Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20184 del 18/08/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. I, 18/08/2017, (ud. 17/03/2017, dep.18/08/2017),  n. 20184

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2555/2012 proposto da:

O.J., (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in Roma, via

Tacito n. 23, presso l’avvocato De Micheli Cinzia, rappresentata e

difesa dall’avvocato Comoglio Luigi Paolo, Menghini Mario, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Credit Suisse S.a., in persona dei legali rappresentanti pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, piazza Cola di Rienzo, n. 92,

presso l’avvocato Nardone Elisabetta, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Pattay Giovanni, Zadra Claudio, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1238/2010 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 29/11/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/03/2017 dal cons. DE MARZO GIUSEPPE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale ZENO

IMMACOLATA, che ha concluso per il rigetto del primo e secondo

motivo, dal terzo al quarto motivo inammissibilità, in subordine

rigetto; settimo motivo inammissibile;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato Macioci Claudio, con delega

orale, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Per quanto ancora rileva, con sentenza depositata in data 29 novembre 2010, la Corte d’appello di Genova ha rigettato l’appello proposto da O.I., quale erede di O.G., avverso la decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda intesa ad ottenere la condanna di Credit Suisse s.a. alla restituzione dei “beni e diritti” della de cuius, contenuti in conti e depositi esistenti presso parte convenuta.

2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha osservato che i motivi di appello non erano in grado di scalfire il caposaldo della decisione del Tribunale, secondo il quale non era stata fornita la prova che i rapporti ai quali si riferiva la documentazione prodotta fossero riconducibili a O.G. e che fossero esistenti al momento dell’apertura della successione.

2.1. In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto: a) che la documentazione bancaria prodotta dall’attrice consisteva in estratti conto e note di accredito che non indicavano il cliente, con la conseguenza che l’identificazione di quest’ultimo in O.G. era fondata dall’attrice sulla circostanza, peraltro indimostrata, che siffatta documentazione sarebbe stata rinvenuta tra i beni della de cuius; b) che per circa sedici – diciassette anni dal momento dell’apertura della successione (22 febbraio 1983) O.I., all’epoca non minorenne, nè ignara, per età e cognizioni, della devoluzione ereditaria – al punto che già il 27 luglio 1983 aveva presentato la dichiarazione di successione – non aveva richiesto alcuna informativa al Credit Suisse s.a., provvedendo a notificare l’atto introduttivo del giudizio nel dicembre del 2001; c) che siffatto lasso temporale non consentiva di ritenere dimostrato che la documentazione bancaria provenisse dalle carte di O.G. e si riferisse a rapporti contrattuali a lei riconducibili; d) che il più recente documento prodotto risaliva al gennaio 1962, il che avvalorava il rilievo del giudice di primo grado, secondo il quale l’attrice non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza dei rapporti al momento dell’apertura della successione; e) che, sin dalla costituzione in giudizio, Credit Suisse s.a. aveva dedotto che nulla le risultava in ordine all’esistenza e alla titolarità dei conti cifrati indicati dall’attrice come 392 Dick e Foca 3941, mentre il conto (OMISSIS) risultava essere stato intestato a O.M., fratello di G., ma estinto nel 1958; f) che, in definitiva, l’attrice non aveva assolto l’onere dimostrativo gravante su chi eserciti una petizione d’eredità e la convenuta non aveva fornito una prospettazione priva di plausibilità; g) che non ricorrevano ragioni istruttorie per reiterare l’ordine di esibizione documentale già pronunciato dal Tribunale.

3. Avverso tale decisione O.I. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, cui ha resistito con controricorso Credit Suisse s.a. La ricorrente ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta erronea applicazione dei criteri tabellari sia per quanto concerne l’assegnazione della controversia alla sezione della Corte d’appello di Genova, sia per quanto riguarda il criterio di individuazione del consigliere istruttore, con conseguente nullità della sentenza.

La doglianza è infondata, per l’assorbente ragione – che esime dall’analizzare il merito della questione – che, come chiarito dal R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 7-bis, u.c., la violazione dei criteri per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, non determina in nessun caso la nullità dei provvedimenti adottati.

La previsione si inserisce nel solco di una elaborazione giurisprudenziale che era già giunta a tali risultati.

