Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20060 del 06/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 06/10/2016, (ud. 06/07/2016, dep. 06/10/2016), n.20060

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorso l 2:3-2U15 proposto da:

TEATESERVIZI S.R.L. P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempere, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA ADRIANA 20 presso lo studio dell’avvocato PAGLIARO EMANUELE,

che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA

Arturo, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO

SPEZIALE, giusta delega in atti;

– controricorso –

avverso la sentenza n. 183/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 05/03/2015 R.G.N. 1316/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2016 dal Conigliere Dott. LORITO Matilde;

Udito l’avvocato PAGLIARO EMANUELE;

udito l’Avvocato COSENTINO VALERIA per delega verbale Avvocato

MARESCA Arturo;

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renat, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Chieti, in accoglimento del ricorso proposto da B.C. nei confronti della Teateservizi s.r.l., dichiarava l’illegittimità dei contratti di somministrazione a termine stipulati fra le parti negli anni (OMISSIS) in ragione della carenza della preventiva valutazione dei rischi, e condannava la società, partecipata del Comune di Chieti, al risarcimento dei danni quantificati nella misura di dodici mensilità L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 5.

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di L’Aquila che condannava la Teateservizi s.r.l. al risarcimento del danno nella misura di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Nel prevenire alla reiezione del gravame interposto dalla società, per quanto in questa sede rileva, la Corte territoriale osservava che la preventiva valutazione dei rischi, sancita dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 5, lett. c, integrava prescrizione vigente all’epoca di stipula del primo contratto di lavoro inter partes, non rilevando la circostanza dedotta da parte appellante in ordine alla abrogazione della disposizione ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008. La disposizione di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, si richiamava, infatti, esplicitamente, ai dettami di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, dal quale scaturiva l’obbligo del rispetto delle prescrizioni in tema di valutazione dei rischi.

Quanto al profilo risarcitorio della pretesa azionata dal lavoratore, reputava attagliarsi alla fattispecie scrutinata la L. n. 300 del 1970, art. 18, – applicabile anche ai rapporti in cui è parte la Pubblica Amministrazione – che si riteneva integrare “un utile parametro di riferimento per la valutazione equitativa del danno correlato alla illegittima valutazione del termine” in quanto idoneo ad assicurare “il rispetto del principio della equivalenza”. In tal senso accoglieva parzialmente l’appello incidentale interposto dal lavoratore.

La Cassazione di tale decisione è domandata dalla società Teateservizi s.r.l. sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso l’intimato il quale ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 20 del D.Lgs. n. 81 del 2008 e del D.Lgs. n. 626 del 1994 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Critica la sentenza impugnata per aver ritenuto inapplicabili le prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008. Argomenta per contro, che detta normativa, entrata in vigore in epoca antecedente al primo contratto di somministrazione inter partes stipulato per il periodo 22/8/ – 31/12/08, aveva abrogato le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 5. Nel predetto arco temporale era, dunque, già vigente la successiva normativa che sanciva la redazione del documento di valutazione rischi entro il termine del 1/1/09, differito D.L. n. 97 del 2008, ex art. 4, comma 2 bis, convertito in L. 2 agosto 2008, n. 129, ex art. 4, comma 2 bis. Conforme ai dettami delle disposizioni applicabili alla fattispecie ratione temporis, doveva ritenersi, quindi, l’agire della società, che in data 23/12/2008, nel corso del primo contratto di somministrazione, aveva depositato il documento di valutazione rischi.

La censura è priva di pregio.

Va infatti considerato che il tenore del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 306, prevede che le disposizioni di cui agli art. 17, comma 1 lett. a) e art. 28, nonchè le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie, previste dal presente decreto, diventano efficaci a decorrere dal 1 gennaio 2009; fino a tale data continuano a trovare applicazione le disposizioni previgenti.

Il chiaro tenore della norma consente già di ritenere che, all’epoca della stipula del primo contratto di somministrazione (22/8-31/12/2008), era ancora in vigore il disposto di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 5, secondo cui il contratto di somministrazione è vietato per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 4 e successive modifiche. Essa poneva, invero, a carico dell’utilizzatore, specifici obblighi di sicurezza nei confronti del lavoratore somministrato, che si risolvevano nel rispetto dei dettami di cui al citato D.Lgs. n. 626 del 1994, e permanevano sino al termine del 1 gennaio 2009 sancito dal sopravvenuto D.Lgs. n. 81 del 2008.

Detto compendio normativo, introduceva – per quel che in questa sede rileva – una valutazione dei rischi a carico dell’impresa utilizzatrice, articolata in una serie di più complesse prescrizioni.

