Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20105 del 14/07/2021

Cassazione civile sez. lav., 14/07/2021, (ud. 17/02/2021, dep. 14/07/2021), n.20105

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1751/2020 proposto da:

K.J., alias G.K., domiciliato in ROMA PIAZZA

CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato CHIARA BELLINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, Commissione Territoriale per il

Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione

di Vicenza, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e

difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici

domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– resistente con mandato –

avverso il decreto n. cronologico 10362/2019 del TRIBUNALE di

VENEZIA, depositato il 28/11/2019 R.G.N. 6033/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/02/202: dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. con decreto 28 novembre 2019, il Tribunale di Venezia rigettava il ricorso di K.J., alias G.K., cittadino nigeriano, avverso il decreto della Commissione Territoriale di Vicenza, di reiezione delle sue domande di protezione internazionale e umanitaria;

2. esso riteneva, come già la Commissione, la scarsa credibilità del racconto del richiedente, il quale aveva riferito di esser fuggito dalla Nigeria (e precisamente dalla città nativa di (OMISSIS), dove aveva sempre vissuto), spaventato dal proprio datore di lavoro che l’aveva coinvolto come testimone in un paio di piccole rapine serali presso un bancomat, nella seconda delle quali aveva ucciso un giovane che gli aveva opposto resistenza, mentre egli non si era presentato per qualche giorno al lavoro; minacciato di morte, se avesse parlato, dal medesimo datore di lavoro, cultista, senza denunciarlo alla polizia per timore, aveva infine lasciato il proprio Paese (dove aveva madre e due sorelle, con le quali era ancora in contatto), recandosi prima in Niger e poi in Libia (dove veniva sequestrato dagli (OMISSIS) e per cinque mesi tenuto prigioniero subendo torture, non potendo pagare il riscatto richiesto ma riuscendo poi a liberarsi, ivi restando altri sei mesi nei quali lavorava in un auto lavaggio), finché riusciva ad imbarcarsi per l’Italia;

3. l’inattendibilità del racconto, estremamente generico, implausibile e contraddittorio sotto plurimi profili intrinseci ed estrinseci, era valutata in senso preclusivo delle misure di protezione internazionale richieste, anche tenuto conto della verificata inesistenza (sulla scorta di fonti ufficiali specificamente indicate, la più recente delle quali Easo 2019) nel Delta State di una situazione di violenza indiscriminata ai fini del grave danno rilevante per la protezione sussidiaria: neppure in condizioni di vulnerabilità, né di adeguato livello di integrazione sociale in Italia in base alla documentazione offerta, reputata insufficiente, così da (non) meritare la protezione umanitaria;

4. con atto notificato il 27 dicembre 2019, lo straniero ricorreva per cassazione con tre motivi; il Ministero dell’Interno intimato non resisteva con controricorso, ma depositava atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, ult. alinea, cui non faceva seguito alcuna attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. il ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), artt. 5, 7,14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 19, comma 1, D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. c-ter), per erronea esclusione dei presupposti delle misure di protezione internazionale ed umanitaria richiesti, per la negazione della credibilità della vicenda narrata dal richiedente e della situazione di violenza indiscriminata generalizzata in tutta la Nigeria, in base a fonti Easo richiamate, senza alcuna considerazione del periodo (poco meno di un anno) in Libia prima di approdare in Italia, dove aveva seguito un percorso di inserimento sociale ingiustamente non valorizzato (primo motivo); violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. a – e), e vizio motivo, per inosservanza dell’obbligo di cooperazione istruttoria, in difetto di approfondimento specifico sulle condizioni di insurrezione nel nord-est dei gruppi terroristici di (OMISSIS) e dello stato islamico nell’Africa occidentale (Isis-WA), di violenze diffuse nella Nigeria rurale, di abusi delle forze di sicurezza con arresti arbitrari e torture di civili, di corruzione largamente diffusa a livello istituzionale, del condizionamento della magistratura, formalmente autonoma, dai poteri governativi, della condizione di sovraffollamento e degrado delle carceri (secondo il rapporto Ecoi sulla Nigeria pubblicato nel 2019, in riferimento al 2018 (a pgg. da 13 a 15 del ricorso) (secondo motivo);

2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili;

3. la valutazione di credibilità del richiedente deve essere sempre frutto di una valutazione complessiva di tutti gli elementi e non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti, quando invece venga trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto (Cass. 8 giugno 2020, n. 10908); sicché, prima di pronunciare il proprio giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione, il giudice deve osservare l’obbligo di compiere le valutazioni di coerenza e plausibilità delle dichiarazioni del richiedente, non già in base alla propria opinione, ma secondo la procedimentalizzazione legale della decisione sulla base dei criteri indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. 11 marzo 2020, n. 6897; Cass. 6 luglio 2020, n. 13944; Cass. 9 luglio 2020, n. 14674);

