Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20141 del 15/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 15/07/2021, (ud. 17/06/2021, dep. 15/07/2021), n.20141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 382-2017 proposto da:

GALLERIA COMMERCIALE 9 SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, giusta procura a margine, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA SS. APOSTOLI, 66, presso lo studio dell’avvocato

MAURIZIO LEO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3476/2016 della COMM. TRIB. REG. LAZIO,

depositata il 06/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/06/2021 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE GIOVANNI che ha concluso riportandosi alla memoria

depositata e confermando il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato LEO MAURIZIO che ha chiesto

l’accoglimento.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Porta di Roma s.r.l. cedeva, nel 2010, a Galleria Commerciale 9 s.r.l. (già Allianz Real Estate Italia s.r.l.), un ramo d’azienda comprendente otto unità commerciali separate ed un cinema multisala, immobili ubicati in Roma, dichiarando, ai fini dell’imposta di registro, il prezzo di vendita di Euro 45.163.000,00, maggiorato dell’importo ulteriore di Euro 500.000,00 a seguito del verificarsi di condizione sospensiva concernente l’esibizione di un contratto d’affitto di ramo d’azienda in relazione ad una delle unità cedute.

Ritenuto non congruo il valore dichiarato, l’Ufficio procedeva a rettifica, notificando il 13/4/2012 un avviso di liquidazione con il quale veniva elevato ad Euro 59.527.210,00, riferito ai beni immobili, e ad Euro 3.271.449,00, riferito ad altri beni facenti parte del compendio aziendale ceduto, nonché ad Euro 53.835,00, per attrezzature ed impianti totem, con conseguente richiesta di maggiori imposte di registro, per Euro 1.124.832,20, ipotecarie e catastali rispettivamente per Euro 321.380,34 ed Euro 160.690,17, oltre sanzioni per Euro 1.580.974,00.

La società Galleria Commerciale 9 impugnò l’atto impositivo innanzi alla CTP di Roma, che rigettò il ricorso sulla base di argomentazioni poi riprese, e sviluppate, dalla CTR del Lazio che, con la sentenza indicata in epigrafe, respinse l’appello della contribuente.

Osserva, tra l’altro, il giudice di secondo grado: “che, in tema di imposta di registro, la validità dell’avviso di accertamento è subordinata all’enunciazione del “petitum” dell’Amministrazione finanziaria ed alla indicazione delle relative ragioni in termini sufficienti a definire la materia del contendere”, elementi nel caso in esame sussistenti e adeguati ad integrare la motivazione dell’atto impugnato; che “la documentazione cui fa riferimento l’Ufficio (e’) maggiormente idonea ad accertare il valore del bene al momento della cessione, rispetto sia alla perizia di parte cedente ce quella di parte acquirente applicando lo stesso criterio di valutazione quello del c.d. “metodo Reddituale dei Flussi di Cassa Attualizzati” (…) non presentando le perizie stesse divergenze rilevanti nella stime dei canoni di locazione”, ed essendo il divergente esito estimativo “influenzato in maniera preponderante dal tasso di attualizzazione scelto”; che l’avviso è stato notificato rispettando del termine decadenziale biennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76; che trattandosi di attività accertativa effettuata dall’Ufficio “senza accesso nei luoghi di residenza o nella sede o nei locali dell’impresa” non era necessario far precedere l’avviso di rettifica e liquidazione della maggiore imposta di registro da alcun atto prodromico.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società contribuente, con quattro motivi, illustrati con memoria.

Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Il Procuratore Generale ha concluso, riportandosi alla memoria scritta, per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 2-bis, D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 13,L. n. 212 del 2000, art. 7,L. n. 241 del 1990, art. 3, per non aver la CTR ritenuto nullo l’avviso impugnato per mancata allegazione dei documenti, in esso richiamati ma non riprodotti nel loro contenuto essenziale e “di pertinenza di un terzo”, la cedente società Porta di Roma.

