Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20047 del 06/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 06/10/2016, (ud. 21/04/2016, dep. 06/10/2016), n.20047

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19114-2013 proposto da:

S.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato ROSELLA ZOFREA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO

CAMPANER, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA IMI S.P.A.;

– intimata –

Nonchè da:

BANCA IMI S.P.A., C.F. (OMISSIS) già Banca Caboto S.p.a., in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE DI VILLA GRAZIOLI 15, presso lo studio dell’avvocato

BENEDETTO GARGANI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato STEFANO PESCE, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.R., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 348/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 07/08/2012 R.G.N. 742/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/04/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato PONCINA ALBERTO per delega Avvocato CAMPANFR

CLAUDIO;

udite l’Avvocato CUVIELLO ANTONELLA per delega Avvocato GARGANI

BENEDETTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso

principale, assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

L’attrice dr.ssa S.R. ha svolto attività di promotrice finanziaria in favore di GENER COMIT Distribuzione SIM S.p.a. in forza di contatto di agenzia del 24 luglio 1997, per cui doveva anche provvedere (in via marginale o accessoria) alla promozione di prodotti bancari di COMIT (Banca Commerciale) S.p.a., quale procuratore di GENERCOMIT SIM S.p.a., che a sua volta aveva ricevuto mandato per la distribuzione di tali prodotti da COMIT.

L’istante, quindi, con atto depositato il 4 marzo 2002, convenne in giudizio GENERCOMIT Distribuzione davanti al giudice del lavoro di Rovigo, deducendo di aver esercitato, per giusta causa, recesso immediato senza preavviso dal contratto di agenzia mediante comunicazione del 30 luglio 2001, per cui chiese la condanna di INTESA BCI Italia SIM S.p.a. (già GENERCOMIT SIM) alla somma di 38.040.312 Lire (attuali Euro 19.646,18), di cui Lire 35.340.312 per indennità di risoluzione del rapporto ed indennità sostitutiva di clientela ed altro, nonchè di Lire 41.420.014 a titolo di risarcimento danni.

Resisteva INTESA BCI Italia SIM S.p.a., che aveva incorporato GENERCOMIT SIM S.p.a., deducendo tra l’altro il suo difetto di legittimazione passiva in ordine all’azionata pretesa risarcitoria, spiegando altresì riconvenzionale per la condanna dell’attrice al pagamento di Euro 10.316,84 a titolo d’indennità sostituiva da mancato preavviso di cui all’art. 9, comma 1, lett. b del contratto in data 30 luglio 2001, che richiama l’art. 1750 c.c..

In via subordinata, nel caso In cui fossero stat,riconosciute somme a favore dall’attrice, la convenuta chiese di porre in compensazione le somme di cui la stessa fosse risultata eventualmente creditrice nei riguardi dei contro-crediti vantati da essa resistente, con conseguente condanna della S. al pagamento della differenza.

Il giudice di primo grado, con sentenza del 25 settembre – tre ottobre 2007, ritenuto legittimo il recesso per giusta causa della ricorrente, condannò parte convenuta al pagamento degli importi accertati come da c.t.u., in ragione di Euro 16.082,16 a titolo di indennità di cessazione del rapporto ex art. 1751 c.c., oltre accessori, nonchè alle spese di lite, ivi comprese quelle di c.t.u., di conseguenza rigettando la riconvenzionale, nonchè le altre domande dell’attrice.

BANCA IMI S.p.a. appellò la sentenza di primo grado. L’appellata S. si costituì nel giudizio di secondo grado, tardivamente, e perciò senza alcuna impugnazione incidentale.

La Corte di Appello di VENEZIA con sentenza del 29 maggio – sette agosto 2012, rigettò il primo motivo di gravame dedotto dalla società, confermando quindi la pronuncia impugnata per la parte in cui era stata riconosciuta la giusta causa di recesso della dr.ssa S., ma accolse il secondo motivo di appello per la BANCA, ritenendo l’insussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 1751 c.c. ai fini dell’Indennità di cessazione, con conseguente condanna dell’appellata S. (atteso, peraltro, il difetto di richiesta da parte di costei, in via subordinata, dell’indennità di clientela), alla restituzione alla Banca di quanto percepito in forza della gravata sentenza di primo grado, compensando altresì le spese di lite per entrambi i gradi del giudizio, comprese quelle di c.t.u., accogliendo sul punto il terzo mezzo di impugnazione della Banca.

