Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20099 del 14/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 14/08/2017, (ud. 02/03/2017, dep.14/08/2017),  n. 20099

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23042-2015 proposto da:

P.M., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato AMERIGA PETRUCCI, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

ITALTRACTOR OPERATIONS S.P.A., (ora ITALTRACTOR ITM S.P.A.) C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TRIPOLITANIA N. 195, presso

lo studio dell’avvocato DECIO SPIRITO, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE SPIRITO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 60/2015 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 31/03/2015 R.G.N. 388/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di POTENZA, mediante pronuncia pubblicata il 31 marzo 2015 e notificata in data 22-23 luglio 2015, rigettava il gravame interposto il 26 maggio 2014 da P.M. avverso la sentenza in data 14 gennaio 2014, con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto le domande dello stesso P. avverso il licenziamento a costui intimato il 22-12-2009 dalla S.p.a. ITALTRACTOR OPERATIONS, previa contestazione disciplinare in relazione al comportamento tenuto dal lavoratore con uso di espressioni offensive nonchè minacciose risalenti al (OMISSIS) nei confronti del caporeparto C.V., disattendendo quindi anche le ulteriori pretese risarcitorie azionate dall’istante, invece condannato pure alle spese relative al secondo grado del giudizio.

Ad avviso della Corte territoriale, nella specie erano infondati i motivi addotti a sostegno del gravame, tenuto conto degli enunciati principi di diritto in tema di licenziamento per giusta causa, peraltro con autonoma valutazione rispetto a quella compiuta in sede penale, relativa agli stessi fatti, essendo stati questi ad ogni modo provati da parte datoriale per quanto accaduto il (OMISSIS), siccome integranti gli estremi dell’insubordinazione, non rilevando poi le giustificazioni fornite dal dipendente in ordine al motivo per cui aveva momentaneamente abbandonato il reparto di assegnazione, ma la condotta offensiva ed ingiuriosa posta in essere a seguito del richiamo fatto dal capo reparto.

Quanto, poi, all’asserito carattere discriminatorio del recesso, la Corte lucana, pur tenendo conto delle dichiarazioni rese dal teste indicato, riteneva ad ogni modo di condividere l’assunto del primo giudicante, che aveva escluso la prova di un nesso causale tra la circostanza riferita dal teste escusso e la pretesa finalità ritorsivo-discriminatoria del licenziamento, laddove ad ogni modo l’intento ritorsivo andava comunque dimostrato, ancorchè mediante presunzioni, da chi lo allegava. Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione P.M., come da atto notificato lunedì 21-09-2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la S.p.a. ITALTRACTOR ITM (nuova denominazione di ITALTRACTOR OPERATIONS S.p.a.) con controricorso in data 20-30 ottobre 2015/sei nov. 2015.

Peraltro, in data 26 ottobre 2015 è stata depositata Delib. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza, emessa in data 16 ottobre 2015 a seguito d’istanza presentata il 5 ottobre 2015, relativa all’ammissione in via anticipata e provvisoria del ricorrente P. al patrocinio a spese dello Stato ex D.P.R. n. 115 del 2002.

La sola controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione e l’errata applicazione delle norme di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) circa la normativa in tema di licenziamento per giusta causa e principio di proporzionalità, sostenendo che non vi era stata insubordinazione, ma legittima rimostranza a fronte di un richiamo pretestuoso e infondato, non vi era stato alcun nocumento, nè era stato compromesso il regolare svolgimento della vita aziendale. La Corte di Appello non aveva adeguatamente valutato tutti gli elementi indicati dalla citata giurisprudenza, rendendo illogica la motivazione laddove aveva ritenuto sussistente la giusta causa, con riferimento ad ingiurie e minacce, peraltro non provate nello specifico, che certamente non potevano di per sè legittimare e giustificare la compromissione del vincolo fiduciario.

Con il secondo motivo il P. ha lamentato la motivazione, affetta da violazione di legge e da illogicità rispetto alla mancata prova della natura antidiscriminatoria del licenziamento, assumendo che non erano state utilizzate le categorie giuridiche rilevanti in materia di condotte determinate da motivo e/o causa illecita. Andava considerato il comportamento posto in essere dalla società nei confronti del ricorrente attraverso il dipendente C. in ordine alla violazione dei criteri CIG, ad episodi in cui sempre il medesimo capoturno aveva richiamato pretestuosamente ed infondatamente esso P., contestandogli verbalmente come abbandono della postazione il semplice svolgimento dell’attività lavorativa (la c.d. marcatura delle maglie a catena) ed ancora l’intimare ai colleghi di non parlargli “et similia”, tutte circostanze provate e non valutate dalla Corte di Appello, che rilevavano la sussistenza di un intento di fondo ritorsivo, discriminatorio ed illecito da parte della società convenuta e dunque sussistente il nesso di causalità tra tali condotte ed il licenziamento intimato, rientrante quindi nelle tipologie d’illiceità di cui agli artt. 1343 e 1418 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 15 e L. n. 108 del 1990, art. 3.