Così Cass., Sez. Un.,. 3 settembre 2009, n. 19161, che ebbe a chiarire come “in caso di violazione dei criteri di composizione dei collegi o di assegnazione degli affari ai magistrati all’interno dell’ufficio, sia che si tratti di criteri espressamente dettati con provvedimento di natura “tabellare” sia che si tratti di criteri desumibili dal sistema, come quello secondo cui gli affari di natura civile debbono essere trattati dai magisteri assegnati al servizio civile, (non) può configurarsi una nullità della decisione, a differenza dall’ipotesi di decisioni adottate in composizione monocratica (Cass. n. 28040/2008, 4967/2004) anzichè dal collegio o viceversa (Cass. n. 12206/2007), nelle quali la nullità deriva dalla violazione della norma di legge (art. 50-bis e 50-ter c.p.c.) e, comunque, può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie dei mezzi di impugnazione, la violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari non configura una questione di competenza e non dà luogo a nullità, come è stato più volte affermato da questa Corte ed attualmente è espressamente previsto dall’art. 7-bis ord. giud., comma 1, u.p. aggiunto con la L. n. 111 del 2007, art. 4, comma 19, lett. b)”.

2. Con il secondo motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 52 c.p.c. (rectius: 51), comma 1, n. 3, nonchè dei principi codificati nell’art. 111 Cost., con conseguente nullità della sentenza in dipendenza della mancata astensione di due componenti del collegio giudicante.

Il ricorrente, al riguardo censura il provvedimento con il quale la Corte d’appello aveva respinto il ricorso per ricusazione proposto nei riguardi dei dott. R. e D., ribadendo che i due magistrati avevano più volte rappresentato in modo negativo la O., reputandola “sostanzialmente capace di abusi del diritto e, in genere, di attività pretestuose o dilatorie e di atti emulativi” e rileva che la O. aveva presentato denuncia nei confronti dei magistrati sopra indicati.

Va premesso che, in difetto di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza (Cass. 7 luglio 2016, n. 13935; identici principi si rinvengono anche in Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2017, n. 1545).

Con riferimento, peraltro, alle ragioni di ricusazione prospettate con ricorso dalla parte interessata e disattese dal giudice competente ai sensi dell’art. 53 c.p.c., è certamente esatto che esse inammissibile essendo il ricorso straordinario avverso il provvedimento reiettivo – possono essere sottoposte al giudice chiamato a decidere sull’impugnazione della sentenza (v., ad es., Cass. 9 febbraio 2016, n. 2562).

Ma, nel caso di specie, le doglianze della ricorrente sono comunque infondate, in quanto, ai fini della ricusazione del giudice civile ex art. 51 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, e art. 52 c.p.c., non costituisce grave inimicizia, nè espressione o anticipazione di giudizio sul merito della controversia e neppure cognizione di essa in altro grado la pronunzia di precedenti provvedimenti sfavorevoli, quand’anche ritenuti erronei o manifestamente tali, resi in procedimenti separati o connessi in danno della medesima parte, ove non si alleghi e si provi l’esistenza di ragioni di rancore o di avversione diverse ed esterne alla causa, che si fondino su dati di fatto concreti e precisi, estranei alla realtà processuale ed autonomi rispetto ad essa, potendo quest’ultima costituire unicamente un elemento sintomatico della sussistenza del presupposto di fatto rilevante per la ricusazione. (Cass., ord. 24 novembre 2014, n. 24934).

In linea generale, infatti, ai sensi dell’art. 51 c.p.c., n. 3, la “grave inimicizia” del giudice nei confronti della parte non può, in linea di principio, originare dall’attività giurisdizionale del magistrato, se non in presenza di situazioni, eccezionali e patologiche, di violazione grossolana e macroscopica di principi giuridici, indicativa di un esercizio della giurisdizione volto al perseguimento dello scopo di danneggiare la parte per ragioni di ostilità, ma si riferisce a rapporti estranei al processo, in particolare alla presenza di ragioni di rancore o di avversione pregiudicanti l’imparzialità del giudice; ne consegue che non è configurabile il detto motivo di astensione – ricusazione per il semplice fatto che, in cause similari riguardanti la stessa parte, il giudice abbia emesso, o concorso ad emettere, decisioni ad essa sfavorevoli (Cass., Sez. Un., ord. 8 ottobre 2001, n. 12345).

Ora, osserva la Corte che le affermazioni contestate dalla ricorrente si inquadrano o nel necessario – ancorchè sgradito nei contenuti adempimento del dovere di motivazione dell’autorità giudiziaria o comunque nello svolgimento dell’attività giurisdizionale che non consente l’emersione di alcun profilo di rancore o avversione esterno alla causa. Ancor meno rileva, naturalmente, l’unilaterale esercizio, ad opera della parte, del suo diritto di proporre denuncia contro chi ritenga essere autore di reati.

