Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 202 del 05/01/2022

Cassazione civile sez. VI, 05/01/2022, (ud. 16/11/2021, dep. 05/01/2022), n.202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4281/2020 R.G., proposto da:

l’Agenzia delle Entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore

Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con sede in Roma, ove per legge domiciliata;

– ricorrente –

contro

L.L.;

– intimato –

avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

della Toscana – Sezione Staccata di Livorno il 17 giugno 2019 n.

995/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 20 ottobre 2021 e, a seguito di riconvocazione,

nella Camera di consiglio non partecipata del 16 novembre 2021 dal

Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana – Sezione Staccata di Livorno il 17 giugno 2019 n. 995/10/2019, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per IRPEF, IRAP ed IVA (oltre ad accessori) relative all’anno 2011, in dipendenza della mancata comunicazione dei dati contenuti nelle dichiarazioni di intento, dei rilievi per omessi ricavi e della mancata fatturazione di alcune operazioni, ha accolto l’appello proposto da L.L. nei confronti della medesima avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Livorno il 17 marzo 2017 n. 93/01/2017, con compensazione delle spese giudiziali. Il giudice di appello ha riformato la decisione di primo grado sul presupposto che la traslazione dell’obbligo di comunicazione dei dati contenuti nelle lettere di intenti a carico dell’esportatore abituale per effetto del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, art. 20, comma 3, consentisse al fornitore, per le violazioni commesse sotto il vigore della precedente disciplina, di avvalersi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2. L.L. è rimasto intimato. Ritenuta la sussistenza delle condizioni per definire il ricorso con il procedimento ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., la proposta redatta dal relatore designato è stata notificata al difensore della parte costituita con il decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, e del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, comma 1, lett. g, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto il giudice di appello che si applicasse il principio del favor rei sulla base dello ius superveniens, esonerando il fornitore da ogni responsabilità amministrativa per le violazioni commesse sotto il vigore della precedente disciplina che poneva l’obbligo di comunicazione delle lettere di intenti a suo carico.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver erroneamente omesso il giudice di appello di pronunziarsi sul gravame concernente le riprese a tassazione in relazione a talune fatture.

3. Con il terzo motivo, si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver erroneamente deciso il giudice di appello con motivazione meramente apparente con riguardo all’annullamento di tutte le poste dell’avviso di accertamento ancora in contestazione.

Ritenuto che:

1. Il primo motivo è fondato.

1.1 Invero, la modifica apportata dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, comma 1, al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, nella parte in cui essa ha sostituito l’esportatore abituale al fornitore di beni o al prestatore di servizi nella comunicazione all’amministrazione finanziaria della dichiarazione di intenti relativa all’acquisto o importazione di beni e servizi senza applicazione dell’IVA, è entrata in vigore con decorrenza dall’1 gennaio 2015.

1.2 La previgente disciplina individuava il soggetto onerato della comunicazione nel cedente o prestatore, prevedendo che questi, ricevuta la dichiarazione dall’esportatore anteriormente all’effettuazione dell’operazione, comunicasse telematicamente all’Agenzia delle Entrate i dati dalla stessa risultanti entro il termine di effettuazione della prima liquidazione periodica dell’IVA, mensile o trimestrale, nella quale fossero confluite le operazioni realizzate senza applicazione dell’imposta.

Con decorrenza dall’1 gennaio 2015, la procedura per l’invio e la consegna delle lettere d’intento è radicalmente modificata. Infatti, l’esportatore è tenuto a trasmettere telematicamente la dichiarazione d’intento all’Agenzia delle Entrate, che rilascia apposita ricevuta telematica. Successivamente l’esportatore curerà la consegna al fornitore – o in Dogana – della dichiarazione di intento e della relativa ricevuta di presentazione presso l’Agenzia. Il fornitore sarà, pertanto, tenuto a verificare l’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle Entrate prima di effettuare la relativa operazione, pena l’applicazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, come riformulato per tenere conto delle nuove modalità applicative dell’istituto

1.3 In considerazione della nuova struttura della fattispecie di comunicazione delle dichiarazioni d’intento, il legislatore ha modificato la disciplina sanzionatoria contenuta nel D.Lgs. 30 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, recante la disciplina delle “Violazioni relative alle esportazioni”. Tale disposizione, nella formulazione previgente, puniva con la sanzione dal cento al duecento per cento dell’imposta il cedente o il prestatore che ometteva di inviare, nei termini previsti, la comunicazione di intento o la inviava con dati incompleti o inesatti.

