderazione dei fatti di causa alla luce delle deduzioni difensive degli interessati e di ulteriori attività istruttorie, consistite nell’audizione tra gli altri anche del T..

Il carattere di novità che connota il verbale de quo, anche in punto di individuazione degli obbligati e di entità della sanzione, rende quindi evidente che alla notifica del medesimo debba attribuirsi il carattere di atto interruttivo della prescrizione, idoneo a produrre un nuovo effetto in tal senso, in aggiunta a quello già determinatosi con la notifica del primo verbale, consentendo in tal modo il protrarsi nel tempo del termine di prescrizione della pretesa sanzionatoria.

La decisione gravata risulta quindi avere correttamente fatto applicazione dei principi costantemente affermati da questa Corte per i quali la notifica al trasgressore del processo verbale di accertamento della infrazione è idonea a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c. atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria (Cass. n. 14886/2016; Cass. n. 28238/2008).

3. Il quarto motivo del ricorso della banca corrispondente al secondo motivo del T., denunzia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 14.

Gli opponenti avevano infatti invocato la causa di estinzione scaturente dalla tardiva contestazione, alla luce del fatto che le circostanze sulle quali si fondava la pretesa sanzionatoria erano già note a far data dal 24 marzo 2006, allorquando la Procura di Lodi aveva disposto il sequestro delle somme depositate sui conti correnti intestati al B..

La Corte d’Appello, supplendo alla carenza di motivazione del Tribunale, aveva però disatteso la doglianza, rilevando che in realtà le attività istruttorie che avevano poi portato all’emissione del verbale del 1 marzo 2007, si erano protratte anche in epoca successiva alla prima notifica del verbale dell’8/11/2006, per effetto delle deduzioni difensive presentate dagli interessati e dell’audizione di alcuni esponenti della banca, dovendosi in ogni caso escludere che potesse avere rilievo quanto emergeva dal solo provvedimento di sequestro del marzo del 2006, trattandosi di un provvedimento che coinvolgeva la responsabilità penale del B., ma che di per sè non evidenziava le violazioni degli obblighi di vigilanza sulle quali si fonda l’ordinanza opposta.

Tale conclusione è contestata dai ricorrenti che invece ribadiscono che il quadro probatorio era già completamente delineato alla data del marzo del 2006, con la conseguenza che la contestazione è avvenuta in evidente violazione del termine di cui all’art. 14 citato.

Il motivo è infondato.

A tal fine occorre ricordare che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 3043/2009), qualora non sia avvenuta la contestazione immediata della violazione, il momento dell’accertamento – in relazione al quale collocare il “dies a quo” del termine previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, per la notifica degli estremi di tale violazione non coincide con quello in cui viene acquisito il “fatto” nella sua materialità da parte dell’autorità cui è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato nel momento in cui detta autorità abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell’esistenza della violazione segnalata, ovvero in quello in cui il tempo decorso non risulti ulteriormente giustificato dalla necessità di tale acquisizione e valutazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in relazione ad una sanzione amministrativa comminata per l’omessa segnalazione di operazioni finanziarie sospette di riciclaggio, aveva accolto l’opposizione dell’istituto di credito, sul rilievo che la contestazione doveva ritenersi tardiva assumendo come “dies a quo” il momento in cui era pervenuta al Ministero dell’Economia e delle Finanze la segnalazione della Guardia di finanza anzichè quello in cui il Ministero aveva potuto vagliare in concreto l’operato del suddetto organo).

Il precedente citato appare del tutto pertinente in relazione alla fattispecie in esame, nella quale, ancorchè il Ministero abbia svolto ulteriore attività istruttoria, anche in epoca successiva alla avvenuta conoscenza della rilevanza penale delle operazioni delle quali si contesta l’omessa segnalazione, si ritiene ad opera dei ricorrenti di dover far risalire il dies a quo per la decorrenza del termine di cui all’art. 14 citato, ad una data di gran lunga anteriore a quella dello stesso compimento delle attività di completamento dell’acquisizione degli elementi fattuali, trascurandosi la corretta osservazione del giudice di merito secondo cui il rilievo penale delle condotte ascritte al B. non illustra di per sè anche la sussistenza dell’illecito amministrativo, consistente nell’omessa adozione delle misure antiriciclaggio, ed in dettaglio, nella mancata segnalazione delle operazioni anomale.

La sentenza impugnata, con accertamento in fatto in questa sede non sindacabile, anche perchè supportato da congrua e soddisfacente motivazione, ha chiarito le ragioni per le quali solo all’esito del deposito delle controdeduzioni dei soggetti interessati e dell’audizione di alcuni di essi, poteva reputarsi acquisito un esauriente quadro probatorio, essendo questo il momento a partire dal quale può decorrere il termine in esame.

