Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20211 del 07/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 07/10/2016, (ud. 18/05/2016, dep. 07/10/2016), n.20211

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22634-2013 proposto da:

MANUTENCOOP FACILITY MANAGEMENT S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO

VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GERMANO

DONDI, ANDREA RONDO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.D.Z.H.E., rappresentato e difeso

dall’avvocato WILLIAM LIMUTI, elettivamente domiciliato in ROMA

CIRCONVALLAZIONE GIANICOLENSE, 233, giusta procura speciale deposita

in udienza;

– resistente –

avverso la sentenza n. 228/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/04/2013, R.G. N. 2845/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato MICHELE GUZZO per delega Avvocato GERARDO VESCI;

udito l’Avvocato ROBERTO TONTI per delega Avvocato WILLIAM LIMUTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza resa pubblica il 24/4/13 la Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede – che aveva convertito in licenziamento per giustificato motivo soggettivo il licenziamento per giusta causa intimato nei confronti di R.D.Z.H.E. dalla Manutencoop Facility Management s.p.a. e condannato quest’ultima al pagamento della indennità di preavviso – dichiarava l’illegittimità del provvedimento espulsivo e condannava la società alla reintegra dell’appellante nel posto di lavoro, con tutti gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 nella versione di testo applicabile ratione temporis.

A fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, il giudice dell’impugnazione osservava che l’espletata istruttoria non aveva suffragato la tesi accreditata dalla società e posta a base del provvedimento espulsivo irrogato, alla cui stregua il lavoratore – operaio inquadrato nel 2^ livello del c.c.n.l. imprese pulizia – aveva dato vita ad un violento diverbio con un collega di lavoro, seguito da vie di fatto.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la Manutencoop Facility Management s.p.a. con tre motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. L’intimato ha rilasciato procura speciale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La società critica la sentenza impugnata per il non corretto governo del materiale istruttorio acquisito, deducendo l’erroneità dell’iter. motivazionale seguito dai giudici del gravame i quali avevano conferito prevalente rilievo, ai fini del decidere, alla deposizione resa da testimone non presente ai fatti, rispetto a quella rilasciata dall’unico soggetto che aveva assistito all’episodio oggetto di contestazione.

Il motivo è privo di pregio, non apparendo rispettoso dei dettami sanciti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis.

Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle sezioni unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n.8053), la disposizione va letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindaCato di legittimità sulla motivazione.

Scompare, quindi, nella condivisibile opinione espressa dalla Corte, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta quello sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.

Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. concerne, quindi, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.

E’ bene rammentare poi, con riferimento al principio del libero convincimento del giudice consacrato dall’art. 116 c.p.c., comma 1, che in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (vedi Cass. 10/6/2014 n. 13054).

E’ stato altresì precisato che nel caso sussista un contrasto fra le dichiarazioni rese dai testimoni escussi, il giudice, è tenuto a confrontare le deposizioni raccolte ed a valutare la credibilità dei testi in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con gli eventuali elementi di prova acquisiti, per poi esporre le ragioni che lo hanno portato a ritenere più attendibile una testimonianza rispetto all’altra o ad escludere la credibilità di entrambe (vedi Cass. 27/1/2015 n. 1547).

Orbene, applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai canoni enunciati, sollecita un’inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminate dalla Corte territoriale, auspicandone un’interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

Non va sottaciuto, al riguardo, che lo specifico l’iter motivazionale seguito dai giudici dell’impugnazione non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità.

La fattispecie concreta è stata, infatti, oggetto di approfondita disamina da parte della Corte territoriale che – come riferito nello storico di lite – è pervenuta alla conclusione che le risultanze istruttorie non consentivano di ritenere dimostrata la condotta addebitata al lavoratore. La Corte ha fatto leva sulla scarsa attendibilità delle dichiarazioni rese del teste F., tenuto conto dei rapporti di conoscenza intercorrenti con l’altro lavoratore coinvolto nella lite, che avevano indotto il testimone a stilare la dichiarazione prodotta dalla società, in cui riferiva sull’iniziativa assunta dall’odierno controricorrente in ordine al litigio ed alla successiva aggressione fisica.