Con il terzo motivo, formulato espressamente ex art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente ha denunciato omessa pronuncia sulla eccepita immutabilità della contestazione, nonchè la violazione dell’obbligo di motivazione. Infatti, nel provvedimento espulsivo si parlava genericamente di successive verifiche che avrebbero confermato la dinamica descritta nella contestazione disciplinare, senza però indicarle. Era evidente l’aggiunta nell’impugnato recesso di episodi e frasi ingiuriose, che non avevano formato oggetto di contestazione disciplinare, peraltro in forma generica e non circostanziata, nemmeno sotto il profilo temporale, così violando ulteriormente il principio di determinatezza e di tempestività.

Per di più, la lettera con la quale era stato comunicato il licenziamento, oltre a contenere elementi di fatto inesatti e non rispondenti al vero, per la genericità dell’esposizione, non esplicitava l’iter decisionale nonchè le valutazioni in base alle quali la datrice di lavoro aveva irrogato la più grave delle sanzioni disciplinari, impedendo in tal modo una valutazione in ordine all’adeguatezza della sanzione comminata.

Con il quarto motivo, testualmente rubricato errores in procedendo – art. 360 c.p.c., n. 4, è stata denunciata la mancata valutazione della prova documentale, fornita in appello, circa le deposizioni testimoniali rese nell’ambito del procedimento penale relativo agli stessi fatti ( M., A., R. e L.). Era altresì mancata la valutazione della testimonianza resa da Ro.Do., escusso all’udienza del 30 giugno 2010, nè vi era stato riscontro alle richieste istruttorie di esibizione della documentazione relativa ai criteri della CIG ed alle turnazioni effettuate.

Tanto premesso, ritiene la Corte di dover disattendere le anzidette doglianze, che in effetti tendono irritualmente in questa sede di legittimità a riesaminare i fatti per i quali i giudici di merito, chiamati in sede civile a pronunciarsi sull’impugnato recesso, hanno conformemente ritenuto del tutto legittimo il contestato licenziamento, siccome assistito da giusta causa dovuta all’insubordinazione, veementemente manifestata nell’occorso dal P. nei confronti del suo superiore, C.V., al quale si rivolgeva con frasi offensive ed irriguardose, di gravità tale da compromettere irreversibilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro. Pertanto, il giudice adito, la cui pronuncia è stata quindi confermata dalla Corte distrettuale mediante il rigetto del gravame interposto dal lavoratore licenziato, aveva ritenuto che la massima sanzione espulsiva nella specie applicata era da considerarsi assolutamente adeguata e proporzionata e che, inoltre, non erano emersi elementi atti a collegare il licenziamento de quo con l’attività sindacale del ricorrente, nè a far supporre una discriminazione in suo danno nella turnazione della cassa integrazione guadagni.

Invero, nella specie i fatti di causa devono ritenersi incensurabilmente accertati come da motivate pronunce di merito, che vanno di conseguenza lette congiuntamente, integrandosi le stesse reciprocamente (n. 27/14.01.2014 in primo grado, confermata in secondo grado con la sentenza qui impugnata, n. 60/12 febbraio – 31 marzo 2015 – r.g. n. 388/2014), sicchè la c.d. doppia conforme preclude ogni diversa valutazione rispetto a quanto appurato, prima dal giudice del lavoro di Potenza e poi dalla Corte territoriale, operando nella specie l’art. 348-ter c.p.c., u.c., ratione temporis applicabile in virtù del regime transitorio stabilito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. sul punto, inoltre, Cass. 1 civ. n. 26774 del 22/12/2016: nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, – applicabile ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012 – il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse. Conforme tra le altre Cass. 2civ. n. 5528 del 10/03/2014.

V. quindi anche Cass. 6 civ. – 3, n. 26097 in data 11/12/2014, secondo cui in ipotesi di cosiddetta “doppia conforme” in fatto a cognizione sommaria, ex art. 348 ter, comma 4 alla cui disciplina rimanda lo stesso art. 348-ter c.p.c., comma 5 e u.c. riguardo al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado -, è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicchè il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili).