3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la Corte territoriale omesso di prendere atto della “contraddittorietà delle argomentazioni difensive di Credit Suisse”, la quale, con riferimento alla relazione bancaria RT 392 Dick, da un lato, non ha mai contestato la veridicità della documentazione bancaria prodotta, risalente al 1962, dall’altro, ha negato espressamente l’esistenza di tale relazione. Osserva, inoltre, la ricorrente che, con riferimento alla relazione n. (OMISSIS), la controparte aveva affermato che essa sarebbe stata estinta nel 1958.

La doglianza è inammissibile, per l’assorbente ragione che è diretta espressamente contro quelle che si assumono essere le prospettazioni difensive della controparte, laddove ben diversa è la ratio decidendi della sentenza impugnata, quale sopra riassunta nei Fatti di causa.

4. Con il quarto, articolato motivo, dedicato alla qualificazione giuridica del rapporto controverso, la ricorrente deduce, innanzi tutto, violazione o falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 219, art. 14 degli artt. 4 e 14 della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva dalla L. 18 dicembre 1984, n. 975, degli art. 934 e seg. del codice delle obbligazioni svizzero, dell’art. 112 c.p.c., nonchè omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia.

Si osserva che erroneamente il giudice di merito ha qualificato l’azione proposta come petizione ereditaria, giacchè essa ha natura contrattuale, in quanto ha per oggetto l’adempimento delle obbligazioni scaturenti da una specifica relazione bancaria (cd. conto cifrato), nella quale la banca opera essenzialmente come mandatario del cliente e si obbliga a conservare presso di se la documentazione contabile del conto.

Da tale erronea qualificazione discendono, secondo la ricorrente, le doglianze prospettate nelle due successive articolazioni del medesimo quarto motivo, con il quale si lamenta, rispettivamente, violazione o falsa applicazione dell’art. 210 c.p.c., della L. n. 218 del 1995, art. 14 degli artt. 4 e 14 della citata Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, nonchè dell’art. 400 codice delle obbligazioni svizzero, con riferimento alla mancata reiterazione dell’ordine di esibizione della documentazione bancaria detenuta dal mandatario; e violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la ricorrente, una volta rinvenuta tra i beni della propria madre la documentazione contabile relativa a diverse relazioni bancarie cifrate, aveva certamente diritto ad ottenere dalla controparte il rendiconto e il saldo delle attività residue, senza che in contrario rilevi il fatto che il rapporto di mandato si sia estinto prima della morte del mandante.

Le doglianze sopra riassunte sono infondate.

Premesso che, secondo la stessa ricostruzione della ricorrente (oltre che della sentenza impugnata), la domanda ha per oggetto la condanna di Credit Suisse s.a. a restituire beni e diritti dei quali risultava titolare la de cuius, si osserva che, anche a voler accedere, per mera comodità argomentativa alla tesi della natura contrattuale dell’azione, le conclusioni non muterebbero, in quanto comunque parte attrice sarebbe tenuta a dimostrare l’esistenza di una relazione negoziale tra la propria dante causa e la controparte, come presupposto dell’azione di adempimento.

E, nel caso di specie, la Corte territoriale ha esplicitamente richiamato il caposaldo argomentativo della sentenza di primo grado, secondo la quale non era stata fornita la prova che i rapporti ai quali si riferiva la documentazione prodotta fossero riconducibili a O.G. e che fossero esistenti al momento dell’apertura della successione.

Le censure sopra ricordate muovono, invece, dal presupposto, del tutto infondato, che la mera produzione di documentazione relativa a conti cifrati sia idonea a dimostrare la titolarità dei relativi rapporti, fondando la richiesta di rendiconto e, a seguire, di condanna al pagamento del saldo.

Per pura completezza, si osserva che l’ordine di esibizione ha, nel caso di specie, mere finalità esplorative anche per l’assenza di qualunque prova dell’esistenza dei documenti richiesti (art. 94 disp. att. c.p.c.).

5. Con il quinto motivo si lamenta violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., nonchè insufficienza e contraddittorietà di motivazione, sotto i seguenti, articolati profili.