Il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26, (intitolato obblighi connessi ai contratti di appalto o d’opera o di somministrazione) prescriveva, ad esempio, che il datore di lavoro in caso di affidamento di lavori servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, fornisse agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui erano destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.

L’art. 17 prevedeva fra gli obblighi del datore non delegabili, la redazione del documento di cui all’art. 28. Questo, a propria volta, recava la prescrizione della redazione di un documento che, anche in forma semplificata, indicasse i rischi per la salute e la sicurezza nella attività lavorativa.

Orbene, appare evidente dai sommari cenni alla disciplina recata dal richiamato D.Lgs. n. 81 del 2008, che la ratio ad esso sottesa mirasse a consentire alle imprese di approntare le dichiarazioni attinenti alla valutazione dei rischi secondo le più articolate modalità previste dalle nuove disposizioni normative, ma certamente non ad esonerare le imprese stesse dall’osservanza delle prescrizioni in tema di sicurezza sul lavoro, sancite dalle norme previgenti, la cui la validità ed efficacia veniva espressamente serbata D.Lgs. n. 81 del 2008, ex art. 306.

In tal senso la pronuncia impugnata, laddove ha ritenuto non assolto l’obbligo dell’impresa utilizzatrice di stilare una valutazione dei rischi preventiva all’assunzione alla stregua delle prescrizioni sancite dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, in quanto coerente con i principi enunciati, resiste alla censura all’esame.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 99 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Si deduce che la domanda risarcitoria formulata dal lavoratore nelle sole conclusioni del ricorso di primo grado, non risultava sorretta da alcuna causa petendi, non avendo in alcun modo il ricorrente argomentato in ordine alle conseguenze risarcitorie correlate alla mancata conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, integrante il petitum della domanda principale formulata dal lavoratore.

Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.

E’ bene innanzitutto rimarcare il principio affermato da questa Corte, e che va qui ribadito, secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè si sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (vedi Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931, cui adde Cass. 28/9/2015 n. 19124).

Deve altresì rammentarsi che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati (cfr. ex aliis, Cass. 22/9/2014, n. 19959).

Nell’ottica descritta, appaiono affetti da profili di inammissibilità quei motivi con i quali viene contestualmente censurato il vizio di omessa pronuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e di violazione di legge in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giacchè si realizza una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 c.p.c., n. 4, mostrando di non tenersi conto dell’impossibilità della prospettazione di una medesima questione sotto profili fra loro non compatibili.

Ed ancora, va ribadita l’inammissibilità del motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, giacchè in tal modo si finisce per affidare alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione, non essendo consentito confondere i profili del vizio logico della motivazione e dell’errore di diritto. Si è, infatti, già avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. 26/3/2010 n. 7394) che “in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in tali sensi ex plurimis, vedi anche Cass. 8/6/2012, n. 9341).

Nello specifico la ricorrente è incorsa in violazione dei summenzionati principi giacche, da un canto, ha denunciato un error in procedendo, sussumendolo nel vizio di violazione di legge (art. 112 c.p.c.) ed omettendo di dedurre la nullità della decisione derivante dalla relativa omissione; dall’altro, in violazione delle regole di chiarezza dettate dall’art. 366 c.p.c., n. 4, ha nel contempo denunciato vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nella versione di testo di cui alla novella di cui alla L. n. 134 del 2012.

Con il terzo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, della direttiva 1999/70/CE, D.Lgs. n. 24 del 2012 in attuazione della direttiva 2008/104/CE, dell’art. 1223 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3.

Ci si duole, in sintesi, del fatto che la Corte distrettuale abbia ritenuto applicabile al rapporto di lavoro in somministrazione, la normativa sanzionatoria sul contratto a termine ed i parametri di liquidazione del danno in via automatica, in assenza di prova specifica circa il danno che si assume risentito da parte del lavoratore. Tanto in violazione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia Europea che ha sottolineato come l’ambito di applicazione dell’accordo quadro non si estendesse ai lavoratori a tempo determinato messi a disposizione di una azienda utilizzatrice da parte di un’agenzia di lavoro interinale.

Il motivo è parzialmente fondato, nei sensi che si vanno ad esporre.

Per un ordinato iter motivazionale, occorre muovere dalla considerazione della correttezza degli assunti posti a fondamento della pronuncia impugnata, laddove ha denegato riconoscimento alla tutela reintegratoria oggetto della pretesa azionata in via principale dal B., per essere la Teateservizi s.r.l. inquadrabile nella categoria delle società di capitali in house providing.

Devono intendersi come tali, alla stregua dei principi invalsi nella dottrina e nella univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. SU 25/11/2013 n. 26283, Cass. SU 10/03/2014 n. 5491) le società costituite da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che per statuto esplichino la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici.