Con il secondo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52, applicabili anche alle imposte ipotecaria e catastale ai sensi del D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 13, nonché dell’art. 2697 c.c. degli artt. 2 e 112 c.p.c., per aver la CTR ritenuto corretta la ripresa a tassazione operata in assenza di prove idonee a dimostrare, anche in via presuntiva, il maggior valore venale degli immobili oggetto di trasferimento.

Con il terzo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 17, del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 42,52,76, per non aver la CTR rilevato l’intervenuta decadenza dell’azione di recupero, essendo la notifica dell’avviso impugnato successiva al decorso del termine triennale di cui al D.P.R. citato, art. 76, comma 2, lett. a), coincidendo il dies a quo non con la data (8/10/2010) della richiesta di registrazione, ma con quella di deposito (25/2/2009) del decreto tassato, ovvero con la data ultima (2/3/2009) per richiedere la registrazione.

Con il quarto motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, degli artt. 24,97,111 Cost., dell’art. 41 Carta UE dei Diritti Fondamentali, dell’art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, comma 3, per non aver la CTR rilevato la nullità dell’avviso emesso senza un preventivo contraddittorio con il contribuente.

La prima censura è incentrata sul fatto che l’avviso impugnato si basa “su un astratto rinvio ai contenuti della Nota integrativa al bilancio di esercizio al 31 dicembre 2010 della società Cedente (i.e. la Porta di Roma) e della perizia di stima resa, al 31 dicembre 2008, dalla “CB R.E. Professional Services S.p.A.), (…) documenti allegati né, tantomeno riprodotti nel loro contenuto essenziale”.

La decisione della CTR del Lazio è in linea con la giurisprudenza della Corte secondo cui “In tema di imposta di registro ed INVIM, anche a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 212 del 2000, art. 7, che ha esteso alla materia tributaria i principi di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 3, l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento di maggior valore deve ritenersi adempiuto mediante l’enunciazione del criterio astratto in base al quale è stato rilevato, con le specificazioni in concreto necessarie per consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa e per delimitare l’ambito delle ragioni deducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa, nella quale l’Amministrazione ha l’onere di provare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’applicazione del criterio prescelto, ed il contribuente la possibilità di contrapporre altri elementi sulla base del medesimo criterio o di altri parametri.” (Cass. n. 11560/2016; n. 11623/2017; n. 11270/2017; n. 14426/2017; n. 564/2020).

La Corte non ha mancato di evidenziare che ” (…) se l’obbligo di allegazione, previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, mira a garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio delle sue facoltà difensive, laddove, in mancanza, egli sarebbe costretto ad un’attività di ricerca che comprimerebbe illegittimamente il suo diritto di difesa, è il contribuente deve dimostrare che tale difetto di motivazione abbia pregiudicato il proprio diritto di difesa, dovendo altrimenti la limitazione di detto diritto ritenersi esclusa in virtù della puntuale contestazione, in sede di impugnazione della cartella, dei presupposti dell’imposizione, come è avvenuto nel caso di specie (Cass. n. 18224/2018).

Ha, inoltre, osservato “che l’interpretazione giurisprudenziale della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, ultimo periodo, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ultimo periodo, e comma 3, nel senso che non sia nullo l’accertamento la cui motivazione fa riferimento ad un altro atto ad esso non allegato, ma conoscibile agevolmente dal contribuente, realizzi un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell’azione amministrativa (e quindi di buon andamento dell’amministrazione, ex art. 97 Cost.) – che giustificano Vammissibilità, anche normativa, della motivazione per relationem (sul punto cfr. Cass. 29/01/2008, n. 1906, in motivazione) – ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (rilevante ex artt. 24 e 111 Cost.) nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo, che sarebbe illegittimamente compresso se la conoscibilità dell’atto esterno richiamato dalla motivazione non fosse agevole, ma richiedesse un’attività di ricerca complessa. Il rispetto del complesso dei principi appena enucleati è quindi essenziale affinché la motivazione dell’accertamento, con particolare riferimento alla determinazione del tributo dovuto ed all’indicazione degli elementi posti alla base di tale quantificazione, possa consentire al contribuente la verifica sia della correttezza dei parametri utilizzati per la valutazione del presupposto dell’imposizione che dei calcolo operato dall’Amministrazione finanziaria (cfr. Cass. 29/11/2016; n. 24220; Cass.19/12/2014, n. 27055)” (Cass. n. 5937/2021).