In tal senso valga il rinvio al principio secondo cui (cfr. Cass n. 9311/2007) la valutazione circa l’esaurimento dell’attività di accertamento dell’illecito, intesa come comprensiva del tempo necessario alla valutazione dei dati acquisiti e afferenti agli elementi (oggettivi e soggettivi) dell’infrazione e, quindi, della fase finale di deliberazione, correlata alla complessità delle indagini tese a riscontrare la sussistenza dell’infrazione medesima e ad acquisire piena conoscenza della condotta illecita sì da valutarne la consistenza agli effetti della corretta formulazione della contestazione, compete al giudice di merito, che deve tenere conto della maggiore o minore difficoltà del caso concreto e della necessità che le indagini, pur nell’assenza di limiti temporali predeterminati, avvengano entro un termine congruo essendo il relativo giudizio sindacabile, in sede di legittimità, solo sotto il profilo del vizio di motivazione (in senso sostanzialmente conforme Cass. n. 7681/2014).

La sentenza impugnata ha quindi fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia, avendo, come detto, adeguatamente motivato in merito alle ragioni per le quali non poteva farsi risalire l’accertamento del fatto, come sopra inteso, alla data invocata dai ricorrenti, di modo che, mancando altresì una censura di parte in ordine alla adeguatezza della motivazione (censura peraltro nemmeno più prospettabile in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), i motivi devono essere disattesi.

4. Il quinto motivo della banca, che risulta di identico tenore rispetto al terzo motivo del T., lamenta la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 3con. in L. n. 197 del 1991.

Si deduce che erroneamente i giudici di merito hanno ravvisato la doverosità della segnalazione delle operazioni compiute da parte del B. presso gli sportelli dell’Agenzia della banca ricorrente, sostenendosi che invece le operazioni in questione potevano al più apparire irregolari o poco ortodosse, ma non anche configurarsi come sospette e quindi tali da imporre la segnalazione.

Il motivo è infondato essendo evidente come lo stesso miri surrettiziamente ad ottenere una diversa valutazione del merito, in contrasto con l’accertamento, ampiamente argomentato e logicamente motivato compiuto dal giudice di merito.

La sentenza impugnata, infatti, ha sottolineato come un evidente indice dell’anomalia dall’attività svolta dal B., fosse l’ingente importo delle operazioni finanziarie effettuate, che non trovavano oggettivo riscontro con l’attività artigianale svolta dal correntista.

Emergeva poi che si rinvenivano versamenti di somme di denaro su conti intestati a prestanome, somme che poi erano immediatamente trasferite sul conto personale del B., essendo quindi evidente l’intento di intralciare la corretta ricostruzione dei passaggi di denaro.

Ancora la banca si era prestata alla custodia ed all’incasso di titoli postdatati e di cambiali provenienti da soggetti estranei all’attività imprenditoriale del soggetto indagato per i reati di usura, essendosi altresì dato contezza delle ragioni in base alle quali dovesse giustificatamente sorgere il sospetto in operatori qualificati, quali i dipendenti della banca, circa l’anomalia delle operazioni, nonostante l’utilizzo di operazioni tracciabili, ma adoperate con modalità tali da alterare la agevole ricostruzione dei flussi finanziari.

Inoltre ha offerto anche un’adeguata risposta alla deduzione relativa alla mancanza di una segnalazione di anomalia da parte del sistema informatico in uso da parte della banca (cd. Sistema (OMISSIS)), chiarendo che tale sistema funge da ausilio nell’attività di vigilanza rimessa all’intermediario finanziario, il quale è comunque chiamato a compiere una propria autonoma valutazione, proprio alla luce delle caratteristiche soggettive ed oggettive delle operazioni effettuate (non senza mancare di segnalare che, in passato, e precisamente nel 2003, pur in assenza di segnalazione del sistema informatico in esame, aveva comunque ritenuto di segnalare un’operazione anomala del B., e ciò sul chiaro presupposto che il potere di segnalazione non è rigidamente vincolato alle indicazioni di carattere informatico).

Va pertanto ritenuto che anche in parte qua la decisione gravata abbia fatto corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha appunto affermato che (cfr. Cass. n. 10621/2010) in tema di illecito amministrativo, l'”error iuris”, quale causa di esclusione della responsabilità in riferimento alla violazione di norme amministrative (in analogia a quanto previsto dall’art. 5 c.p.), viene in rilievo soltanto a fronte della inevitabilità dell’ignoranza del precetto violato, il cui apprezzamento va effettuato alla luce della conoscenza e dell’obbligo di conoscenza delle leggi che grava sull’agente in relazione anche alla qualità professionale posseduta e al suo dovere di informazione sulle norme, e sull’interpretazione che di esse è data, che specificamente disciplinano l’attività che egli svolge, precisandosi che, in ipotesi di illecito amministrativo per omessa segnalazione di operazioni finanziarie sospette, di cui al D.L. 3 maggio 1991, n. 143, artt. 3 e 5, convertito, con modificazioni, nella L. 5 luglio 1991, n. 197, la segnalazione deve essere comunque operata, con la conseguente trasmissione al “titolare dell’attività”, per il suo ulteriore vaglio.