3.1. la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero mancanza assoluta, apparenza o perplessità od obiettiva incomprensibilità della motivazione, dovendosi escludere la rilevanza della sua mera insufficienza e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340); la verifica di credibilità è sottratta al controllo di legittimità, al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, posto che le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, devono essere sottoposte non soltanto a controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche a verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda (Cass. 7 agosto 2019, n. 21142; Cass. 19 giugno 2020, n. 1195);

3.2. nel caso di specie, il Tribunale, con argomentazione congrua, ha escluso la credibilità del richiedente, in particolare riferimento al collegamento con il cultismo (fenomeno valutabile sotto il profilo di credibilità dello straniero: Cass. 25 novembre 2020, n. 26864) praticato dal datore di lavoro, assolutamente generico e intimamente contraddittorio, in funzione strumentale all’asseverazione del suo timore di rimpatrio (per le condivisibili ragioni, congruamente e logicamente argomentate, dal primo periodo di pg. 9 al p.to d, secondo capoverso di pg. 10 del decreto), in merito al quale nessuna confutazione è contenuta nel ricorso, per la sua confezione standardizzata come altri esaminati, soltanto lievemente modificati in relazione alla situazione generale dei diversi Paesi di provenienza degli stranieri;

3.3. esso ha altresì accertato l’inesistenza di una situazione di violenza indiscriminata in Nigeria, riconducibile alla formazione terroristica di matrice religiosa (OMISSIS), collocata nella parte settentrionale del Paese (Cass. 18 gennaio 2017, n. 1268; Cass. 5 novembre 2018, n. 28119; Cass. 7 novembre 2018, n. 28433; Cass. 15 maggio 2019, n. 13088; Cass. 27 febbraio 2020, n. 5293), ma non in Delta State, né specialmente nella città di Agbor sulla base di fonti informative aggiornate (in particolare, rapporto Easo del febbraio 2019) e specificamente indicate (dal secondo capoverso di pg. 13 al terz’ultimo di pg. 14 del decreto), in esatto adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria (Cass. 12 novembre 2018, n. 28990; Cass. 22 maggio 2019, n. 13897; Cass. 20 maggio 2020, n. 9230);

3.4. il ricorrente ha contrapposto solo argomentazioni (basate su estratto del rapporto Ecoi sulla Nigeria pubblicato nel 2019, in riferimento al 2018) di carattere generale, non di specifica smentita del più puntuale approfondimento giudiziale di pari aggiornamento, a sostanziale contestazione della valutazione del giudice di merito, congruamente argomentata per le ragioni dette, insindacabile in sede di legittimità;

3.5. la censura è pertanto inidonea ad attingere quella specificità dimostrativa dell’inattualità delle informazioni poste dal giudice di merito alla base del suo ragionamento decisorio, in assenza di puntuali fonti alternative o successive, tali da consentire l’effettiva verifica di violazione del dovere di collaborazione istruttoria (Cass. 21 ottobre 2019, n. 26728; Cass. 20 ottobre 2020, n. 22769);

3.6. generico è infine il riferimento al periodo di transito in Libia (all’ultimo capoverso di pg. 9 del ricorso), di cui il Tribunale ha dato puntuale conto (dal sesto al decimo capoverso di pg. 3 del decreto), con trascrizione di un poco pertinente documento UNHCR “Posizione sui rimpatri in Libia” del settembre 2018 (a pgg. 8 e 9 del ricorso), qui non in discussione, in assenza di alcun collegamento con una personale condizione di vulnerabilità del richiedente: ribadito l’indirizzo di questa Corte, secondo cui l’allegazione, da parte del medesimo, che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perché l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide; potendo tuttavia il paese di transito rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. 6 febbraio 2018, n. 2861; Cass. 6 dicembre 2018, 31676; Cass. 5 giugno 2020, n. 10835);

4. il ricorrente deduce violazione dell’art. 3 CEDU, art. 33 Convenzione di Ginevra, in riferimento del principio di “non refoulement”, nucleo intangibile della protezione dovuta dallo Stato allo straniero sa rischio di seria minaccia alla propria vita, in caso di rimpatrio (terzo motivo);

5. esso è inammissibile;

5.1. il principio è collegato al diritto di asilo, interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa contenuta nel D.Lgs. n. 251 del 2007, adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004 e nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (Cass. 26 giugno 2012, n. 10686; Cass. 15 settembre 2020, n. 19176), specificamente riguardante la diversa materia dei provvedimenti di espulsione di competenza amministrativa, qui non in discussione, costituendo in tale materia l’introduzione, in sede di opposizione alla misura espulsiva, di una misura umanitaria (specificamente regolata tra le diverse di protezione internazionale, già oggetto del precedente mezzo scrutinato) a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale (Cass. 17 febbraio 2011, n. 3898; Cass. 8 aprile 2019, n. 9762; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3875; Cass. 31 dicembre 2020, n. 29971);

6. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, senza assunzione di un provvedimento sulle spese del giudizio, non avendo il Ministero vittorioso svolto difese e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 17 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021

 

 

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