Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20125 del 24/09/2020

Cassazione civile sez. II, 24/09/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 24/09/2020), n.20125

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 19556 – 2019 R.G. proposto da:

M.A. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliato, con

indicazione dell’indirizzo p.e.c., in Roma, alla viale Angelico, n.

38, presso lo studio dell’avvocato Marco Lanzilao che lo rappresenta

e difende in virtù di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO – c.f. (OMISSIS) – in persona del Ministro pro

tempore;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 417/2019 del Tribunale di Perugia;

udita la relazione nella camera di consiglio del 30 giugno 2020 del

consigliere Dott. Abete Luigi.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. M.A., cittadino del Bangladesh, formulava istanza di protezione internazionale.

Esponeva che aveva nel suo paese d’origine, dal 2007 al 2014, militato nel partito politico “BNP”; che era stato costretto nel 2016 ad abbandonare il Bangladesh a seguito delle intimidazioni rivoltegli dagli avversari politici; che con denaro ricevuto in prestito, denaro che non era in condizione di restituire, aveva dapprima raggiunto la Libia e di qui si era trasferito in Italia.

2. La competente Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale rigettava l’istanza.

3. Con ordinanza n. 417/2019 il Tribunale di Perugia respingeva il ricorso con cui M.A., avverso il provvedimento della commissione territoriale, aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine il riconoscimento della protezione sussidiaria, in ulteriore subordine il riconoscimento della protezione umanitaria.

Evidenziava il tribunale che le dichiarazioni rese dal ricorrente erano in larga parte poco credibili e contraddittorie.

Evidenziava altresì che non risultavano prospettate in ricorso nè emergevano dalle dichiarazioni rese dal ricorrente le circostanze di fatto costitutive dello status di rifugiato.

Evidenziava inoltre che non sussistevano i presupposti, invero neppure allegati, per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2014, art. 14, lett. a), b) e c).

Evidenziava infine che non vi era margine per far luogo al riconoscimento della protezione umanitaria.

4. Avverso tale decreto ha proposto ricorso Alamgir Md; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

5. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 8 e ss..

Deduce che la disciplina positiva prefigura non già un mero obbligo di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, bensì un vero e proprio obbligo di fissazione dell’udienza ai fini dell’audizione del richiedente asilo, qualora non sia disponibile, così come nel caso di specie, la videoregistrazione dell’audizione innanzi alla commissione territoriale.

Deduce dunque che, in dipendenza della sua omessa audizione, il tribunale, viepiù in considerazione dei poteri istruttori officiosi di cui è investito, non avrebbe potuto reputare inattendibili le dichiarazioni rese innanzi alla commissione.

Deduce quindi che l’impugnata decisione è senz’altro illegittima.

6. Il primo motivo di ricorso è privo di fondamento.

7. Il Tribunale di Perugia ha previamente dato atto che, “all’esito dell’instaurazione del contraddittorio, non è stata disposta l’audizione del ricorrente, al fine di rendere chiarimenti in ordine alle dichiarazioni rilasciate dinanzi alla Commissione, avendo il ricorrente avuto modo di chiarire i fatti che stanno alla base della propria richiesta già dinanzi alla Commissione” (così ordinanza impugnata, pag. 2).

8. Ebbene tale rilievo non è stato specificamente censurato dal ricorrente.

Più esattamente il ricorrente non può dolersi sic et simpliciter, del tutto genericamente, della sua mancata audizione in ordine a non meglio precisati “pretesi punti di criticità emersi durante il corso dell’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale” (così ricorso, pag. 4. Cfr. Cass. 17.7.2007, n. 15952, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione devono connotarsi, a pena di inammissibilità, in conformità ai requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata).

9. Il difetto di specificità rileva viepiù alla luce della duplice puntualizzazione, rilevante sul preventivo piano della allegazione dei fatti, cui il Tribunale di Perugia ha atteso: “non risultano nemmeno prospettate in ricorso (…) le circostanze di fatto costitutive dello status di rifugiato” (così ordinanza impugnata, pag. 8), “il ricorrente non ha mai legato la propria fuga dal paese ad uno scontro armato nè al rischio di subire una condanna a morte nè, tantomeno, al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti” (così ordinanza impugnata, pag. 8).

10. Ovviamente i rilievi testè premessi esplicano una valenza del tutto assorbente.

Pur a prescindere, ossia, dall’insegnamento di questa Corte a tenor del quale, nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla commissione territoriale o, se necessario, innanzi al tribunale (cfr. Cass. 28.2.2019, n. 5873, ove si soggiunge che il giudice può dunque respingere una domanda di protezione internazionale solo se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero).

Insegnamento, quest’ultimo, che evidentemente avvalora l’opzione esegetica recepita dal tribunale perugino.

11. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, l’omesso/errato esame delle dichiarazioni rese e delle allegazioni documentali; l’omesso esercizio dei poteri di cooperazione istruttoria; l’omessa audizione.

Deduce che, reputate inattendibili le sue dichiarazioni, ben avrebbe dovuto il tribunale, ai fini del riscontro dell’addotta situazione, nel suo paese d’origine, di generalizzata violenza ed insicurezza, far luogo, in esplicazione dei suoi doveri di cooperazione istruttoria, alla rinnovazione della sua audizione nonchè all’acquisizione delle necessarie informazioni circa la situazione generale del Bangladesh.

12. Il secondo motivo di ricorso del pari è privo di fondamento.

13. Questa Corte spiega che, nel giudizio relativo alla protezione internazionale del cittadino straniero, la valutazione di attendibilità, di coerenza intrinseca e di credibilità della versione dei fatti resa dal richiedente, non può che riguardare tutte le ipotesi di protezione prospettate nella domanda, qualunque ne sia il fondamento; cosicchè, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794).