In senso conforme si veda anche Cass. n. 23017/2009, che ha appunto ribadito che in materia di sanzioni amministrative per violazione della disciplina antiriciclaggio, ai sensi del D.L. n. 143 del 1991, art. 3 (conv. dalla L. n. 197 del 1991, sostituito dal D.Lgs. n. 153 del 1997, art. 1), il potere di valutare le segnalazioni e (se le ritenga fondate) di trasmetterle al questore spetta solo al “titolare dell’attività” (ossia all’organo direttivo della banca), mentre il “responsabile della dipendenza” deve segnalare al suo superiore ogni operazione che lo induca a ritenere che l’oggetto di essa possa provenire da reati attinenti al riciclaggio, sulla base di elementi oggettivi riferibili all’operazione stessa o alla capacità economica e all’attività del cliente.

Nella fattispecie in esame, la sentenza gravata, con apprezzamento in fatto, come detto non censurabile in questa sede, ha analiticamente evidenziato gli elementi oggettivi che inducevano a ravvisare l’anomalia delle operazioni, avuto riguardo anche alla qualità soggettiva dell’agente, rimarcando altresì che la natura di operatori qualificati degli addetti all’Agenzia non poteva in alcun modo giustificare l’omissione della segnalazione.

5. Il sesto motivo del ricorso della banca, di identico tenore rispetto al quarto motivo di ricorso del T., lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, art. 3 ai fini dell’obbligo di segnalazione dell’operazione sospetta.

Si deduce che in realtà la banca aveva già effettuato una prima segnalazione nel marzo del 2003, alla quale non aveva fatto seguito alcun riscontro da parte dell’Autorità amministrativa.

Ad avviso dei ricorrenti erroneamente la Corte d’Appello ha escluso che con tale segnalazione la banca avesse adempiuto a quanto impostole dalla legge, non potendosi giustificare la conclusione dei giudici di merito a mente della quale sarebbe stato necessario reiterare la segnalazione.

Anche tale motivo mira indebitamente ad ottenere una diversa valutazione dei fatti di causa, in contrasto con quanto accertato dal giudice del merito.

La sentenza gravata ha infatti puntualmente esanimato la rilevanza di tale prima segnalazione, dando conto, da un lato, di come non fosse in alcun modo significativo il silenzio serbato dall’Ufficio Italiano Cambi subito dopo la sua ricezione (trovando ciò spiegazione nel fatto che la stessa aveva dato seguito ad un’attività di indagine anche di carattere penale, e che imponeva un doveroso riserbo anche nei confronti dell’ente segnalante), e dall’altro che la successiva attività posta in essere dal B. si connotava come decisamente più grave e preoccupante di quella che aveva indotto ad effettuare la prima segnalazione, concernendo un flusso di denaro che superava abbondantemente i tre milioni di Euro, a fronte di una prima segnalazione che invece concerneva una transazione del valore di appena Euro 13.500,00.

In tale prospettiva, correttamente la decisione impugnata ha ritenuto che, tenuto conto del lasso di tempo trascorso tra la prima segnalazione (2003) e l’inizio delle operazioni di cui si contesta l’omessa segnalazione (29/6/2005), dell’elevato numero delle operazioni eseguite e del loro complessivo importo economico, si imponeva una tempestiva nuova attività di segnalazione, in ragione del compimento di “nuovi e rilevanti comportamenti anomali, sia in relazione alle persone coinvolte che alle modalità operative adottate”.

La individuazione di un lasso temporale tale da determinare una soluzione di continuità tra la prima operazione oggetto di segnalazione e quelle invece interessate dalla sanzione oggetto di causa, ma soprattutto la ribadita differenziazione sul piano qualitativo e quantitativo delle condotte poste in essere dal B. danno altresì contezza delle ragioni per le quali si palesa infondata la deduzione sviluppata nelle memorie di parte ricorrente secondo cui la sentenza gravata avrebbe indebitamente fatto applicazione retroattiva di una normativa sanzionatoria sopravvenuta rispetto ai fatti di causa.

In primo luogo la diversità ontologica tra la prima operazione e quelle successive, come appunto argomentatamente specificato dalla Corte d’Appello, non consente di poter ritenere che nella specie si trattava di reiterare una segnalazione già svolta, venendo invece addebitato ai ricorrenti l’omissione di una segnalazione di nuove operazioni sospette.

Nè risulta configurabile una applicazione retroattiva della previsione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 23, in tema di obbligo di astensione dell’esecuzione di operazioni sospette, atteso che la contestazione verte unicamente sull’omissione delle doverose segnalazioni.

6. I ricorsi devono quindi essere integralmente rigettati, e per l’effetto le spese vanno regolate, come da dispositivo, in base al principio della soccombenza.

7. Poichè i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

La Corte, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 7.200,00, oltre spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2017

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