Ebbene, la CTR del Lazio ha motivatamente ritenuto conoscibili gli atti esterni all’avviso impugnato, atteso che “Il riferimento alla perizia, alla nota integrativa al bilancio di esercizio 2010 della società cedente, nonché la situazione patrimoniale di riferimento che le parti richiamano nell’art. 3.2 del contratto e come riportata nell’allegato 1.2 all’atto di cessione, documenti che non c’e’ bisogno di allegare all’avviso”, costituiscono elementi sufficienti ad integrare la motivazione dell’atto impugnato”.

Neppure va sottaciuto, per quanto possa occorrere, che la funzione principale dei Registro imprese, oltre alla pubblicità legale degli atti in esso iscritti, è proprio quella di garantire la tempestività dell’informazione economica, su tutto i territorio nazionale, mediante agevoli modalità di consultazione.

Occorre, infine, sottolineare che “In tema di avviso di accertamento tributario, lo stabilire se, in concreto, la sua motivazione risponda o no ai requisiti di validità – che, in generale, possono riferirsi anche ad elementi extratestuali che il contribuente sia in grado di conoscere – è compito del giudice tributario, e non è dato al contribuente, se la decisione è motivata, sollecitare alla Corte di cassazione una revisione critica, salvo che non vengano enunciati ed evidenziati, nel ricorso, specifici errori di diritto in cui il giudice di merito sia incorso.” (Cass. n. 9582/2013).

La seconda censura è in parte infondata ed in parte inammissibile.

Essa è senz’altro priva di fondatezza, laddove la contribuente fa riferimento alla violazione del criterio di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., vizio che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia semmai ritenuto – erroneamente – che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 e nei ristretti limiti consentiti dalla sua “nuova” formulazione (Cass. n. 17313/2020; n. 13395/2018).

Il giudice di appello, infatti, ha ritenuto più attendibile la documentazione offerta dall’Ufficio rispetto alla perizia della parte privata che, pur applicando il medesimo criterio valutativo (“Metodo dei Flussi di Cassa Attualizzati”), perviene a conclusioni divergenti a causa del tasso di attualizzazione applicato, in un caso, pari al 7,70% (CB R.E. Professional Service S.p.A.), nell’altro, corrispondente all’8,20% ( C. & W.), ed ha motivato al riguardo osservando che, “nel primo caso il ricorso a detto tasso è spiegato in perizia con il riferimento ai parametri impiegati per giungere a tale misura mentre nel secondo caso il livello di tasso scelto è un(‘) assunzione non corredata da alcuna nota esplicativa”.

La censura della ricorrente è viceversa inammissibile allorché veicola, solo apparentemente, un vizio di violazione di legge, in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52, in quanto essa si risolve in una critica del “convincimento” che il giudice si è formato, ex art. 116 c.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio, mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, effettuata del tutto legittimamente sulla base del conseguente giudizio di prevalenza, essendo in ogni caso esclusa una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità.

La contribuente insiste sul fatto che le ragioni dell’avviso di rettifica e liquidazione si risolvono nel generico richiamo alle risultanze di documenti riconducibili ad un soggetto terzo e per di più risalenti a due anni prima della stipula dell’atto tassato, in un quadro probatorio privo di ulteriori riscontri del valore in comune commercio attribuito dall’Ufficio, cosa che non consente di ritenere assolto l’onere della prova della maggiore pretesa tributaria.

Soprattutto riguardo alla componente immobiliare della valutazione estimativa dell’Ufficio, giova ricordare che, in tema di determinazione dell’imposta di registro, l’avviso di accertamento in rettifica del valore dichiarato può legittimamente fondarsi, oltre che sul parametro comparativo e su quello del reddito, anche su “altri elementi di valutazione” ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 3, da ritenersi pari ordinati ai primi, purché non siano elencati in modo meramente generico e di stile, onde consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa (Cass. n. 1961/2018).

