Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20068 del 30/09/2011

Cassazione civile sez. I, 30/09/2011, (ud. 21/06/2011, dep. 30/09/2011), n.20068

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.A.G., titolare dell’IMPRESA “G. SERAFINI”,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del

ricorso, dall’avv. Barsi Rodolfo ed elett.te dom.to in Roma, Via L.

Mantegazza n. 24, presso il cav. Luigi Gardin;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI LECCE, in persona del Sindaco P.B.A.,

rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al

controricorso, dall’avv. De Salvo Maria Luisa ed elett.te dom.to in

Roma, Lungotevere Flaminio n. 44, presso lo studio del dott.

Gianmarco Grez;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 597/2004,

depositata il 19 ottobre 2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

giugno 2011 dal Consigliere dott. Carlo DE CHIARA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

PATRONE Ignazio Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Comune di Lecce affidò all’impresa “G. Serafini” di S. A.G., con contratto del 1 ottobre 1982, l’appalto dei lavori di costruzione della “casermetta traduzioni Carabinieri” presso il palazzo di giustizia. I lavori ebbero un andamento anomalo e furono a un certo punto sospesi e non più ripresi.

Con transazione del 5 febbraio 1993 fu concordato fra le parti il risarcimento del danno in favore dell’impresa, liquidandone l’importo al 20 dicembre 1992 in L. 365.000.000.

Il Comune, che successivamente aveva ricevuto dall’impresa sollecitazioni a riprendere i lavori, dispose, con Delib. Giunta del 14-29 aprile 1997, la risoluzione del contratto ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345.

Nel marzo 1998 il S. convenne in giudizio il Comune per il risarcimento del danno.

Il Tribunale di Lecce ritenne che, pur essendo vero che il contratto di appalto si era protratto sino alla data della risoluzione deliberata dalla Giunta comunale solo il 29 aprile 1997, tuttavia sin dal 15 marzo 1993 l’appaltatore aveva avuto cognizione – avendo proposto ricorso al TAR avverso la delibera di affidamento dei lavori ad altra impresa – dell’impossibilità della ripresa dei lavori stessi da parte sua. Facendo uso della normale diligenza avrebbe dunque dovuto, a quel punto, smobilitare il cantiere, che non aveva più ragion d’essere, evitando in tal modo ulteriori danni. Pertanto riconobbe all’attore un risarcimento di soli Euro 2.351,31, oltre interessi, in relazione, appunto, al periodo dal 20 dicembre 1992 al 15 marzo 1993.

Il gravame del S. è stato respinto dalla Corte d’appello di Lecce, che, confermando il ragionamento svolto dal Tribunale, ha osservato che, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, l’impresa avrebbe dovuto smobilitare il cantiere sin dal marzo 1993, e che inoltre le voci di danno indicate dall’appellante o erano sfornite di prova o erano smentite dal fatto che le uniche attrezzature rimaste in loco, e rimosse il 4 dicembre 1993, consistevano in macchinari di scarsa consistenza e in cattivo stato di conservazione, tali da escludere un eventuale proficuo utilizzo, mentre l’allegata scopertura di conto corrente non appariva in alcun modo ricollegabile all’appalto in questione.

Il sig. S. ha quindi proposto ricorso per cassazione per tre motivi. Il Comune di Lecce si è difeso con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., si lamenta che la Corte d’appello abbia affermato la conoscenza, da parte del S., dell’aggiudicazione dei lavori ad altra impresa pur in mancanza di qualsiasi prova.

1.1. – Il motivo è inammissibile, atteso che detta conoscenza era già stata accertata dal giudice di primo grado, e non risulta dalla sentenza impugnata, nè è dedotto nel ricorso, che sul punto vi sia stata specifica censura in grado di appello.

2. – Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 1227, 1362, 1363 c.c., dell’art. 1364 c.c. e segg., nonchè vizio di motivazione. Si sostiene che nella specie andava applicato non il comma 2 dell’art. 1227 c.c., bensì il primo, che prevede la sola riduzione del risarcimento, e si lamenta quindi che la Corte d’appello non abbia adeguatamente valorizzato il comportamento colpevole dell’amministrazione comunale.

2.1. -La censura è infondata.

Nella specie, infatti, non trova applicazione il comma 1 dell’art. 1227 c.c., il quale riguarda la diversa ipotesi del concorso del creditore nella stessa produzione del danno, e non quella, invece accertata nella specie dai giudici di merito e contemplata dal comma 2 del cit. articolo, in cui il danneggiato sia estraneo alla produzione del danno ma abbia omesso di far uso della normale diligenza per eliderlo (cfr., da ult., Cass. 13242/2007, 5127/2004, 240/2001).

3. – Con il terzo motivo, denunciando in sostanza vizio di motivazione, si censura la statuizione di difetto di prova del danno.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

I giudici di merito, come si è visto, hanno respinto la domanda di ulteriori danni del S. per due diverse ed autonome rationes decidendi, ciascuna idonea, da sola, a giustificare la decisione: la prima ratio consistente nella non addebitabilità dei danni in questione al Comune ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2; la seconda consistente nella mancanza, comunque, della prova di quei danni. Con il motivo in esame viene censurata la seconda ratio, ma inutilmente, atteso che la sentenza impugnata si giustifica comunque in base alla prima, rimasta confermata a seguito del rigetto degli altri motivi di ricorso (cfr., da ult., Cass. 12372/2006, 13956/2005, 18240/2004).

4. – Il ricorso va in conclusione respinto. Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 2.200,00, di cui 2.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2011

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