Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20075 del 30/07/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 20075 Anno 2018
Presidente: ORICCHIO ANTONIO
Relatore: FORTUNATO GIUSEPPE

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30074/2014 R.G. proposto da
Ricci Nazzarena, rappresentata e difesa dall’Avv. Mario Pica, con
domicilio eletto in Roma, Via delle Acacie, n. 13, presso lo studio
dell’avv. Alessandro Andreozzi.
– ricorrente contro
Milonni Marcello e Caprara Michele,

rappresentati e difesi

dall’Avv. Antonio Belliazzi, con domicilio eletto in Latina, Via C.
ggAttisti n. 18.

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Data pubblicazione: 30/07/2018

— controricorrenti —
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6881/2013,
depositata il 19.12.2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28.3.2018 dal
Consigliere Giuseppe Fortunato.

Nazzarena Ricci ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte
d’appello di Roma n. 6881/2013.
La ricorrente era stata convenuta in giudizio dinanzi al Pretore di
Latina da Marcello Milonni e da Michele Caprara, i quali avevano
dedotto che la convenuta aveva realizzato una costruzione di altezza
di 3 metri, nonché un portico di 3,5 metri, con un’altezza
complessiva di 6,5 metri, in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici.
Disposta la sospensione dei lavori, la causa era stata riassunta
dinanzi al tribunale, ove la convenuta aveva proposto domanda
riconvenzionale volta a far dichiarare l’illegittimità delle opere
eseguite dagli attori in violazione delle distanze legali.
Il tribunale di Latina ha accolto la domanda e condannato la
convenuta ad arretrare di cm. 40 il fabbricato realizzato sul confine,
per tutta la sua altezza, mentre ha respinto la riconvenzionale.
Proposto appello principale dalla Ricci ed appello incidentale dagli
attuali resistenti, la Corte di Roma ha riformato parzialmente la
sentenza, condannando Nazzarena Ricci a risarcire il danno, liquidato
in C 10.000.00, oltre accessori.
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FATTI DI CAUSA

Ha ritenuto la Corte distrettuale che, in caso di violazione delle
distanze il danno deve ritenersi in re ipsa e che, quindi, competeva
il risarcimento per il pregiudizio arrecato alla proprietà degli appellati
per il periodo intercorrente dall’edificazione fino all’effettiva
demolizione.

I resistenti hanno depositato controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo censura la violazione degli artt. 112,191,194
c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art., 360, comma primo, nn. 1 e 3
c.p.c., per aver la sentenza pronunciato esclusivamente sulla base
della consulenza tecnica d’ufficio, senza considerare che quest’ultima
non è mezzo di prova e non può esonerare le parti dall’onere di
dimostrare i fatti dedotti ad oggetto delle rispettive domande.
Il motivo è infondato.
La Corte distrettuale ha accertato sulla base dei rilievi eseguiti dal
c.t.u. sui luoghi di causa, che la ricorrente aveva edificato a mt, 2,60
dal confine ed ha, quindi, respinto l’appello principale, confermando
che la Ricci era tenuta ad arretrare il proprio manufatto di cm. 40, in
modo da osservare la distanza legale di tre metri dalla costruzione
fronteggiante.
L’utilizzo della c.t.u. al fine di stabilire la distanza tra i manufatti e
per la quantificazione del danno era del tutto legittimo, poiché essa,
non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio,
perché volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi
3

Il ricorso si sviluppa in cinque motivi.

acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche
conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al
prudente apprezzamento del giudice di merito.
Questi, nell’esercizio della propria discrezionalità, può affidare al
consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per

stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e
sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del
suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda
specifiche cognizioni tecniche (Cass. 13.3.2009, n. 6155; Cass.
23.2.2006, n. 3990; Cass. s.u. 4.11.1996, n. 9522).
Avendo la Corte distrettuale ritenuto necessario rimettere alle
indagini del c.t.u. l’accertamento del rispetto delle distanze, non
altrimenti verifica bile, e la quantificazione del pregiudizio sulla base
della deduzione dei fatti costitutivi della pretesa, che non è neppure
in contestazione, non è, quindi, affatto incorsa nel vizio denunciato.

2. Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 873 c.c. e 116
c.p.c. con riferimento all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver
la sentenza erroneamente asserito che i coniugi Milonni-Caprara
avevano costruito per primi ad una distanza dal confine di mt. 2,60
e che, in ragione della prevenzione, la ricorrente non aveva
rispettato la distanza di cm. 40 dal confine, mentre, in base al piano
di lottizzazione vigente nella zona era possibile edificare costruzioni
accorpate e che il progetto esecutivo del suddetto piano prevedeva
che le parti realizzassero sul confine due portici collegati; che dette
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esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti

previsioni stabilivano servitù reciproche per cui la ricorrente, nel
realizzare il portico sul confine, non era incorsa nella violazione delle
distanze.
Il motivo è infondato.
La Corte distrettuale ha esaminato le previsioni del piano di