Dunque, risulta accertato che il (OMISSIS) il P., il quale in quel momento rientrava dall’esterno, si rivolse al capo reparto C.V. (il quale lo aveva rimproverato per non aver osservato la regola aziendale che imponeva agli operai di non uscire dall’officina senza l’autorizzazione del superiore) con frasi ingiuriose ed atteggiamenti minacciosi (specificamente riportati a pag. 9 della pronuncia de qua), per cui tale condotta, unitariamente considerata, integrava ad avviso dei giudici di merito, indubbiamente gli estremi dell’insubordinazione verso il superiore, a prescindere altresì dagli eventuali profili di rilevanza penale, sicchè, pure alla stregua della richiamata giurisprudenza di legittimità (pgg. 7 e 8 della sentenza), il licenziamento veniva giudicato assistito da giusta causa nonchè sicuramente adeguato e proporzionato rispetto alla condotta ascritta, laddove non era stato tanto contestato il temporaneo abbandono della postazione di lavoro, quanto piuttosto la condotta offensiva ed ingiuriosa posta in essere a seguito del richiamo operato dal caporeparto C..

Nè risultava provato il nesso causale tra il fatto che l’attore era malvisto dal C. (secondo il teste Ri.Ga.) e l’asserita finalità ritorsiva/discriminatoria del licenziamento in parola, la cui prova per giunta incombeva sul lavoratore, una volta dimostrata da parte datoriale la giusta causa del licenziamento. Senza dire, peraltro, che le circostanze riguardo al preteso intento ritorsivo risultano allegate in modo quanto mai generico, soprattutto per quanto concerne le non meglio indicate turnazioni in tema di cassa integrazione, di cui non sono stati indicati nemmeno i riferimenti cronologici.

Invero, la giusta causa di licenziamento, quale clausola generale, viene integrata valutando una molteplicità di elementi fattuali, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, solo ove si denunci che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale; al contrario, l’omesso esame di un parametro, tra quelli individuati dalla giurisprudenza, avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia, va denunciato come vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ferma, in tal caso, la possibilità di argomentare successivamente che tale vizio avrebbe cagionato altresì un errore di sussunzione per falsa applicazione di legge (Cass. lav. n. 18715 del 23/09/2016, la quale in motivazione ha osservato tra l’altro come le disposizioni di legge di riferimento, concernenti la giusta causa o il giustificato motivo, in tema di licenziamento riguardano “le norme contenenti le cd. clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non se ne possono negare le peculiarità legate alla circostanza che in tali disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una integrazione che accentua lo spazio lasciato all’interprete, delegato ad effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi confini dell’ordinamento positivo.

… Si tratta di disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, mediante la valorizzazione sia di principi che la stessa disposizione richiama sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero al rispetto di criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui si colloca la disposizione.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010); dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perchè, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extra giuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento”…

Tuttavia è stato evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005)….

Il vizio di sussunzione è ipotizzabile naturalmente anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di I detti giudici.

… L’accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito. Ad essi spetta anche la valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento.

Trattandosi di giudizi di fatto questa Corte può sottoporli a sindacato nei limiti consentiti – così come innanzi già precisato – da una prospettazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente.

Inoltre il giudice di legittimità, sempre nei limiti di una censura appropriata, può sindacare la sussunzione operata dall’impugnata sentenza della fattispecie concreta nell’alveo dell’art. 2119 c.c. correttamente interpretato.

Resta fermo però che i dati fattuali dì partenza devono essere quelli accertati e valutati dal giudice del merito: rispetto ad essi può essere verificata in sede di legittimità la corretta riconduzione alla fattispecie astratta.

Poichè, come abbiamo visto, gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici occorre guardare, nel sindacato di questa Corte, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza della sussunzione nell’ambito della clausola generale.

Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con tutti i limiti innanzi ricordati, e solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall’omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per falsa applicazione di legge.

Nella specie, invece, parte ricorrente, oltre a contestare inammissibilmente – per quanto innanzi detto – l’accertamento degli addebiti come operato dai giudici di merito, in alcun modo specifica perchè quanto accertato e ritenuto da costoro non sarebbe sussumibile nell’ambito dell’art. 2119 c.c…., sicchè le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del giudizio di merito, evidentemente non consentita in questa sede”….).

Pertanto, alla stregua delle precedenti considerazioni vanno disattesi il primo e il secondo motivo di ricorso.

