Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2010 del 28/01/2021

Cassazione civile sez. I, 28/01/2021, (ud. 09/12/2020, dep. 28/01/2021), n.2010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15434-2019 r.g. proposto da:

I.C., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Ameriga

Petrucci, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in

Rionero in Vulture (PZ), Via G. Marconi n. 76;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore il Ministro;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Potenza, depositata in

data 31.10.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

9/12/2020 dal Consigliere Dott. Amatore Roberto.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Potenza ha rigettato l’appello proposto da I.C., cittadino della Nigeria (Edo State), nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso l’ordinanza emessa in data 30.9.2016 dal Tribunale di Potenza, con la quale erano state respinte le domande di protezione internazionale ed umanitaria avanzate dal richiedente.

La Corte di merito ha ricordato, in primo luogo, la vicenda personale del richiedente asilo, secondo quanto riferito da quest’ultimo; egli ha infatti narrato: 1) di essere nato e vissuto nel villaggio di (OMISSIS); 2) di essere stato costretto a fuggire dal suo paese di origine, perchè lo zio lo aveva privato dei beni paterni dopo la morte del padre e perchè, trasferitosi a Benin city (ove aveva iniziato a lavorare per un politico locale, avendo ricevuto l’incarico di “danneggiare” l’avversario politico del suo datore di lavoro) era stato arrestato e torturato dalla polizia.

La Corte territoriale ha, poi, ritenuto che: a) non erano fondate le domande volte al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, il D.Lgs. n. 251 del 2007, sub art. 14, lett. a e b, in ragione della complessiva valutazione di non credibilità del racconto e comunque per la mancata allegazione di collegamenti tra la vicenda personale del ricorrente e la situazione politica e sociale nigeriana; b) non era fondata neanche la domanda di protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c, perchè il ricorrente non aveva allegato una situazione di conflitto armato nel paese di provenienza e perchè l’unico rischio dedotto era quello collegato alla sua attività di fiancheggiatore politico di un esponente della politica locale di Benin City; c) non poteva accordarsi tutela neanche sotto il profilo della richiesta protezione umanitaria, posto che la valutazione di non credibilità posta a sostegno del diniego già in primo grado non era stato oggetto di gravame e perchè il ricorrente non aveva dimostrato un saldo radicamento nel contesto sociale italiano.

2. La sentenza, pubblicata il 31.10. 2018, è stata impugnata da I.C. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, il mancato riconoscimento dell’invocata protezione sussidiaria.

2. Con il secondo mezzo il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5, del diniego della richiesta protezione umanitaria.

3. Il ricorso è fondato.

3.1 Occorre una necessaria premessa sul profilo sollevato in limine dal ricorrente nel primo motivo di censura, in ordine all’ammissibilità del vizio proposto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella materia della protezione internazionale e nel rito precedente all’introduzione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, da parte del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, per come convertito nella L. 13 aprile 2017, n. 46.

Ritiene il Collegio che tale vizio sia deducibile nel rito in esame.

3.2 Non sfugge a questo Collegio giudicante che in altri precedenti si sia affermata la piena ammissibilità del divieto di cui all’art. 348 bis, u. c., nei casi cioè di “doppia conforme”, anche nella materia della protezione internazionale (v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7995 del 2020; Cass. sez. 1, 15/10/2020 n. 22383 Sez. 1, Ordinanza n. 7634 del 2020). Va tuttavia precisato che tali precedenti (tutti riferibili alla Prima Sezione Civile di questa Corte) non hanno affrontato espressamente la questione della peculiarità del rito in esame, con particolare riferimento al profilo dell’oggetto della domanda protettiva che riguarda invero l’accertamento di uno status (status di rifugiato e di protezione sussidiaria, secondo le chiare definizioni di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. a, f e h).

A ciò va aggiunto che in altri precedenti (sempre della Prima Sez. di questa Corte) è stato invece affermato, anche qui senza approfondimento argomentativo, che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 70, art. 348 bis, lett. a) e art. 348 ter, non opererebbe, nella fattispecie della protezione internazionale, il principio della cd. “doppia conforme”, trattandosi di azione di status (v. Cass. sez. 1, 22/06/2020 n. 12217; Sez. 1, Ordinanza n. 12223 del 2020).

3.3 Sul punto, occorre ricordare – prendendo proprio l’abbrivio dagli arresti da ultimo citati – che l’art. 348 bis c.p.c., u.c., prevede espressamente che la disposizione di cui al comma 4 del medesimo articolo “si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348-bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado”, laddove il comma 4 prevede che, nella ipotesi di cd. doppia conforme, “il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)”.

Ebbene, il sopra menzionato art. 348 bis, comma 2, lett. a, richiama, come previsione di esclusione nell’applicazione della normativa processuale in esame, le “cause di cui all’art. 70, comma 1”, del codice di rito.

La norma da ultimo citata così dispone: “Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio: 1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; 2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; 3) nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; 4) abrogato (1. 11 agosto 1973, n. 533); 5) negli altri casi previsti dalla legge. 2. Deve intervenire nelle cause davanti alla corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge”.