Con riferimento alla tematica del rapporto di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego in violazione di legge, ripetuto è il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cass.,sez. lav., 15/6/2010, n. 14350 e da, ultimo Cass. S.U. 15/3/2016, n. 5072) secondo cui il rapporto lavoro non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, il cui disposto non è stato modificato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, contenente la regolamentazione dell’intera disciplina del lavoro a tempo determinato.

Di qui la conseguenza che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest’ultimo, è preclusa la conversione del rapporto, sussistendo solo il diritto al risarcimento dei danni subiti.

Anche all’esito delle recenti modifiche del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, mediante l’introduzione di due commi (5 – ter e 5 – quater) D.L. 31 agosto 2013, n. 101, ex art. 4, comma 1, lett. b), conv. dalla L. 30 ottobre 2013, n. 125, è stato ribadito che le disposizioni del D.Lgs. n. 368 del 2001 si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato ed il diritto al risarcimento per il dipendente, ed è stato stabilito che i contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione della medesima disposizione sono nulli e determinano responsabilità erariale, con la conferma della responsabilità dei dirigenti che operano in violazione delle disposizioni di legge.

In sintesi, il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore, sicchè non può predicarsi la conversione del rapporto quale “sanzione” dell’illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale.

D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente – anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicchè può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26/11/2014, C-22/13 ss., Mescolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale (in tali termini, vedi Cass. cit. S.U. n. 5072/2016).

Ciò premesso, non può tralasciarsi di considerare che la questione nodale sulla quale si sono appuntate le doglianze di parte ricorrente, attiene alla individuazione degli effetti risarcitori scaturenti dalla violazione di legge nei contratti di somministrazione a termine.

La società ha sostenuto, in estrema sintesi, la tesi della inapplicabilità della direttiva 1999/70/CE e dell’Accordo quadro Ces, Unicee Ceep sul lavoro a tempo determinato, al rapporto di somministrazione, sul punto richiamando taluni approdi ai quali è pervenuta la Corte di Giustizia in subiecta materia, deducendo la necessità che la domanda risarcitoria sia sostenuta da una specifica prova del danno subito dal lavoratore.

Osserva, tuttavia, la Corte che tale problematica è stata affrontata in numerose pronunce (vedi Cass. 17/1/2013 n. 1148, Cass. 8/9/2014 n. 18861, Cass. 7/7/2015 n. 14033) con le quali si è affermata, nel caso in cui siano state vulnerate le norme di legge sulla apposizione del termine al contratto di somministrazione, l’applicazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, del quale è stata patrocinata un’interpretazione di tipo sostanzialista, fondata sulla sostanziale inclusione nel suo raggio di applicazione, sia del lavoro somministrato che di quello temporaneo.

L’opzione ermeneutica seguita negli arresti giurisprudenziali ai quali si è fatto richiamo, muove da una esegesi letterale della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, alla cui stregua nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

La norma richiama in senso ampio l’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato, con formulazione unitaria, indistinta e generale, adoperando la locuzione “casi” di “conversione del contratto a tempo determinato” non associata all’indicazione di normativa specifica di riferimento, nè al riferimento ad ulteriori elementi selettivi.

Ciò che, quindi, rileva al fine della verifica della applicazione della norma considerata, è stata la ricorrenza del duplice presupposto della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della sussistenza di un momento di “conversione” del contratto medesimo.

L’ampiezza della formula utilizzata dalla norma e la mancanza di ulteriori precisazioni da parte del legislatore, rende irrilevante che in alcuni di questi casi, la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato sia preceduta da una conversione soggettiva del rapporto. La disposizione richiede, infatti, solo che si sia in Presenza di uno dei “casi di conversione del contratto a tempo determinato”, espressione che non esclude che il fenomeno di conversione possa avvenire nei confronti dell’utilizzatore effettivo della prestazione, nè che possa essere l’effetto sanzionatorio di un vizio concernente il contratto di fornitura.

Questa Corte (vedi Cass. 29/5/2013 n. 13404) ha altresì rimarcato che il legislatore è intervenuto sulla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, con una norma interpretativa, la L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, secondo cui “La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Tale locuzione appare pregnante e decisiva ai fini della soluzione della questione qui dibattuta, l’utilizzazione del termine “ricostituzione” indicando che il concetto di conversione comprende non solo provvedimenti di natura dichiarativa, ma anche di natura costitutiva, quale quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, con riferimento alla somministrazione irregolare.