In particolare, secondo la Corte distrettuale, i documenti prodotti dall’attrice (15 e 21) e le dichiarazioni testimoniali acquisite non provavano che i clienti seguiti dalla S., sia per i prodotti finanziari che assicurativi, fossero clienti nuovi da lei procurati. Inoltre, il documento (21) di parte resistente attestava che i clienti, i cui investimenti erano stati valorizzati a sostegno della domanda, non erano rimasti clienti dell’appellante.

S.R. ricorreva per cassazione avverso la sentenza di appello con due motivi.

La Banca ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso, con contestuale ricorso incidentale, condizionato – subordinato, con tre motivi.

Le parti sono comparse all’udienza pubblica del 21 aprile 2016, peraltro senza depositare memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente lamenta omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la sussistenza dell’apporto di clientela da parte di essa dr.ssa S. e la sussistenza di vantaggi per la resistente dopo la risoluzione del rapporto. Infatti, la Corte di Appello, mentre aveva rigettato il primo motivo gravame, confermando così la legittimità del recesso per giusta causa comunicato dalla medesima S., contraddittoriamente e senza alcuna motivazione escludeva la sussistenza dei presupposti per la liquidazione dell’indennità di cui all’art. 1751 c.c.. L’argomentazione svolta dalla Corte di Appello era, infatti, men che apparente, non avendo illustrato il percorso logico motivazionale che aveva portato all’accoglimento dell’appello avversario, dopo averlo rigettato. La Corte territoriale non aveva spiegato il perchè i documenti citati ed i testimoni escussi non avrebbero provato gli apporti di nuovi clienti da parte della ricorrente e la loro persistenza in capo alla mandante.

La Corte veneziana, poi, aveva omesso di valutare l’ulteriore circostanza: la stessa parte appellante aveva ammesso di aver mantenuto in portafoglio dopo la cessazione del rapporto con la medesima i clienti procurati dalla S., circostanza questa ben evidenziata dal giudice di primo grado nella sua sentenza a pag. 8.

Inoltre, la Corte di appello non aveva preso in considerazione nè valorizzato, nè quindi motivato, la circostanza, invece assai significativa, per cui controparte non aveva adempiuto all’ordine di esibizione degli estratti conto, ovvero di documenti che avrebbero confermato senza ombra di dubbio che i clienti erano stati acquisiti dalla S..

Come secondo motivo parte ricorrente ha dedotto violazione, falsa e applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2 in relazione alla mancata ottemperanza all’ordinanza in data 5 marzo 2004, con la quale era stato ordinato alla resistente di esibire gli estratti conto Indicati a pag. 6 del ricorso Introduttivo del giudizio.

Il documento 15 prodotto dall’attrice era un elenco di clienti procurati dalla stessa. Tale documento, oltre a non essere stato contestato nel suo contenuto da parte resistente, era stato pure confermato dal testimoni escussi. All’udienza del 5 marzo 2004 il teste B. aveva confermato l’acquisizione della nuova clientela ad opera della dr.ssa S. e che la resistente aveva continuato a beneficiare dei vantaggi apportati dall’acquisizione della stessa anche dopo la data del recesso. Del resto, la società confermato che I clienti erano stati portati dalla ricorrente laddove aveva poi aggiunto che dopo il recesso se li sarebbe portati via. Infatti, a pag. 30 dell’atto di appello era stata evidenziata la diminuzione del numero dei clienti della ricorrente rimasti presso GENERCOMIT, all’uopo Ipotizzando che lungi dall’aver visto lesa la sua immagine la S. fosse stata seguita dalla propria clientela presso altri operatori finanziari. Inoltre, il documento 21 conteneva tutti i decadali elaborati e forniti dalla resistente, relativi ai clienti acquisiti dalla S. in favore della società, laddove risultava pure la data degli investimenti. La stessa produzione di controparte (doc. 21 di parte resistente) provava che a distanza di più di un anno dal recesso, la società gestiva ancora un cospicuo patrimonio di clienti acquisiti dalla S..