Secondo l’amministrazione finanziaria, tale sanzione è attualmente applicabile laddove il cedente o prestatore effettui operazioni nei confronti dell’esportatore abituale prima di aver ricevuto da parte di questi la dichiarazione d’intento ed averne riscontrato l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate (vedasi, in tal senso, la Circolare emanata dall’Agenzia delle Entrate il 30 dicembre 2014, n. 31/E).

1.4 Tale ricostruzione è confermata da un recente arresto di questa Corte (Cass., Sez. 5, 12 luglio 2021, n. 19738), al quale il collegio, condividendolo, ritiene di dare continuità anche in questa sede (mediante la testuale riproduzione dei passi salienti).

1.5 Dalla ricognizione del quadro normativo emerge che il legislatore ha escluso l’applicabilità per il passato delle modifiche intervenute attesa la specifica previsione di una disciplina temporale. Tale indicazione, peraltro, non preclude l’applicazione delle novelle alle fattispecie anteriori se il nuovo regime risulti in concreto più favorevole (Cass., Sez. 5, 14 luglio 2020, n. 14848; Cass., Sez. 5, 22 marzo 2021, n. 7957). Occorre dunque valutare se la “nuova” fattispecie si ponga in termini di soluzione di continuità rispetto al passato (rendendo irrilevante o legittima la pregressa condotta) ovvero se le modifiche non ne abbiano mutato il disvalore sì da lasciare inalterata la punibilità della condotta, salva, in ipotesi, l’applicazione del diverso (e più favorevole) regime sanzionatorio.

Appare necessario, pertanto, individuare i confini tra abolitio e successione di norme. Il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, ha introdotto, in materia sanzionatoria tributaria, il generale principio del favor rei di origine penalistica, prevedendo che: “1. Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione. 2. Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato. 3. Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.

La norma pone regole tra loro strettamente concatenate e in reciproco rapporto. Il comma 1, in particolare, impone che un fatto è punibile solo se è previsto, come tale, da una legge esistente al momento della sua realizzazione. Il comma 2 fonda la sua regola su questo assunto: prima il fatto era punibile, poi non è più tale perché la legge è cambiata. Se il pagamento della sanzione è già stato compiuto è esclusa ogni ripetizione; altrimenti, non si può procedere alla riscossione. Il comma 3 porta a compimento il percorso logico così avviato: il fatto resta punibile perché tale era sia nella precedente legge che nella successiva. Ciò avviene quando tra le due norme – rispetto al fatto – vi è un rapporto di specialità. Il rapporto di specialità, poi, sta ad indicare che l’ambito occupato dalle due norme può variamente articolarsi, per cui, in concreto può anche verificarsi – in un rapporto tra genere e specie ed entrambe le norme siano speciali ovvero la norma precedente sia generale e quella successiva speciale – una abrogazione parziale per quella parte delle condotte che non sia più illecita. In altri termini, non vi è integrale abolizione quando la fattispecie prevista dalla legge successiva rientrava già nell’ambito di quella precedente.