Il giudice dell’impugnazione ha quindi rimarcato il contrasto di dette dichiarazioni con quelle rese dalla teste Fu., la quale aveva invece riferito di aver visto l’altro lavoratore aggredire e far cadere l’ H., ma di non essere intervenuta per timore, avendo in passato subito minacce.

La Corte ha quindi posto in rilievo che la deposizione di detta testimone rinveniva ulteriore avallo nella certificazione medica versata in atti, concernente il trauma cranico non commotivo e la contusione alla spalla subita dall’ H., laddove nessuna attestazione in tal senso risultava acquisita in relazione all’altro lavoratore.

Il complessivo apprezzamento del materiale probatorio elaborato dalla Corte territoriale, non risulta affetto dai vizi di assoluta omissione o irriducibile contraddittorietà che avrebbero potuto giustificare l’emendamento della decisione, sottraendosi, in quanto congruo e completo, alla censura all’esame.

Con il secondo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che in base ai principi enunciati da questa Corte in subiecta materia, se sul datore di lavoro grava l’onere di provare la giusta causa ed il giustificato motivo di licenziamento, sotto altro versante incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare ai sensi dell’art. 1218 c.c. che l’inadempimento oggettivamente rilevato non è imputabile ad una sua volontà di sottrarsi ingiustamente alla prestazione o al comportamento dovuti. Nello specifico, essendo provato che il violento diverbio con il collega P. risultava acclarato in atti, era il lavoratore a dover dimostrare il proprio assunto che evocava l’esistenza di una scriminante, ovverosia che la sua condotta si poneva quale reazione alla altrui aggressione.

Il motivo è privo di pregio.

Non trova ingresso la tesi accreditata da parte ricorrente, circa un presunto rovesciamento dell’onere della prova in tema di legittimità del provvedimento espulsivo, giacchè, nello specifico, non si trattava di ascrivere al lavoratore la prova di una esimente, ma di ricostruire l’accaduto nella sua materialità e secondo l’elemento intenzionale.

In tale prospettiva, correttamente la Corte distrettuale, all’esito del rinnovato scrutinio del materiale istruttorio, con apprezzamento immune da censure per quanto sinora detto, ha ritenuto non ricostruibile la dinamica degli eventi e, conseguentemente, indimostrata, la mancanza attribuita al dipendente. Il datore di lavoro non ha infatti assolto al principale onere probatorio gravante a suo carico, integrato dalla dimostrazione dei fatti in cui si realizza la mancanza ascritta al lavoratore. Tanto in virtù dei principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, in base ai quali (vedi Cass. 23/2/2009 n.4368 cui adde Cass. 29/5/2015 n.11206) in tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologico del lavoratore.

La prova di una esimente che viene posta a carico del lavoratore, è, quindi, elemento che viene in rilievo solo in una fase, all’evidenza successiva rispetto a quella concernente la dimostrazione delle mancanze ascritte. E nella fattispecie, detta fase, per quanto sinora detto, è mancata, sicchè i principi in tema di ripartizione dell’onus probandi sulla delibata materia, non risultano vulnerati dalla pronuncia qui impugnata.

Con il terzo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si lamenta che la Corte distrettuale, nel pervenire alla condanna della società al pagamento del risarcimento del danno tenendo conto della retribuzione mensile risultante dalla busta paga del mese di (OMISSIS), abbia tralasciato di considerare che il dipendente lavorava con contratto a tempo parziale e che la somma di Euro 1.148,99 indicava il valore base della retribuzione spettante in astratto al dipendente, sulla quale veniva poi calcolata la retribuzione mensile.

Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità; giacche, in violazione del principio di autosufficienza che governa il ricorso per cassazione, non reca la riproduzione del tenore delle buste paga di cui lamenta l’omesso esame.

Mette conto, peraltro, rilevare che la Corte territoriale ha reso ragione dell’iter motivazionale percorso onde addivenire alla definizione del quantum debeatur, avendo tenuto conto dell’importo mensile di euro 1.148,00 risultante dalla busta paga del (OMISSIS), con apprezzamento che si sottrae alla censura formulata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo l’interpretazione resa dalle sezioni unite di questa Corte, per quanto già osservato in relazione al primo motivo di ricorso.

In definitiva, alla stregua delle argomentazioni sinora esposte, il ricorso è respinto.

Avuto riguardo all’esito alterno delle fasi di merito, vanno compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni. richieste dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte della ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2016

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