rilievi del c.t.u., che esso, ove prevedeva l’accorpamento delle
costruzioni, non contemplava una prescrizione sulle distanze legali,
in deroga a quanto previsto dal codice civile.
Tuttavia, sebbene le previsioni del piano di lottizzazione
prevedessero la possibilità di costruire in accorpamento, e quindi in
aderenza sul confine, detta facoltà non poteva ritenersi vietata dalla
disciplina locale, avendo la sentenza accertato che, in mancanza di
previsioni degli strumenti urbanistici vigenti in zona, le nuove
costruzioni dovevano osservare la distanza di tre metri rispetto agli
edifici realizzati per primi prescritta dall’art. 873 c.c. e, quindi, senza
derogare al principio della prevenzione.
Ciò vale a dire che la stessa facoltà che la ricorrente riconduce alle
previsioni del piano di lottizzazione e al relativo progetto esecutivo
non poteva costituire oggetto di alcuna servitù reciproca, poiché
detta servitù avrebbe conferito una facoltà già consentita dalla
disciplina locale, risultando meramente riproduttiva del regime delle
distanze e della regole di prevenzione già operanti in zona.
Di conseguenza, avendo la sentenza accertato che i resistenti
avevano costruito per primi e a distanza superiore a mt. 1,5 dal
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lottizzazione e del progetto esecutivo ed ha concluso, aderendo ai

confine, la ricorrente era tenuta ad arretrare di cm. 40, in modo da
tenere la propria costruzione a tre metri da quella preesistente.
3. Il terzo motivo censura la violazione degli artt. 873, 875 e 877
c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver la
Corte distrettuale ritenuto operante il principio della prevenzione

distanza dal confine ove il prevenuto non abbia la possibilità di
costruire in aderenza al muro edificato sul confine.
Il motivo è infondato poiché non solo non indica in quale atto o grado
del giudizio di merito la questione sia stata sollevata (esigendo lo
scrutinio di profili di merito e la ricognizione dello stato dei luoghi
che non possono dedursi per la prima volta in sede di legittimità),
ma perché, inoltre, trascura di considerare che le norme in tema di
prevenzione sono invocabili nell’ipotesi in cui il muro di fabbrica del
preveniente sia posto sul confine o a distanza pari o inferiore ad un
metro e mezzo dal confine (o alla metà della maggior distanza
prescritta dagli strumenti locali) e non quando, come nel caso
concreto (in cui il manufatto dei resistenti è posto a mt. 2,60 dal
confine), la costruzione realizzata per prima sia posta a distanza
superiore alla metà di quella legale.
4.

Il quarto motivo censura la violazione dell’art. 873 c.c., in

relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., asserendo che la
costruzione dei resistenti sia stata realizzata in violazione delle
distanze legali e delle disposizioni del piano di lottizzazione, anche
per quanto concerne il rispetto dei limiti massimi di altezza.
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senza considerare che anche il preveniente deve rispettare la

Il motivo è inammissibile per quanto concerne la costruzione delle
scale di accesso al primo e al secondo piano, perché, in violazione
del principio di autosufficienza del ricorso, non indica in quale atto e
grado del processo la questione sia stata sollevata ed abbia costituito
oggetto di dibattito processuale.

distrettuale circa il fatto che gli strumenti urbanistici non
prevedevano distanze obbligatorie non è confutato da alcuna
allegazione ed inoltre il ricorso neppure chiarisce se il piano di
lottizzazione imponesse vincoli di distanza tra le costruzioni
rapportati all’altezza, dovendo ricordarsi che le prescrizioni degli
strumenti urbanistici che impongono limiti di altezza senza
rapportarli alla distanza non sono integrative dell’art. 873 c.c., per
cui la loro violazione dà luogo unicamente ad un’azione di
risarcimento dei danni nei confronti dell’autore della costruzione ai
sensi dell’art. 872 c.c. e non anche al diritto ad ottenere la
demolizione.
5. Il quinto motivo censura, testualmente, la violazione degli artt.
872, 873 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5
c.p.c., per aver la Corte distrettuale liquidato il danno senza
quantificarlo in base alla reale perdita di valore del fabbricato
danneggiato, al costo di un intervento di ripristino e al vantaggio
conseguito per effetto dell’illecito e dei costi aggiuntivi da sostenere
per l’immobile danneggiato.
Il motivo è inammissibile.
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Per il resto deve osservarsi che l’accertamento compiuta alla Corte

Il giudice di merito ha liquidato il danno in via equitativa tenendo
conto del tempo trascorso dalla realizzazione dell’illecito alla sua
demolizione.
Detta liquidazione è espressione di un potere discrezionale che è
sindacabile in sede di legittimità non per violazione di legge ma per

richiamare i criteri di quantificazione del pregiudizio derivante dalla
costruzione a distanza legale senza alcuno specifico aggancio alla
situazione concretamente dedotta in giudizio e alle risultanze
processuali, oltre a risultare formulata in termini generici, non è
censurabile sotto i profili dedotti.
Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo
soccombenza.
Sussistono le condizioni per dichiarare che la ricorrente è tenuta a
versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater
all’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali, pari ad C 200,00 per esborsi ed C 2200,00 per
compenso, oltre ad iva, cnap e rimborso forfettario spese generali,
in misura del 15%.
Si dà atto che la ricorrente è tenuta a versare l’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione,
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vizi di motivazione, e pertanto la censura, che peraltro si limita a

ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228,
che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115.
Così deciso in Roma, 28.3.2018.

dott. Antonio Oricchio
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Giudizialio

NERI

DEPOSITATO IN CANCELLERIA
Roma,

30 LUG. 2018

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IL PRESIDENTE

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