1.6 Ad una tale analisi – che guarda alla struttura delle fattispecie che si sono succedute – si può cumulare, in ispecie quando ci si trovi di fronte ad un fenomeno esclusivamente abrogativo, una valutazione che tenga conto di criteri sostanziali, ossia se, in relazione al bene giuridico tutelato, il legislatore abbia conservato una notazione di disvalore e non sia, dunque, pervenuto ad una considerazione di totale inoffensività e di liceità della condotta. Su tale aspetti, invero, appare utile richiamare gli orientamenti espressi dalle Sezioni Unite Penali sulla parallela problematica relativa all’art. 2 c.p., comma 3. Secondo una prima pronuncia, infatti, “deve riconoscersi un fenomeno successorio… quando, all’esito della comparazione e del raffronto tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici, persiste, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni, e il significato lesivo del fatto storico sia riconducibile nel suo nucleo essenziale, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, ad una diversa e più mite categoria d’illecito, tuttora penalmente rilevante, nonostante ed anzi proprio in conseguenza dell’intervento legislativo che, benché formalmente abrogativo, di fatto modifica l’ambito di applicabilità della previgente e diversa norma incriminatrice” (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2000, n. 27, Di Mauro, relativa, tra l’altro, ad illeciti tributari). Tale affermazione è stata poi oggetto di ulteriore chiarimento da una successiva pronunzia (Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano e altri, che ha precisato che “il criterio normale deve essere quello che porta a ricercare un’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario rinvenire conferme della continuità attraverso criteri valutativi” poiché “nell’ipotesi di sostituzione, formale o sostanziale, di una disposizione incriminatrice la nuova disposizione esprime di per sé un giudizio di disvalore che giustifica una conclusione di continuità”.

1.7 Coerente con tali conclusioni è la giurisprudenza della Corte in tema di sanzioni amministrative tributarie e applicabilità del principio del favor rei. Significativa, in tal senso, è la valutazione in tema di successione del regime sanzionatorio in materia di benefici per la prima casa atteso che si è ritenuto che la modifica del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, allegata tabella A, Parte II, art. 21, operata con il D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, art. 33, nel sancire il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso (che è stato collegato alla categoria catastale) pur non facendo venire meno l’imposizione ha, tuttavia, “cancellato dall’ordinamento” l’elemento (ossia che l’immobile non aveva caratteristiche di lusso ai sensi del D.M. 2 agosto 1969) “costituente elemento normativo della fattispecie”, sì da determinare, in base al regime sopravvenuto, che “l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo ad immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione” (Cass., Sez. 6″-5, 27 giugno 2016, n. 13235; Cass., Sez. 5, 12 aprile 2017 n. 9492; Cass., Sez. 5, 13 dicembre 2018, n. 32304; Cass., Sez. 5, 21 gennaio 2021, n. 1164). Nella stessa prospettiva si è sottolineato “come, ai fini di una eventuale abolitio criminis, non sia sufficiente una mera modifica (mediante riduzione, aumento od accorpamento) dei termini e delle scadenze connesse alle modalità di effettuazione dei versamenti dell’imposta, atteso che in tali casi rimane comunque immutata sia la condotta materiale descritta della norma sanzionatoria (omesso o ritardato pagamento), sia l’interesse la cui offesa la sanzione intende reprimere” (Cass., Sez. 5, 5 dicembre 2014, n. 25754).

Assume rilievo, dunque, che, al di là delle modifiche intervenute, vi sia una sostanziale continuità strutturale degli elementi costitutivi delle diverse previsioni che si sono succedute nel tempo, tra loro in rapporto di identità o, quanto meno, di continenza per essere quelli previsti dalla nuova disciplina già tutti compresi in quella precedente.

1.8 Alla luce dei principi esposti occorre, dunque, porre a confronto le disposizioni in questione con riguardo al testo precedente e posteriore alla modifica operata con il D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 175, art. 20. I successivi interventi, infatti, non hanno inciso in termini significativi sulla struttura della fattispecie. Il dato saliente – e inalterato nonostante tutte le modifiche – è la persistenza dell’obbligo di inviare all’Ufficio la dichiarazione di intenti. L’omesso invio della relativa comunicazione, infatti, è tuttora oggetto di obbligo e di sanzione in caso di inottemperanza. Cambia, tuttavia, il soggetto obbligato. Mentre fino al 2014 era il fornitore (il cedente o il prestatore) tenuto ad inviare la comunicazione all’Ufficio, con la novella l’obbligo cade direttamente sull’esportatore, ossia su colui che e’, in concreto, il reale e primo interessato all’operazione estera.