Del resto, la tendenza normativa è – in linea di massima – quella di liquidare con un’indennità determinata a forfait o con un risarcimento previsto entro un tetto massimo il mancato guadagno sofferto dal lavoratore nell’arco di tempo trascorso fra l’illegittima cessazione d’un rapporto lavorativo (a cagione della nullità del termine o dell’illegittimità del licenziamento intimatogli) e il suo ripristino grazie alla sentenza del giudice: si pensi, ad esempio, alla L. n. 604 del 1966, art. 8, all’art. 18 Stat. nuovo testo come modificato ex L. n. 92 del 2012 (che riserva solo a pochi casi la tutela reintegratoria piena con attribuzione di tutte le retribuzioni maturate medio tempore), e, appunto, alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, (vedi in tali sensi, in motivazione, Cass. cit. n. 17540/2014).

L’opzione ermeneutica patrocinata dalle richiamate decisioni, alle quali si intende dare continuità, neanche si pone in diretto contrasto con le pronunce della Corte Costituzionale (n. 303/2011) e della Corte di Giustizia Europea (Causa C-290/12 Della Rocca in data 11 aprile 2013) che hanno escluso assimilazioni fra le discipline del contratto a tempo determinato e della somministrazione a termine, in quanto modulata su obiettivi criteri di interpretazione letterale dell’art. 32, comma 5 come risultante dalle integrazioni apportate dalla L. n. 92 del 2012, e non sulla assimilazione fra le discipline delle due tipologie di contratto. Dall’esame della motivazione emerge che tale inapplicabilità deriva solo dal tenore del preambolo dell’accordo quadro e dall’esistenza di altra più specifica regolamentazione (la direttiva 2008/104) per il contratto a termine che si accompagni ad un contratto interinale o di somministrazione e non già da una ritenuta sua incompatibilità ontologica, a tutti gli effetti, con un puro e semplice contratto a tempo determinato.

Definiti, nei termini descritti, i limiti entro i quali va riconosciuta tutela al lavoratore in ipotesi di contratto di somministrazione a termine stipulato in violazione di legge, non può peraltro prescindersi dalla considerazione che la Corte territoriale, nell’applicare alla fattispecie la più intensa tutela riconosciuta L. n. 300 del 1970, ex art. 18, sia pure in via parametrica, stante l’inapplicabilità alla sfera della P.A. degli effetti reintegratori sanciti dalle richiamate disposizioni, si sia discostata dai principi sinora esposti, peraltro suffragati da recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. cit. n. 5072/2016).

Con riferimento alla tematica della illegittimità del termine e della nullità della clausola di apposizione dello stesso, che comportano la nullità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato, si è individuata una disciplina del piano risarcitorio “comunitariamente adeguata” in un ambito normativo omogeneo, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato e non già in quella del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo in cui sia stata ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, nè in quella di licenziamento parimenti illegittimo in cui sia stata ordinata dal giudice la riassunzione L. n. 604 del 1966, ex art. 8, e neppure in quella di licenziamento illegittimo in cui non possa essere ordinata la reintegrazione ma ci sia solo una compensazione economica (L. n. 92 del 2012, art. 1, e successivamente, per i contratti di lavoro a tutele crescenti, D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3).

L’ipotesi del licenziamento evoca, infatti, la perdita del posto di lavoro che nella fattispecie del lavoro pubblico contrattualizzato è esclusa in radice dalla legge ordinaria (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 cit.) in ottemperanza di un precetto costituzionale di cui all’art. 97 Cost., in stretta connessione con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost., comma 1).

Il dipendente pubblico che subisce la precarizzazione per effetto di una successione di contratti a termine connotata da abusività non perde alcun posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale ha lavorato ed al quale non avrebbe mai avuto diritto non avendo superato il vaglio di un concorso pubblico per un posto stabile.

Il danno per il dipendente pubblico è stato, diversamente, ravvisato nella perdita di chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti.

La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella del cit. L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato – che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21/8/2013, n. 19371).

La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa agevolazione della prova da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 dell’accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.

La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice (così, in motivazione, Cass. S.U. 15/3/2016 2016, n. 5072).

In definitiva, dalle superiori argomentazioni, ed in applicazione del principio jura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, (secondo cui il giudice può assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, come rimarcato da Cass. 24/7/2012, n. 12943), discende l’accoglimento del terzo motivo del ricorso nei sensi innanzi descritti.

La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta e la causa rinviata alla Corte d’appello designata in dispositivo, la quale provvederà alla applicazione dei suesposti principi liquidando per il pregiudizio risentito dal lavoratore un’indennità ai sensi del citato L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 e decidendo anche sulle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso e accoglie il terzo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Ancona anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016

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