Palesemente inammissibile appare poi il terzo, vista la preclusione ex art. 348 ter c.p.c. derivante dalla succitata doppia conforme decisione, sicchè il ricorso non è ammesso in relazione all’ipotesi contemplata dall’art. 360, n. 5 stesso codice di rito, laddove peraltro l’asserita violazione del principio di immutabilità della contestazione e di pretesa violazione dell’obbligo di motivazione andrebbero correttamente denunziate come violazione di legge a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7. Per giunta, va anche evidenziata al riguardo l’insufficiente formulazione del ricorso, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, visto che lo stesso ha omesso di indicare come, in quali esatti termini e dove tali censure siano state sollevate nel corso del giudizio di merito; doglianze delle quali manca ogni traccia anche nella sentenza qui impugnata, che però d’altro canto opportunamente chiariva, in ordine alle doglianze svolte con il gravame, come il dovere di motivazione del giudice di appello restasse sempre correlato, e quindi correttamente limitato, ai soli motivi d’impugnazione, ragion per cui ogni altra questione, non specificamente riproposta (ritualmente a norma dell’art. 434 c.p.c.), dovesse considerarsi coperta da giudicato (la Corte di merito si è pronunciata nei limiti consentiti dall’effetto devolutivo dell’appello, impugnazione, che come è noto ha natura di revisio prioris instantiae, e non già di novum judicium. Cfr. tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 3033 – 08/02/2013 e n. 28498 del 23/12/2005; da ultimo v. ancora Cass. III civ. n. 11797 del 9/06/2016: nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata, assumendo l’appellante sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello e con essa l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado).

Del pari, è inammissibile il suddetto quarto e ultimo motivo, laddove impropriamente come error in procedendo, in relazione all’art. 360 c.p.c., commma 1, n. 4, viene in effetti lamentata la pretesa omessa valutazione di talune emergenze istruttorie (le testimonianze rese in sede penale, peraltro nemmeno riprodotte, e la dichiarazione resa dal teste RO., nonchè la mancata ammissione di alcune richieste di esibizione di non meglio precisata documentazione), concludendo quindi testualmente nel senso che: “La violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 porta alla nullità della sentenza impugnata”.

Ed invero, tali doglianze non integrano affatto errores in procedendo, come tali comportanti la nullità della decisione ex cit. art. 360, n. 4, ma al più omesso esame di fatti decisivi nei sensi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, il cui vizio nella specie, però come già detto, non è ad ogni modo denunciabile per effetto della rilevata doppia conforme ex art. 348-ter stesso codice.

Pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del soccombente al pagamento delle relative spese.

Visto, infine, che allo stato il P. risulta ammesso, in via anticipata e provvisoria, al patrocinio a spese dello Stato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza in data 15 ottobre 2015, a seguito d’istanza in data 5 ottobre 2015 (anteriore alla notifica del ricorso per cassazione, avvenuta il 21-09-2015), il collegio si limita a prendere atto di tale decisione provvisoria, con salvezza quindi di ogni conseguente decisione finale in proposito da parte della competente Corte di merito. Per l’effetto, allo stato, si fa luogo a declaratoria di non sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato (v. sul punto Cass. lav. n. 18523 del 02/09/2014, secondo cui il ricorrente in cassazione ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, in caso di rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

V., per altro verso, Cass. 1 civ. n. 22616 del 2/12/2004, secondo cui in tema di patrocinio a spese dello Stato, in base al regime di cui al D.Lgs. n. 113 del 2002, deve ritenersi che la competenza sull’istanza e sul procedimento di liquidazione degli onorari del difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetti al giudice di rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato – a seguito dell’esito del giudizio di cassazione-così come prevedeva la norma della L. n. 217 del 1990, art. 15-quattuordecies atteso che la circostanza che nel D.Lgs. n. 113 del 2002, art. 82 – il cui testo viene riportato nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82 – la previsione di quella norma non sia stata espressamente riprodotta – al contrario di quanto risulta nell’art. 83, relativo alla liquidazione del compenso per l’attività agli ausiliari ed ai consulenti tecnici di parte – deve ritenersi frutto in base ad un’interpretazione ragionevole e costituzionalmente corretta – di un mero errore di scomposizione dello stesso art. 15 -quattuordecies, che nella redazione del testo unico, di cui al citato D.Lgs. n. 113, risulta appunto distinto nelle due disposizioni dell’art. 82 e dell’art. 83, delle quali si impone una lettura unitaria. In senso analogo v. anche Cass. 1 civ., sentenza n. 3122 del 16/02/2005, pressochè conforme Cass. 1 civ. n. 16986 del 25/07/2006. Cfr. pure Cass. 3 civ., ordinanza n. 11028 del 13/05/2009, secondo la quale la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi del Decreto n. 115 del 2002, art. 83 come modificato dalla L. 24 febbraio 2005, n. 25, art. 3 al giudice di rinvio, oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. Nel caso di cassazione e decisione nel merito, la competenza spetta a quello che sarebbe stato il giudice di rinvio ove non vi fosse stata decisione nel merito. Conforme Cass. 1 civ., ordinanza n. 23007 del 12/11/2010).

PQM

 

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, in Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali ed in 200,00 (duecento/00) Euro per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, a favore della società controricorrente. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2017

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