Il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova, con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (Cass. S.U. n. 26018/2008; Cass. n. 6873/2009; n. 9109/2012), mentre è ovvio che in sede di legittimità non sia consentito il riesame dei merito della controversia.

La terza censura va disattesa perché la decadenza dell’azione accertatrice dell’Ufficio è stata correttamente esclusa dalla CTR del Lazio sul rilievo che la notifica (13/4/2012) dell’avviso impugnato è stata effettuata anteriormente alla scadenza del termine biennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, comma 1-bis, il cui dies a quo non coincide con la data di registrazione (6/4/2010) ma con quella del pagamento dell’imposta proporzionale (al verificarsi della condizione sospensiva), profilo quest’ultimo che non appare adeguatamente scrutinato nel motivo di ricorso.

Va disattesa, infine, la quarta ed ultima censura, con la quale la contribuente denuncia la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, degli artt. 24,97,111 Cost., dell’art. 41, Carta UE dei Diritti Fondamentali, dell’art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, comma 3, per aver il giudice di appello escluso, nella esaminata fattispecie, la sussistenza dell’obbligo di preventivo contraddittorio con il contribuente.

Ad avviso del ricorrente, il quadro offerto dal diritto unionale, in cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) tutela espressamente, e nel modo più ampio, il diritto ai contraddittorio, e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza Kamino), che ha applicato il diritto ai contraddittorio, coerentemente con la sua natura di diritto fondamentale, affrontando il caso in cui il diritto comunitario non disciplini espressamente le modalità di esercizio di tale fondamentale diritto di difesa, imporrebbero di dichiarare l’illegittimità dell’impugnato avviso di rettifica e liquidazione, anche se il contraddittorio non è espressamente previsto dalla legge nazionale, soluzione questa che troverebbe conforto anche nella sentenza n. 132/2015 della Corte Costituzionale (in tema di D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis).

La doglianza, in linea di diritto, è infondata.

Va, infatti, considerato che, diversamente da quanto sostenuto dalla contribuente, il diritto al contraddittorio preventivo L. n. 212 del 2000, ex art. 12, commi 1 e 7, spetta non indistintamente, ed in via generale, a tutti i contribuenti coinvolti da una attività accertativa, ma soltanto ai contribuenti che raggiunti da verifiche ed accessi presso i locali aziendali, ipotesi che neppure dedotta dalla società Galleria Commerciale 9 e comunque estranea alla fattispecie qui esaminata.

Questa Corte, al riguardo, ha sottolineato che “L’inderogabilità della prescrizione di contraddittorio preventivo, nelle ipotesi di accesso e verifica fiscale presso i locali di operatività del contribuente, è stata più volte ribadita dall’indirizzo interpretativo di legittimità, il quale ne ha anche individuato (SSUU 24823/15) la correlazione finalistica con la “peculiarità stessa di tali verifiche, in quanto caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli”. In modo tale che la previsione legislativa di contraddittorio preventivo si pone quale “controbilanciamento” mirante allo scopo “di correggere, adeguare e chiarire (…) gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”; e ciò nell’interesse non soltanto del contribuente, ma anche della stessa amministrazione finanziaria allo svolgimento dell’attività accertativa secondo modalità di massima consapevolezza, completezza e – pertanto – efficienza.” (Cass. n. 23670/2018; cfr. anche n. 9076/2021 in materia di IVA.

Inoltre, nel formulare il vizio del difetto di contraddittorio come causa d’invalidità dell’atto impositivo, la ricorrente non spiega come il principio di cui all’art. 41 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea possa assumere rilevanza al di fuori delle procedure tributarie che possono inquadrarsi all’interno delle competenze del diritto unionale, sia nella dimensione sostanziale, che in quella procedimentale, pur essendo da molte parti auspicata l’attuazione di siffatto diritto fondamentale anche nell’ambito dei tributi non armonizzati.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la contribuente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre rimborso spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021

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