Va osservato, infatti, che quest’ultimo è sempre stato il soggetto destinatario dell’obbligo di emettere la dichiarazione d’intento, che doveva essere trasmessa al fornitore, il quale doveva provvedere all’invio telematico della comunicazione dell’avvenuta presentazione (D.L. 29 dicembre 1983, n. 746, art. 1, comma 1, lett. c, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 1984, n. 17). La novella del 2014, dunque, ha, su questo punto, semplificato gli adempimenti: è l’autore della dichiarazione di intenti che deve provvedere ad inviare la comunicazione e non è più necessario che provveda, per esso, l’altro soggetto del rapporto. Il fornitore, peraltro, se non è più tenuto ad inviare la suddetta comunicazione (contenente, tra l’altro, gli estremi della dichiarazione resa dall’esportatore), e’, come in precedenza, egualmente destinatario della dichiarazione d’intenti da parte dell’esportatore (D.L. 29 dicembre 1983, n. 746, art. 1, comma 1, lett. c, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 1984, n. 17, pure oggetto di intervento con la novella del 2014) ed è tenuto a riscontrare telematicamente che essa era stata presentata all’Agenzia delle entrate. Nella previsione post 2014, dunque, due sono gli elementi di apparente novità: a) il fornitore deve aver ricevuto la dichiarazione di intenti dalla sua controparte (insieme alla ricevuta telematica di inserimento); b) il fornitore deve provvedere al riscontro, per via telematica, della presentazione della stessa da parte del cessionario o committente all’Agenzia delle Entrate.

Il primo elemento, tuttavia, non costituisce una novità poiché la necessità dell’avvenuta trasmissione al cedente-prestatore da parte del cessionario-committente della dichiarazione di intenti era già indicata dal D.L. 29 dicembre 1983, n. 746, art. 1, comma 1, lett. c, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 1984, n. 17, ed era presupposta dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, neppure potendosi ipotizzare l’invio di una comunicazione relativa ad un atto altrui in assenza dell’atto stesso. L’esplicita indicazione, quindi, integra solo l’emersione di un elemento già costitutivo della fattispecie.

Quanto al secondo elemento, va osservato che, nella vigenza della norma ante 2014, l’invio della comunicazione era già esaustivo di ogni riscontro.

Nel primo caso, infatti, l’attività che il cedente poneva in essere esauriva ogni incombente e informativa, includendo quali elementi necessari della fattispecie: l’avvenuto rilascio della dichiarazione; l’avvenuta trasmissione della stessa al cedente; la comunicazione all’Agenzia delle Entrate della dichiarazione; l’indicazione degli estremi dell’atto ricevuto e così comunicato. Nel secondo caso, il riscontro assolve solo ad alcuni di questi, ossia l’avvenuta trasmissione al cedente e la coerenza tra atto ricevuto e atto già comunicato all’Agenzia delle Entrate, del quale sono indicati gli estremi, perché gli altri elementi sono già nella sfera di conoscenza dell’Ufficio.

E’ evidente, d’altra parte, che il riscontro della conformità tra atto ricevuto e atto già comunicato era, logicamente e fattualmente, assorbito nella stessa indicazione degli estremi della dichiarazione, che non poteva riguardare altro che quella ricevuta dal cessionario. Non solo, l’adempimento ora richiesto assolve alla medesima funzione di permettere all’Ufficio un controllo sull’attività che viene realizzata, controllo che, con riguardo al cedente-prestatore, non è più – in ciò la differenza di ordine quantitativo e non qualitativo – sul complesso di tutti gli adempimenti ma solo su una parte di essi.

Del resto – si può anche osservare – vuoi il fatto vuoi la sanzione (salve le modifiche successivamente intervenute) sono rimasti inalterati nel passaggio dall’una all’altra normativa: è stata semplicemente adottata – come si esprime la relazione al decreto sulle semplificazioni attuato con il D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 17 – “una diversa modalità di adempimento”, che si è tradotta, per il cedente-prestatore, in una riduzione degli adempimenti a suo carico e non in una loro eliminazione.

1.9 Si può, dunque, ritenere che la vicenda integri una successione di norme, sì da escludere che, nel caso in esame, lo ius superveniens abbia determinato un fenomeno abrogativo della normativa originaria e, in applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, la non punibilità del fatto. Tra le fattispecie che si sono succedute nel tempo sussiste infatti un rapporto di continenza. L’originario elemento materiale dell’illecito richiedeva una condotta caratterizzata dallo svolgimento di adempimenti più ampi rispetto a quelli previsti dalla fattispecie attualmente in vigore: prima era l’omissione globalmente considerata a costituire la condotta materiale; adesso sono le specifiche operazioni ancora addossate al medesimo soggetto passivo (ma incluse nell’insieme di quelle già prima oggetto di considerazione) ad integrare l’elemento costitutivo dell’illecito.

1.10 All’esito di tale ragionamento, i giudici di legittimità hanno enunciato i seguenti principi di diritto: “In tema di sanzioni amministrative tributarie la sopravvenuta modifica della disciplina integra un fenomeno successorio quando, in esito alla comparazione tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle disposizioni, persiste un’area di coincidenza tra le fattispecie, tale per cui, al di là delle modifiche intervenute, vi sia una sostanziale continuità strutturale delle diverse previsioni che si sono succedute nel tempo, tra loro in rapporto di identità o, quanto meno, di continenza per essere gli elementi costitutivi previsti dalla nuova disciplina già tutti compresi in quella precedente”; “La modifica del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 7, comma 4-bis, ad opera del D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 20, non ha determinato una abolitio dell’illecito originariamente sanzionato nei confronti del cedente-prestatore, i cui adempimenti sono stati ridotti ma non eliminati dalla novella, sicché tra le due fattispecie normative sussiste un rapporto di continenza e di continuità”

1.11 Pertanto, non è applicabile alla vicenda in disanima il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, con la conseguente esclusione dell’esenzione da responsabilità amministrativa del fornitore o del prestatore per le sanzioni relative alle operazioni realizzate fino al 31 dicembre 2014, dal momento che il D.Lgs. 24 settembre 2015. n. 158, art. 15, comma 1, non ha disposto l’aboliti criminis con riguardo all’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della dichiarazione di intento, ma si è limitato ad individuare un diverso obbligato attraverso una rielaborazione strutturale della violazione amministrativa.

1.15 Nella specie, il giudice di appello ha fatto erronea applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, ritenendo che la novellazione apportata alla disposizione sanzionatoria del D.Lgs. 30 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4-bis, con la sostituzione del soggetto obbligato all’adempimento e, quindi, dell’autore della violazione, comportasse – rispetto al fornitore di beni l’assoggettamento a sanzione di un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituiva violazione punibile.

2. Il secondo motivo è infondato.

2.1 Invero, sia pure senza scrutinare in alcun modo il motivo concernente le riprese a tassazione che il giudice di prime cure aveva confermato, la sentenza impugnata, comunque, ha accolto l’appello del contribuente (nella sua interezza) e, per conseguenza, ha annullato l’atto impositivo nella sua interezza. Per cui, essendosi espressamente pronunziato – ancorché soltanto in sede di dispositivo – sul gravame (in relazione, quindi, alla totalità dei motivi), non si può dire che il giudice di appello sia incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c..

3. Viceversa, il terzo motivo è fondato.

3.1 Difatti, per quanto si è appena detto, l’accoglimento dell’appello (anche) in relazione ai motivi non esaminati è assolutamente carente di motivazione in senso grafico-materiale ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, non potendo attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

3.2 Per costante giurisprudenza, invero, la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili (tra le tante: Cass., Sez. 5, 30 aprile 2020, n. 8427; Cass., Sez. 6-5, 15 aprile 2021, n. 9975).

Nella specie, come si è già detto, la sentenza impugnata non conteneva alcuna motivazione in ordine all’accoglimento in parte qua dell’appello.

4. Alla stregua delle suesposte argomentazioni, dunque, si deve pronunciare l’accoglimento del primo motivo e del terzo motivo di ricorso, rigettare il secondo motivo di ricorso e cassare la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo ed il terzo motivo di ricorso, rigetta il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione Tributaria della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nelle adunanze camerali effettuate da remoto il 20 ottobre 2020, il 16 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022

 

 

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