14. Su tale scorta del tutto legittimo è il mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi, viepiù alla luce della deficitaria allegazione dei fatti di cui il tribunale ha puntualmente dato conto (cfr. ordinanza impugnata, paragrafi 4.1. e 4.3.).

15. In pari tempo, nel segno del novello dettato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed, evidentemente, nel solco dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, si rappresenta quanto segue (cfr. Cass. (ord.) 5.2.2019, n. 3340, secondo cui la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento “di fatto” rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c); tale apprezzamento “di fatto” è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito).

16. Da un canto il Tribunale di Perugia ha dato compiutamente ragione della incongruenza e della inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dal ricorrente.

In particolare il tribunale ha specificato che la vicenda narrata si palesava priva di riferimenti concreti, idonei a consentirne il riscontro di veridicità; che in ogni caso la addotta attività politica si era risolta nella partecipazione ad alcune riunioni e che le presunte intimidazioni erano cessate nel 2014, laddove il ricorrente aveva maturato la determinazione di abbandonare il paese d’origine nel 2016 (cfr. ordinanza impugnata, paragrafo 4.).

D’altro canto il Tribunale di Perugia per nulla ha omesso la disamina del fatto decisivo ovvero dell’attendibilità delle dichiarazioni rese da M.A..

17. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; l’omessa applicazione dell’art. 10 Cost.; la contraddittorietà della motivazione.

Deduce che ha errato il tribunale a disconoscere la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Deduce segnatamente che il rapporto “E.A.S.O.” aggiornato al 2017 ed il rapporto di “Amnesty International” parimenti del 2017 danno conto della sussistenza, in Bangladesh, di una grave condizione di pericolo per la sicurezza individuale, di una condizione di violenza diffusa non controllata dallo Stato e di una situazione economica ben al di sotto della soglia di vivibilità.

Deduce ulteriormente che al riguardo la motivazione dell’impugnata ordinanza è inficiata dal contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.

18. Il terzo motivo di ricorso non merita alcun seguito.

19. Si è anticipato che il tribunale ha dato atto che “il ricorrente non ha mai legato la propria fuga dal paese ad uno scontro armato” (così ordinanza impugnata, pag. 8). Ed ha soggiunto che, del resto, M.A. aveva ricondotto la propria vicenda a fattori di natura privata e di ordine economico (cfr. ordinanza impugnata, pag. 9).

20. Evidentemente, in questi termini, è innegabile che il terzo mezzo di impugnazione non si correla alla ratio decidendi (cfr. Cass. (ord.) 10.8.2017, n. 19989, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata; Cass. 17.7.2007, n. 15952).

Più esattamente con il terzo motivo il ricorrente avrebbe dovuto specificamente censurare l’affermato difetto di allegazioni rilevanti in rapporto alla prefigurazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

21. Tanto, ben vero, a prescindere dal rilievo per cui, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento “di fatto” rimesso al giudice del merito; il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. 21.11.2018, n. 30105; Cass. (ord.) 12.12.2018, n. 32064).

22. Ed, in siffatti termini, non può non darsi atto che il tribunale, con una valutazione scevra da qualsivoglia forma di anomalia motivazionale rilevante alla luce dell’insegnamento – già menzionato – n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite, ha specificato che la minaccia grave individuale alla vita o all’incolumità personale postulata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), risultava, nel caso di specie, fugata in radice dalla situazione di tranquillità in cui vivevano, nel paese d’origine, i familiari del ricorrente, alla stregua di quanto lo stesso ricorrente aveva riferito (cfr. ordinanza impugnata, pag. 9).

23. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19; l’omessa applicazione dell’art. 10 Cost..

Deduce che ha errato il tribunale a disconoscere la protezione umanitaria, viepiù in considerazione dei poteri di cooperazione istruttoria di cui è investito.

Deduce che, nel quadro dell’imprescindibile valutazione comparativa, in considerazione delle condizioni politiche, sociali ed economiche del suo paese d’origine, debitamente correlate alla sua personale condizione, inevitabilmente verserebbe, qualora rimpatriato, in stato di vulnerabilità ovvero subirebbe la menomazione dei diritti fondamentali, tra cui il diritto alla salute ed all’alimentazione, che, viceversa, l’Italia è tenuta a garantire in ossequio ai suoi obblighi costituzionali ed internazionali.

24. Il quarto motivo di ricorso del pari non merita alcun seguito.

25. Questa Corte spiega, sì, che, in tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela, che è invece atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di “rifugiato” o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (cfr. Cass. 15.5.2019, n. 13079; cfr. Cass. 23.2.2018, n. 4455, secondo cui, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza).

26. E però il tribunale ha puntualizzato che il ricorrente non aveva atteso all’allegazione di alcuna forma di integrazione nel tessuto socio – economico italiano, tale da consentire il debito giudizio comparativo tra la situazione vissuta nel paese d’origine, ed alla quale sarebbe stato esposto in caso di rimpatrio, e la situazione realizzata nel territorio italiano (cfr. ordinanza impugnata, par. 5.1.).

27. Cosicchè è innegabile che le ragioni di censura che il quarto motivo di impugnazione veicola, per nulla si correlano alla ratio decidendi in parte qua dell’impugnato dictum.

28. Nessuna statuizione in ordine alle spese del presente giudizio va assunta; invero il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

29. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis, se dovuto (cfr. Cass. sez. un. 20.2.2020, n. 4315, secondo cui la debenza dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui sussistenza è oggetto dell’attestazione resa dal giudice dell’impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater; il secondo, di diritto sostanziale tributario, consistente nell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta invece all’amministrazione giudiziaria).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2020

 

 

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