Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20195 del 07/10/2016


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Cassazione civile sez. III, 07/10/2016, (ud. 14/01/2016, dep. 07/10/2016), n.20195

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13688/2013 proposto da:

P.L., (OMISSIS), P.W. P.,

P.A. (OMISSIS), tutti nella qualità di eredi legittimi di

C.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOVANNI NICOTERA 29,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BATTISTA MARSALA, che li

rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

ARCA 50 SOC COOP ARL, in persona del Presidente e legale

rappresentante pro tempore Sig. L.S., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso lo studio

dell’avvocato MAURIZIO BELLUCCI, che la rappresenta e difende giusta

procura speciale in calce al controricorso;

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, successore ex

lege dell’INPDAP – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I DIPENDENTI

DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, in persona del suo Presidente e

legale

rappresentante pro tempore Dott. M.A., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA C. BECCARIA 29, presso lo studio

dell’avvocato SABRINA PANCARI negli uffici ex INPDAP, che lo

rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1794/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/04/2012, R.G.N. 52/2007;

udita la relazione della causa Svolta nella pubblica udienza de/

14/01/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato MARIA ASSUMMA per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Il Tribunale di Roma respinse la domanda proposta da C.R. nei confronti dell’INPDAP e della s.c.a.r.l. ARCA (società cui era stato conferito il diritto-dovere di acquisire la titolarità degli immobili non acquistati dai rispettivi assegnatari) volta all’assegnazione di un alloggio già condotto in locazione dall’ex marito, ed a lei attribuito in sede di separazione coniugale.

Ritenne il primo giudice che, alla mancata presentazione dell’attrice alla stipula del rogito, fissata per la data del (OMISSIS) (nonostante la spedizione di una formale comunicazione da parte dell’Ente al legale dell’attrice), fosse conseguita la sua decadenza dal diritto di prelazione, pur avendo ella formulato domanda di acquisto in occasione della dismissione del patrimonio immobiliare degli Enti previdenziali -, in data (OMISSIS), per un prezzo pari a 119 mila Euro.

Osservò ancora il Tribunale che, alla semplice domanda presentata nel mese di (OMISSIS), non potesse riconoscersi natura di contratto di opzione (con conseguente, mancato perfezionamento dell’acquisto dell’immobile); che condizione dell’acquisto fosse comunque, nella specie, la sanatoria di pregresse morosità nel pagamento dei canoni (adempimento del tutto omesso dalla C.); che alla data fissata per l’esercizio del diritto di prelazione e per la stipula dell’atto pubblico l’attrice non si era presentata nemmeno per concordare le modalità di pagamento dei canoni arretrati.

La corte di appello di Roma, investita dell’impugnazione proposta dalla predetta attrice, la rigettò, confermando ed ampliando la motivazione della sentenza di primo grado.

Per la cassazione della sentenza della Corte capitolina gli eredi di C.R. hanno proposto ricorso sulla base di 3 motivi di censura.

Resistono con controricorso l’INPS (successore ex lege dell’INPDAP) e la società cooperativa ARCA.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto sulla base del combinato disposto del D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6, comma 5, L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 109, artt. 1331, 1350, 1470, 1351 e 2932 c.c..

Il motivo – con il quale si sostiene nuovamente dinanzi a questa Corte la natura di opzione di fonte legale della dichiarazione resa dalla ricorrente del D.Lgs. n. 104 del 1996, ex art. 5, comma 5 – è privo di pregio.

Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto che la dichiarazione di propensione all’acquisto del 9 giugno 2000 non integrasse alcuna ipotesi di convenzione negoziale (nè preliminare, nè tantomeno definitiva), in assenza di una univoca manifestazione di volontà dell’Ente espressa in tal senso (folio 6/7 della sentenza impugnata, che opportunamente richiama l’inequivoco contenuto dell’atto pubblico per notar F., ove tali ipotesi erano inequivocamente escluse), e fosse altresì inidonea ad integrare la fattispecie dell’opzione, volta che la mancata regolarizzazione, da parte della C., della accertata e incontestata morosità – irrilevante la circostanza che la stessa fosse ascrivibile all’inadempimento del coniuge separato prima della successione ex lege nel contratto di locazione in sede di separazione giudiziale -, aveva impedito la formazione di qualsiasi contratto, in assenza di qualsivoglia manifestazione di volontà dell’ente alienante.

Le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale, scevre da errori logico-giuridici, appaiono al collegio pienamente condivisibili, e non possono che trovare conferma in questa sede.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; violazione delle norme sul giusto processo ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 2.

Si lamenta, con il motivo in esame, l’omesso esame, in sede di appello, della nota dell’INPDAP dell’8.2.2000 e della nota della C. del successivo 10 aprile, costituendo la prima la prova dell’esistenza di un obbligo contrattuale dell’ente, la seconda la dimostrazione dell’assenza di negligenza dell’istante nell’omettere la sanatoria della morosità.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1206, 1354, 1355 c.c., art. 115 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Si lamenta, con esso, un preteso inadempimento dell’ente al vincolo derivante dall’opzione legale e all’obbligo di comunicare per tempo l’entità della somma dovuta al fine di sanare la morosità, così risultando violati i doveri di correttezza e buona fede, dovendo tale condizione ritenersi comunque ininfluente ai fini della stipula del contratto di acquisto.

Le censure, che possono essere congiuntamente esaminate attesane la intrinseca connessione, sono infondate.

La Corte territoriale, con ampia e articolata motivazione, dopo aver esaminato compiutamente tutti gli atti di causa rilevanti ai fini del decidere, è pervenuta alla decisione oggi impugnata ritenendo che la odierna ricorrente (p. 8 della sentenza impugnata) fosse perfettamente in grado di conoscere la situazione debitoria (per canoni ed accessori non corrisposti) relativa all’immobile occupato, il cui esatto importo le era stato, oltretutto, comunicato con missiva del 30.9.2000, mentre la mancata presentazione all’atto da redigere il (OMISSIS) si poneva come insuperabilmente ostativa a qualsivoglia pretesa di acquisto. Il giudice di appello ha poi specificato (ancora a folio 8 della pronuncia) che, proprio in attuazione dei propri obblighi di correttezza precontrattuale, l’ente alienante aveva consentito alla C. di sanare la morosità fino alla data della stipula dell’atto, a distanza di oltre due anni dalla comunicazione del relativo ammontare.

Entrambi i motivi sono, pertanto, irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale dianzi descritto, dacchè essi, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un di decisivo difetto di motivazione (a sua volta generato dalla pretesa violazione di norme di interpretazione negoziale), si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

La ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

La ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto e di diritto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai definito, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censure al fine di ottenere la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto delle vicende lato sensu negoziali per la quale è ancor oggi processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (si come dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.

Liquidazione come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 7200 in favore di ciascuna parte controricorrente, di cui Euro 200 per spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il controricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2016

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