Si osserva, in primo luogo (e sul punto si deduce anche violazione dell’art. 2727 c.c. e art. 115 c.p.c.), che il fatto del rinvenimento della documentazione prodotta tra i beni di O.G. è circostanza del tutto pacifica e che nessun elemento indiziario può trarsi da un dato negativo (ossia, la mancata menzione di O.G. nella documentazione prodotta).

In relazione ai medesimi parametri sopra ricordati, si aggiunge che irrilevante è il lasso temporale trascorso tra il momento dell’apertura della successione e il momento in cui la ricorrente aveva manifestato la disponibilità della documentazione bancaria, come pure la mancata produzione di documentazione relativa a periodi più vicini al decesso di O.G..

Si lamenta, infine che, alla valutazione del comportamento preprocessuale della ricorrente, non si sia accompagnata, nella sentenza impugnata, una stringente valutazione del comportamento processuale della controparte.

Il motivo è, nel suo complesso, infondato.

A tacer dell’assoluta genericità della prospettata disparità di trattamento nella valutazione del comportamento delle parti peraltro, su un piano generale, da apprezzarsi, quanto alle conseguenze, alla luce del diverso onere probatorio gravante sulle parti – si osserva, innanzi tutto, che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’onere di contestazione – la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per i fatti ad essa ignoti (Cass. 13 febbraio 2013, n. 3576).

Ma soprattutto deve considerarsi che non è il reperimento e neppure il luogo del reperimento che possono rappresentare elementi di tale forza rappresentativa da incrinare la tenuta logica della motivazione che, proprio dal carattere remoto della documentazione della quale si tratta e dalla mancata menzione di O.G., ha tratto la razionale conclusione della mancata dimostrazione di una relazione concernente tra quest’ultima e Credit Suisse s.a.

In tale contesto, l’inerzia della O. è un profilo ad colorandum rispetto all’assenza di prova.

6. Con il sesto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2, art. 210 c.p.c., artt. 4 e 14 della citata Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, dell’art. 400 codice delle obbligazioni svizzero, nonchè insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Si rileva che: a) contraddittoriamente la controparte, pur non avendo mai contestato la veridicità della documentazione prodotta, avesse sempre sostenuto l’inesistenza della relazione bancaria; b) erroneamente era stata ritenuta giustificata la mancata ottemperanza all’ordine di esibizione di Credit Suiss s.a., anche alla luce dell’assenza di termini di conservazione della documentazione relativa alle relazioni bancarie; c) illegittimamente era stato attribuito rilievo al tempo decorso prima dell’inizio della causa di merito.

Si tratta di doglianze prive di fondamento per le considerazioni già sviluppate nell’esame dei precedenti motivi, in quanto, per un verso, non colgono la reale ratio decidendi della sentenza impugnata (e ciò vale, in particolare, per i riferimenti al tempo decorso), e, per altro verso, insistono nel voler, nella sostanza, ribaltare sulla controparte le conseguenze del mancato assolvimento dell’onere probatorio.

Per pura completezza, va aggiunto che, in difetto di prova dell’esistenza dei documenti dei quali si chiede l’esibizione, non possono evidentemente trarsi conseguenze dal mancato adempimento dell’ordine che pure sia stato impartito.

In ogni caso, l’esercizio negativo della facoltà del giudice di desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, non è censurabile in sede di legittimità, nè per violazione di legge, nè per vizio di motivazione, trattandosi di un potere discrezionale attinente alla valutazione di una prova atipica o innominata (Cass. 22 novembre 2012, n. 20673).

7. Con il settimo motivo si lamenta violazione dell’art. 2697 c.c., con riferimento alle vicende del deposito n. (OMISSIS), del quale la stessa controparte aveva ammesso l’esistenza in favore di Massimo O., deducendo che esso sarebbe stato estinto il 7 giugno 1958. Si aggiunge che identiche considerazioni valgono per la relazione RT 392 Dick.

Per quanto riguarda quest’ultima relazione, valgono le considerazioni svolte in relazione ai motivi precedenti.

Per la prima relazione citata, ancora una volta, si rileva l’assoluta genericità della doglianza, priva di un puntuale riferimento al contenuto degli atti processuali sui quali la deduzione si fonda e soprattutto sulla loro idoneità a scardinare le conclusioni alle quali, anche in questo caso facendo riferimento alla ripartizione dell’onere probatorio, la Corte territoriale è giunta.

8. In conclusione, il ricorso, complessivamente infondato, deve essere respinto e la ricorrente condannata alle spese di questa fase, liquidate come da dispositivo.

PQM

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA