Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20112 del 30/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 30/09/2011, (ud. 22/09/2011, dep. 30/09/2011), n.20112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24195-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa,

dall’avvocato GIAMMARIA PIERLUIGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MAZZINI

114/B, presso lo studio dell’avvocato PUCCI GIUSEPPE, rappresentata e

difesa dagli avvocati ORLANDO CARLO, BARATTA MICHELE, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 447/2006 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 25/09/20 r.g.n. 199/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega PIERLUIGI GIAMMARIA;

udito l’Avvocato ORLANDO CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza n. 86/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Spoleto, in accoglimento della domanda proposta da B.B. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti per “esigenze eccezionali …” ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97, dal 1-3-2000 al 30-6-2000, con conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato, dichiaraci il diritto della Bonfante a riprendere il posto di lavoro e condannava la società al risarcimento del danno liquidato nella misura della retribuzione globale di l’alto dal 21-1-2003 (data di messa in mora del creditore) fino alla effettiva reintegrazione, oltre accessori.

La società proponeva appello avverso tale sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

La B. si costituiva e resisteva a gravame.

La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza depositata il 25-9-2006 confermava la pronuncia di primo grado.

Per la cassazione della detta sentenza la società ha proposto ricorso con cinque motivi.

La B. ha resistito con controricorso.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Ciò posto – rilevata preliminarmente la inammissibilità del controricorso attesa la mancanza agli atti dell’avviso di ricevimento relativo alla notifica dello stesso effettuata a mezzo posta – sui primi due motivi del ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto riguardanti, sotto vari profili la legittimità del termine, osserva il Collegio che la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali, … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed a D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de qua.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063. v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862. Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato”. (v. fra le altre Cass. 4-8-2008 n. 2 062, Cass. 23-8-2006 n. 1 8378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745. Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha univocamente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998: ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In applicazione di tale principio va quindi confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo.

Con il terzo motivo, la ricorrente dopo aver richiamato il principio di “corrispettività della prestazione”, lamenta la erroneità della sentenza della Corte d’Appello la quale, in particolare, “avrebbe dovuto tutt’al più riconoscere un risarcimento del danno alla lavoratrice commisurato alla differenza tra il trattamento economico che avrebbe percepito in costanza di rapporto ed i trattamenti economici degli eventuali corrispettivi percepiti per attività lavorative svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di terzi”.

La ricorrente formula quindi il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte va, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria”.

Tale quesito, oltre che in gran parte inconferente rispetto al motivo (che comprende anche l’eventuale aliunde perceptum), risulta de tutto generico e astratto, mancando qualsiasi riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato (sullo stesso quesito cfr. Cass. nn. 329, 330 e 33 tutte del 10-1- 2011).

Ne consegue la inammissibilità de motivo, ex art. 366 bis c.p.c..

Con il quarto motivo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ma in realtà riguardante la asserita violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384 c.p.c., u.c) e attinente all’argomento della detrazione aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato, la ricorrente lamenta, del tutto genericamente, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e censura la sentenza per non avere tenuto conto che “l’aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dati istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste pagarli motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione del seguente quesito:

“Dica la Corte se, nel caso di aggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minar rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi amministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Anche tale quesito risulta in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass. 10-1- 2011 n. 325).

Così risultati inammissibili il terzo e il quarto motivo, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, osserva il Collegio che neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Con il quinto motivo, infine, la ricorrente, denunciando violazione di norma di diritto e vizio di motivazione, censura la impugnata sentenza laddove ha escluso la configurabilità nel caso di specie della risoluzione per mutuo consenso tacito del rapporto di lavoro, nonostante la conclusione del rapporto e la accettazione del TFR senza riserve da parte della lavoratrice nonchè la avvenuta contestazione della legittimità del termine dopo lungo tempo.

Anche tale motivo non merita accoglimento.

In base al principio più volte affermato da questa Corte, “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle pani medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935. Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio il Collegio ritiene di dover qui riaffermare, rilevando peraltro che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene sul punto la Corte d’Appello, premesso che “il silenzio non assume alcun significato al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra certamente quello in questione”, ha affermato che nel nostro caso non vi è stato alcun comportamento della lavoratrice “che possa far presumere una sua acquiescenza alla risoluzione del rapporto”, rilevando che “certamente il lasso di tempo intercorso tra la cessazione di detto rapporto ed il tentativo di conciliazione non può in alcun modo interpretarsi come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo consenso.

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito in aderenza al principio sopra richiamato, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della società ricorrente.

Del resto il relativo “ragionamento decisorio” non è suscettibile di “revisione” in questa sede, neppure attraverso il controllo di logicità del fatto consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, cfr. Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della B. (liquidate con riferimento alla sola discussione orale, stante la inammissibilità del controricorso).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla B. le spese, liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 1.200,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2011

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