Pertanto, la motivazione della sentenza di appello era viziata. Per di più, il giudice di primo grado aveva correttamente valutato la documentazione prodotta, le dichiarazioni testimoniali acquisite, nonchè la mancata esibizione da parte convenuta della documentazione di cui all’ordinanza 5 marzo 2004, relativa agli estratti conto, che avrebbero comprovato la raccolta di nuova clientela da parte della S. e la sussistenza di un vantaggio per la resistente anche dopo la risoluzione dei rapporto. Come già accertato nella sentenza di primo grado, dall’istruttoria espletata era emerso con chiarezza che la S. incrementò la clientela della GENER COMIT SIM e che i vantaggi derivati da tale promozione rimasero, almeno in parte, in capo alla preponente. In particolare, dalla documentazione allegata alla relazione del consulente tecnico di parte resistente emergeva che il numero dei clienti del portafoglio della S. alla GENER COMIT ed il volume di affari relativo a costoro diminuirono dopo il 30 luglio 2001 (nel maggio dell’anno 2000 vi erano 119 clienti attivi con un valore di capitale investito di circa tre milioni di Euro, mentre alla fine dell’anno 2002 risultavano 59 clienti con un valore di capitale investito di circa cinquecentomila Euro). Di conseguenza, secondo la ricorrente, la metà dei clienti di essa S. mantenne i contratti con GENER COMIT, per un valore di capitale investito non Indifferente.

La Corte di Appello, per contro, non aveva minimamente preso in considerazione gli elementi di prova desumibili dalla documentazione avversaria, che andavano in senso esattamente contrario rispetto alla decisione poi assunta; nè aveva minimamente motivato riguardo all’inottemperanza al suddetto ordine di esibizione, relativo a documenti nell’esclusiva disponibilità di controparte, che avrebbero confermato l’apporto di nuova clientela da parte della medesima S..

Entrambi i motivi, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione, vanno disattesi In forza delle seguenti considerazioni.

Premesso che in questo giudizio di legittimità ciò che viene in rilievo è soltanto quanto accertato, valutato e deciso dal giudice di merito in sede di gravame, nei limiti di quanto devoluto allo stesso sulla scorta di appositi e specifici motivi (che nella specie non risultano essere stati qui ritualmente allegati da parte ricorrente, che pure ne aveva l’onere ex art. 366 c.p.c., secondo le prescrizioni di carattere formale a pena d’inammissibilità contemplate da tale norma di rito), come già visto in narrativa, circa il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, i giudici dell’appello hanno sufficientemente motivato il proprio convincimento in ordine a fatti di causa mediante argomentato apprezzamento, perciò incensurabile in sede di legittimità. Ed Invero, se da un lato hanno ritenuto infondato l’interposto gravame circa la giusta causa del recesso, comunicato dalla S., donde l’insussistenza del diritto della società alla richiesta indennità sostitutiva del preavviso, del tutto legittimamente, per altro verso, e senza alcuna incoerenza o incompatibilità nell’ambito di tale ragionamento, hanno giudicato infondata la pretesa creditoria della stessa attrice in ordine all’indennità di cui all’art. 1751 c.c., non risultando provati i presupposti della stessa, in base alle varie testimonianze acquisite ed alla stregua dei succitati documenti, da cui in particolare non emergeva che i clienti, i cui investimenti erano stati valorizzati in ricorso a sostegno della domanda, non erano rimasti clienti dell’appellante BANCA I.M.I. S.p.a. (Il che, però avrebbe dovuto determinare la spettanza dell’indennità di clientela, però non richiesto in via subordinata dall’appellata S.).

Dunque, non si tratta di omessa motivazione, nè di motivazione apparente, poichè, sebbene sinteticamente, negli anzidetti termini risulta sufficientemente enunciata la ratio decidendi circa l’insussistenza del diritto, nella specie, all’invocata Indennità di cui all’art. 1751 c.c., laddove per altro verso con entrambi i motivi d’impugnazione parte ricorrente nemmeno ha denunciato una eventuale violazione o falsa applicazione del medesimo citato art. 1751 (secondo cui all’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;… L’indennità non è dovuta: quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto; quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuitili, all’agente, quali età, infermità o malattia, per i quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività; quando, ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede ad un terzo l diritti e gli obblighi che ha In virtù del contratto di agenzia….