3.4 Ciò posto, ritiene la Corte che – secondo le chiare definizioni contenute nel già sopra menzionato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 (che richiama, peraltro, la “Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. 24 luglio 1954, n. 722, nella disciplina dello status dei rifugiati), nell’art. 7 del medesimo decreto legislativo ora richiamato (ove espressamente si riconducono gli “atti di persecuzione” al riconoscimento dello status di rifugiato) ed infine nell’art. 17, medesima fonte normativa (nel quale si evidenzia verbatim che “la domanda di protezione internazionale ha come esito il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria”) – non possa non concludersi nel senso della riconducibilità delle cause ove si discute di protezione internazionale nell’alveo applicativo di cui all’art. 70 c.p.c., comma 1, proprio in ragione della peculiare natura della domanda di protezione che è volta ad ottenere il riconoscimento di uno status personale in favore del richiedente.

Non può essere trascurato, infatti, che il Capo V del D.Lgs. n. 251 del 2007 (rubricato “Contenuto della protezione internazionale”) collega, negli artt. 19 e segg., al riconoscimento della protezione internazionale una serie di tutele che qualificano il soggetto protetto nei termini dell’affermazione di uno stato personale soggettivo (protezione dall’espulsione; informazioni; mantenimento del nucleo familiare; permesso di soggiorno; accesso all’istruzione; etc.), riconducibile, dunque, nel paradigma applicativo di cui all’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, (“stato” della persona).

3.5 Del resto, occorre anche ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato – in relazione al rito oggi governato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis (ma con affermazione di principi estensibili anche al rito qui in esame, ricadente nel fuoco normativo di cui al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 19) – che D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 6, nello stabilite che “il ricorso è trasmesso al pubblico ministero, che, entro venti giorni, stende le sue conclusioni, a norma dell’art. 738 c.p.c., comma 2, rilevando l’eventuale sussistenza di cause ostative al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria”, introduce espressamente una fattispecie ad “intervento obbligatorio del pubblico ministero, inquadrabile nel disposto dell’art. 70 c.p.c.” (cfr. Cass., Sez. I, 30/01/2020, n. 2115).

3.5.1 Va ulteriormente precisato che la partecipazione del pubblico ministero al procedimento è assicurata per il solo fatto che l’organo requirente sia informato del procedimento e sia posto in condizioni di presentare le sue conclusioni, non occorrendo neanche che le conclusioni del P.M. siano poi effettivamente rassegnate, essendo la presentazione o meno della conclusioni una scelta insindacabile del pubblico ministero, la quale non può comunque incidere sul potere-dovere del giudice di provvedere nei tempi previsti dalla legge (v. sempre Cass., n. 2115/2020, cit. supra). Invero, ai fini dell’osservanza delle norme che prevedono l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, nè la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il P.M., mediante l’invio degli atti, sia informato del giudizio e posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna (v., in altra materia, Cass., Sez. 1, n. 25722 del 24/10/2008; Sez. 1, n. 6136 del 26/03/2015; Cass. Sez. 1, n. 3708 del 14/02/2008).

3.5.2 A ciò va aggiunto che, anche in relazione ai riti precedenti all’introduzione del D.L. n. 13 del 2017, art. 35 bis da parte dell’art. 6, comma 1, lett. g), (conv. in L. n. 46 del 2017), applicabili ratione temporis, il legislatore aveva previsto – nel D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 6 (poi abrogato dal D.L. n. 13 del 2017, art. 7, comma 1, lett. c), conv. in L. n. 46 del 2017) e ancor prima nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 5, (abrogato dal già ricordato D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 34, comma 20, lett. c) – la comunicazione al pubblico ministero del ricorso e del decreto di fissazione di udienza, come, peraltro, previsto in termini generali dall’art. 71 c.p.c., per le cause ove è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 70, comma 1, medesimo codice di rito.

3.6 Deve pertanto concludersi nel senso della non operatività del divieto della proponibilità della denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ipotesi di “doppia conforme”, nella materia della protezione internazionale.

3.7 Ciò posto in termini generali, il primo motivo di censura è in realtà fondato.

La censura è invero fondata sia in relazione al vizio di motivazione denunciato nei termini sopra prospettati sia in riferimento al vizio di violazione di legge, declinato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.7.1 La doglianza articolata nel primo motivo va infatti accolta

limitatamente alla censura presentata in relazione al diniego della richiesta protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c.

Il provvedimento impugnato si pone in contrasto con il disposto normativo di cui all’art. 14, lett. c., nella parte in cui fonda il diniego della relativa richiesta di tutela sul profilo della mancata allegazione di un collegamento tra la situazione personale del richiedente (ed in particolare le minacce ricevute dal politico avversario) e la situazione di conflittualità interna del paese di provenienza, posto che la protezione sussidiaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha invece come unico presupposto applicativo la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento deve essere condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, (così, anche Sez. 3, Ordinanza n. 8819 del 12/05/2020).

3.7.2 Le restanti doglianze – declinate dal ricorrente in relazione al diniego della richiesta protezione sussidiaria di cui al richiamato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b, – sono invece inammissibili perchè non censurano la ratio principale posta a sostegno del contestato diniego della protezione invocata, e cioè la valutazione di non credibilità del racconto.

3.8 Il secondo motivo rimane assorbito.

La decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità è rimessa al giudice del rinvio.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo nei limiti di cui in motivazione; dichiara assorbito il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Potenza, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2021

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