Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2013 del 26/01/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 26/01/2017, (ud. 08/06/2016, dep.26/01/2017),  n. 2013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 387-2015 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per

legge;

– ricorrente –

contro

A.A., + ALTRI OMESSI

– intimati –

avverso il decreto n. 349/2013 della Corte d’appello di Brescia,

depositato il 19 giugno 2014;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

giugno 2016 dal Presidente relatore Dott. STEFANO PETITTI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Brescia il 30 giugno 2011, A.A. e gli altri intimati in questo giudizio proponevano domanda di equa riparazione dolendosi della irragionevole durata di una procedura fallimentare iniziata con sentenza del Tribunale di Milano del 12 maggio 1994, ancora pendente alla data della domanda;

che l’adita Corte d’appello rigettava la domanda sul rilievo che, in base ai piani di riparto parziale i ricorrenti avevano ottenuto il pagamento del 4,33% delle somme insinuate al passivo e che in forza dell’intervento del Fondo di garanzia dei risparmiatori avrebbero ottenuto anche il pagamento del 25%; fermo restando che lo svolgimento della procedura fallimentare era destinato ad incrementare l’attivo da liquidare e quindi era di per sè proficuo per i ricorrenti;

che il ricorso dei soccombenti veniva accolto da questa Corte con sentenza n. 22422 del 2013;

che la Corte d’appello di Brescia, in sede di rinvio, accoglieva la domanda e condannava il Ministero della giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di Euro 9.250,00, avendo accertato una irragionevole durata della procedura fallimentare di dieci anni, alla data di proposizione della domanda, e applicando il criterio di liquidazione di 750,00 Euro per i primi tre anni di ritardo e di 1.000,00 Euro per ciascuno degli anni successivi;

che per la cassazione di questo decreto il Ministero della giustizia ha proposto ricorso sulla base di due motivi;

che gli intimati non hanno svolto difese.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che deve preliminarmente rilevarsi che non è di ostacolo alla trattazione del ricorso la circostanza che del Collegio faccia parte, quale presidente e relatore, il consigliere che ha redatto la sentenza che ha disposto la cassazione con rinvio della precedente sentenza della Corte d’appello di Brescia, trovando applicazione il principio per cui “qualora una sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi oggetto di un nuovo ricorso per cassazione, il collegio può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice” (Cass., S.U., n. 24148 del 2013);

che con il primo motivo il Ministero ricorrente denuncia nullità del decreto impugnato per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., con specifico riferimento alle deduzioni svolte in ordine alla insussistenza de danno nel caso di specie, essendosi la Corte d’appello limitata a rilevare la permanenza della procedura oltre il temine di ragionevole durata;

che con il secondo motivo l’amministrazione ricorrente deduce falsa applicazione e violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e degli artt. 1223 e 2697 c.c., e art. 115 c.p.c., dolendosi della liquidazione di un indennizzo pur in presenza di situazioni che ne escludevano positivamente la configurabilità, atteso che non può essere assimilata la posizione del creditore ammesso al passivo di una procedura fallimentare a quella del fallito o di altre parti dei giudizi civili, ove solo si consideri che il danno lamentato deriva dal fallimento e non dalla procedura finalizzata alla ricostruzione e alla liquidazione dell’attivo; ciò tanto più in un caso in cui, come quello di specie, la ripartizione parziale dell’attivo era avvenuta in tempi sostanzialmente ragionevoli, mentre la procedura si era protratta solo per il recupero di una percentuale minima dei crediti ammessi al passivo (1,15%), con la conseguenza che i creditori avrebbero potuto ottenere solo un importo pari a 400,00 Euro, rispetto al quale risulta del tutto sproporzionato l’indennizzo in concreto liquidato;

che il ricorso, i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, è infondato;

che questa Corte ha affermato il principio per cui “in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali include anche i procedimenti fallimentari, con accertamento distintamente riferito alla fase prefallimentare, volta alla dichiarazione di fallimento ed a quella fallimentare, volta alla realizzazione dell’esecuzione concorsuale; per quest’ultima, il dies a quo coincide con la sentenza dichiarativa di fallimento ed il dies ad quem con il momento in cui si verifica il soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo o, in difetto, la sopravvenuta definitività del decreto di chiusura del fallimento” (Cass. n. 950 del 2011); con la precisazione, quanto al momento iniziale, che ove venga in rilievo la posizione del creditore ammesso al passivo fallimentare, il dies a quo va individuato nella domanda di ammissione al passivo (Cass. n. 2207 del 2010; Cass. n. 20732 del 2011);

che le deduzioni svolte dall’amministrazione ricorrente in ordine alle concrete possibilità di soddisfacimento del credito ammesso al passivo non appaiono pertinenti, atteso che ciò di cui il giudice del merito deve tenere conto è il dato complessivo della procedura fallimentare, la cui durata ragionevole è nella specie stata determinata in sette anni conformemente agli orientamenti espressi sul punto da questa Corte (v., tra le molte, Cass. n. 8648 del 2012), mentre gli eventuali ulteriori profili possono rilevare ai fini della determinazione in concreto dell’indennizzo;

che, d’altra parte, già nella sentenza che aveva cassato il primo decreto della Corte d’appello di Brescia, si era evidenziato come non potesse valere ad escludere l’indennizzo per la irragionevole durata di una procedura fallimentare l’eventuale approvazione di piani di riparto parziali, non essendo ciò sufficiente a far venire meno l’interesse del creditore alla rapida definizione della procedura ed il suo disagio psicologico, derivante dall’ulteriore protrarsi della stessa nel tempo (Cass. n. 23034 del 2011);

che, dunque, nel mentre la Corte d’appello si è attenuta ai principi affermati nella decisione di questa Corte, le doglianze dell’amministrazione ricorrente o si pongono in contrasto con tali principi, ovvero si risolvono in censure all’apprezzamento di fatto del giudice di merito in ordine alla determinazione dell’indennizzo, contenuto nei limiti indicati dalla giurisprudenza di questa Corte;

che, in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;

che non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2017

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