Di conseguenza, non è sufficiente soltanto la provvista di nuovi clienti ovvero il sensibile incremento degli affari con quelli vecchi, posto che occorre anche il verificarsi della seconda condizione, ossia che pure all’esito della cessazione del rapporto con l’agente il preponente continui a ricevere ancora sostanziali vantaggi derivanti dai nuovi procurati clienti ovvero dal suddetto incremento di affari con i vecchi. Nè, per come risulta formulata la norma, è sufficiente che il recesso non sia imputabile all’agente, ovvero che non ricorrano le altre preclusioni ostative ivi contemplate, il cui difetto perciò, non basta da solo ad integrare il diritto all’indennità, configurabile invece soltanto allorchè sussistano pure le altre due condizioni, una delle quali – cioè la permanenza di sostanziali vantaggi – nella specie indimostrata secondo il motivato assunto della Corte di Appello).

In altri termini, dunque, in base alla decisione impugnata, non sussisteva il diritto all’indennità rivendicata, soprattutto perchè dal citato documento, n. 21, prodotto dalla resistente, emergeva che i clienti, i cui investimenti erano stati evidenziati con il ricorso introduttivo del giudizio, non erano rimasti presso la società preponente, di guisa che non ricorreva la seconda imprescindibile condizione richiesta dall’art. 1751 c.c.. Orbene, sul punto la motivazione dell’impugnata pronuncia appare intrinsecamente sufficiente e corretta, in punto di fatto e di diritto (tanto più che nella parte motiva della stessa sono riportate anche le argomentazioni svolte con la sentenza di primo grado, favorevole all’attrice, secondo cui in particolare, la S. ebbe ad incrementare la clientela di GENER COMIT SIM e che i vantaggi derivati da tale promozione rimasero, almeno in parte, in capo alla preponente, tenuto conto non solo delle deposizioni testimoniali ivi menzionate, però riguardanti soprattutto i clienti della S., ma anche dei cosiddetti decadali, nonchè della documentazione prodotta dalla resistente, da cui emergeva la riduzione dei clienti e del volume di affari degli stessi dopo il 30 luglio 2001, ma anche che la metà dei clienti della S., senza comunque precisare se vecchi ovvero se procurati da costei, mantennero in essere i contatti con GENER COMIT, per un valore di capitale investito non indifferente, citando altresì polizze di durata pluriennale concluse tramite la Rocco ed il correlato principio affermato da Cass. lav. n. 9317 del 26/06/2002 -secondo cui poichè l’indennità di cessazione del rapporto di agenzia compensa l’agente per l’incremento patrimoniale che la sua attività reca al preponente sviluppando l’avviamento dell’impresa, tale condizione deve ritenersi sussistente, ed è quindi dovuta l’indennità, allorquando i contratti conclusi dall’agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell’avviamento e la protrazione del vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia, sono “in re lima”, mentre resta irrilevante la circostanza che i vantaggi derivanti dai contratti in questione non possano essere ricevuti dal preponente per suo fatto volontario (nella specie, consistente nella deliberazione di porre in liquidazione la società).

Dunque, la motivazione della sentenza qui impugnata ha preso in esame tutte le circostanze di fatto acquisite nel corso del giudizio di primo grado, senza nulla tralasciare, per poi decidere, con motivazione insindacabile in questa sede di legittimità che non ricorressero le condizioni di cui all’art. 1751 c.c. a favore dell’attrice, peraltro onerata di fornire adeguata prova al riguardo ex art. 2697 c.c. (cfr. Gess. lav. n. 14968 del 07/07/2011, secondo cui nel giudizio promosso dall’agente contro la ditta preponente per l’accertamento del suo diritto al pagamento di provvigioni sugli affari conclusi, egli ha l’onere di provare i fatti costitutivi della sua pretesa, ovvero gli affari da lui promossi; è peraltro legittimo l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. delle scritture contabili impartito dal giudice di merito alla medesima preponente, anche con riferimento ai contratti per i quali non è applicabile, per ragioni temporali, il D.Lgs. n. 303 del 1991, art. 2 – che, nel riconoscere il diritto dell’agente ad ottenere un estratto delle scritture contabili, ha fornito un autorevole criterio interpretativo delle norme previgenti – Tale principio, tuttavia, deve essere coordinato con la funzione di strumento istruttorio residuale assegnata dall’ordinamento all’ordine di esibizione, che può pertanto essere utilizzato solo se la prova del fatto non è acquisibile “aliunde” e se l’iniziativa non ha finalità meramente esplorative; la valutazione concernente la ricorrenza di tali presupposti è rimessa al giudice di merito e il mancato esercizio da parte di costui del relativo potere discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità. Parimenti, secondo Cass. 1 civ. n. 15768 del 13/08/2004, Integrando l’inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c., comma 2, non è censurabile in sede di legittimità, neanche per difetto di motivazione, la mancata valorizzazione dell’inosservanza dell’ordine ai fini della decisione di merito.

