Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2010 del 29/01/2020

Cassazione civile sez. lav., 29/01/2020, (ud. 07/11/2019, dep. 29/01/2020), n.2010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7283-2014 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 109,

presso lo studio dell’avvocato BIAGIO BERTOLONE, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato GIANEMILIO GENOVESI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS),

in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati

ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, DE ROSE EMANUELE, CARLA D’ALOISIO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 403/2013 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 13/09/2013 r.g.n. 350/2013.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 13.9.2013, la Corte d’appello di Genova ha confermato, per quanto qui rileva, la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da M.A. avverso la cartella esattoriale con cui le era stato ingiunto di pagare all’INPS somme per contributi omessi in danno di taluni lavoratori subordinati assunti con contratto di collaborazione a progetto;

che avverso tale pronuncia M.A. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura;

che l’INPS ha resistito con controricorso;

che, a seguito della fissazione dell’adunanza camerale, parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. con la quale, oltre ad illustrare il motivo di ricorso, ha denunciato per contrasto con l’art. 6 CEDU il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., anche in relazione al decreto del Primo Presidente di questa Corte del 14.9.2016, in tema di motivazione semplificata dei provvedimenti.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con riguardo al paventato contrasto del rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c. con il principio di pubblicità del processo di cui all’art. 6 CEDU, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che il principio di pubblicità dell’udienza non riveste carattere assoluto e può essere derogato in presenza di particolari ragioni giustificative, ove obiettive e razionali (giusta l’insegnamento di Corte Cost. n. 80 del 2011), da ravvisarsi in specie in relazione alla conformazione complessiva di tale procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non rivestenti peculiare complessità (così, da ult., Cass. n. 5371 del 2017);

che ancor meno plausibile risulta la denuncia in relazione al provvedimento del Primo Presidente di questa Corte del 14.9.2016 in merito alla motivazione semplificata dei provvedimenti giurisdizionali, ove si consideri che l’obbligo di succinta motivazione è posto in forma generale dall’art. 132 c.p.c., n. 4 (rectius, dall’art. 118 att. c.p.c.) per le sentenze e dall’art. 174 c.p.c. per le ordinanze ed è coerente con il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, che, sebbene sia stato codificato esplicitamente soltanto dall’art. 3, comma 2, c.p.a., esprime tuttavia un principio generale immanente al diritto processuale (così da ult. Cass. n. 8009 del 2019);

che, ciò premesso, con l’unico motivo di censura parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, comma 1, per avere la Corte di merito ritenuto che la modifica ad esso apportata con L. n. 92 del 2012, circa l’impossibilità che il progetto abbia ad oggetto l’attività principale dell’impresa, si applicasse anche ai contratti stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore;

che, nel motivare il proprio decisum, la Corte territoriale ha fatto riferimento sia alla ritenuta impossibilità di delimitare in qualche modo la prestazione dedotta quale oggetto del contratto, in considerazione del fatto che “il lavoro degli addetti al progetto (…) esauriva, in sostanza, l’intera attività aziendale” (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata), sia alla fondatezza delle “valutazioni del primo giudice in merito al concreto atteggiarsi in senso subordinato delle prestazioni” (ibid., pag. 5);

che tale ultima considerazione, relativa al concreto atteggiarsi del rapporto precorso inter partes, costituisce all’evidenza un’autonoma e distinta ratio decidendi della sentenza impugnata, essendosi chiarito che, in tema di contratto di lavoro a progetto, il regime sanzionatorio articolato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l’eventualmente appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia stata giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti (così Cass. n. 12820 del 2016 e numerose successive conformi, tutte sulla scorta di Cass. n. 9471 del 2016);

che, non avendo parte ricorrente in alcun modo impugnato codesta autonoma ratio decidendi, non può che darsi continuità al consolidato principio di diritto secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, atteso che, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, il loro accoglimento non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 22753 del 2011 e, più di recente, Cass. n. 18641 del 2017);

che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 7200,00 di cui Euro 7000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2020

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