V. pure Cass. 3 civ. n. 20104 del 18/09/2009, secondo cui in tema di prove, non può supplirsi all’onere di provare i fatti costitutivi della domanda con la richiesta alla controparte di esibizione di documenti, integrando, tra l’altro, l’inosservanza all’ordine di esibizione, quando concesso, un comportamento liberamente valutabile dal giudice di merito, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2).

Nella specie, per contro, la ricorrente a fronte delle anzidette risultanze processuali ha omesso di Impugnare la decisione di appello, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro) in ordine all’applicazione nella specie operata della disciplina dettata dall’art. 1751 c.p.c., sicchè di nulla altro può dolersi al riguardo.

Quanto, poi, al secondo motivo d’impugnazione, così come formulato da parte ricorrente, va ancora osservato che la deduzione della violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. lav. n. 13960 del 19/06/2014 – Conforme Cass. n. 26965 del 2007. V. altresì Cass. 3 civ. n. 15107 del 17/06/2013: mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi beli giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per tassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la censura che investe la valutazione – attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c. – può essere fatta valere ai sensi del medesimo art. 360, n. 5).

Del resto, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cessazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. civ. Sez. 6 – 5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014. In senso analogo v., tra le altre, Cass. 15489 del 2007, nonchè ancora Sez. 6 – 5, n. 5024 del 28/03/2012, secondo la quale il controllo di logicità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa.

Cfr. altresì Cass. n. 25332 del 28/11/2014, secondo cui il giudizio di legittimità è a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cessazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza Impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.

V. pure Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007: il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, Incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione Impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti.

In senso analogo, Cass. lav. n. 3881 del 22/02/2006 riteneva che il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una Inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di tassazione. Conforme Cass. n. 3928 del 2000).

Pertanto, nel richiamare ancora quanto rilevato in ordine al primo motivo di ricorso, nei limiti In cui possa valere anche per il secondo, indipendentemente dalla sua formale intestazione riguardo alla pretesa violazione e falsa applicazione dell’art. 116 codice di rito (evidentemente In relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sebbene non espressamente richiamato, vizio come visto inammissibile), le surriferite argomentazioni della sentenza qui impugnata, del tutto logiche ed esaurienti nel loro percorso, oltre che corrette in punto di diritto, non integrano di certo gli estremi della motivazione omessa ovvero carente o manchevole, nei sensi di cui al citato art. 360, n. 5 codice di rito.

Nei sensi anzidetti, dunque, il ricorso principale va respinto, sicchè resta assorbito quello incidentale, con esame espressamente condizionato e subordinato alla denegata Ipotesi di reiezione del controricorso (inammissibilità o rigetto dell’impugnazione avversaria), finalizzato ad ottenere la riforma della decisione di merito, circa la riconosciuta giusta causa di recesso da parte della dr.ssa S., invece asserltamente illegittimo per difetto dell’occorrente preavviso, con conseguente accoglimento della domanda riconvenzionale a suo tempo spiegata. In effetti, Il ricorso incidentale risulta subordinato all’eventuale accoglimento di quello principale, condizione non verificatasi, stante Il rigetto di quest’ultimo, di modo che non occorre provvedere al riguardo.

Le spese seguono la soccombenza e vanno quindi poste a carico della ricorrente, tenuta quindi come per legge anche al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso principale, dichiarando assorbito l’incidentale. Condanna la ricorrente S. al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi, oltre che alle spese generali in ragione del 15%, nonchè accessori di legge, a favore di parte controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016

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