Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20039 del 06/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 06/10/2016, (ud. 06/07/2016, dep. 06/10/2016), n.20039

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. MATERA Lina – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3498-2012 proposto da:

C.T., (OMISSIS), C.G. (OMISSIS), C.A.

(OMISSIS), CA.GI. (OMISSIS), elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA GIROLAMO DA CARPI 6, presso lo studio dell’avvocato

FRANCESCO ALBERTELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO

SCARANO con procura speciale notarile rep. (OMISSIS);

– ricorrenti –

contro

P.A., + ALTRI OMESSI

– controricorrenti –

e contro

F.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 894/2011 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 27/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2016 dal Consigliere Dott. LINA MATERA;

udito l’Avvocato SCARANO Vincenzo, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto di riportarsi agli scritti depositati in atti e ne chiede

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 19-7-1990 C.A., A.I., S.D., D.S.M., P.A. e F.A. convenivano dinanzi al Tribunale di Salerno C.F., esponendo di essere tutti proprietari condomini di unità immobiliari site in (OMISSIS), e lamentando che il convenuto, in occasione della ristrutturazione di alcuni suoi immobili, aveva chiuso con opere murarie e con una porta a battenti in ferro un porticato comune a tutti i condomini e, inoltre, si era impossessato di un forno e aveva demolito un pozzo comune e dei lavatoi. Tanto premesso, gli attori chiedevano la condanna del convenuto alla demolizione delle opere illegittime e al ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento danni.

Nel costituirsi, il convenuto contestava la fondatezza della domanda, affermando di essere proprietario dei beni in questione e di averli comunque acquisiti per usucapione, e chiedeva in via riconvenzionale la condanna degli attori a tenere liberi gli spazi comuni dalla sosta continua delle auto.

Con sentenza in data 7-2-2006 il Tribunale adito accoglieva la domanda attrice e, per l’effetto, dichiarava illegittime le opere di chiusura del porticato eseguite dal convenuto, condannando quest’ultimo al loro abbattimento e al ripristino dello stato dei luoghi.

Con sentenza in data 27-10-2011 la Corte di Appello di Salerno rigettava il gravame proposto avverso la predetta decisione da C.F., rilevando che non risultava dimostrata la dedotta proprietà dell’area in contestazione in capo al convenuto, nè per titolo nè per usucapione.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso Ca.Gi., C.G., C.A. e C.T., quali eredi di C.F., sulla base di due motivi.

A.I., P.A., Ca.Es., quale avente causa a titolo particolare da P.A., S.C., quale erede di S.D., D.F.R. e D.S.M. (entrambi già costituiti in appello quali successori a titolo particolare di C.A.) hanno resistito con controricorso.

In data 1-7-2016 nell’interesse dei ricorrenti è stato depositato in Cancelleria atto contenente comparsa di costituzione di difensore in sostituzione e memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) I controricorrenti hanno eccepito in limine la nullità della notificazione del ricorso, ai sensi del D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107 per incompetenza dell’Ufficiale Giudiziario addetto all’Ufficio N.E.P. presso il Tribunale di Nocera.

L’eccezione deve essere disattesa, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui l’incompetenza dell’ufficiale giudiziario che provvede alla notifica del ricorso ha carattere relativo ed è, pertanto, sanata retroattivamente per effetto della proposizione del controricorso (tra le più recenti v. Cass. 242-2016 n. 3559; Cass. n. 15372/06, Cass. N. 637/03).

2) Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 1117 e 1362 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè l’erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze documentali e testimoniali, che ove correttamente valutate avrebbero dovuto indurre a ritenere superata la presunzione di condominialità dell’area in contestazione.

Il motivo non è meritevole di accoglimento.

Deve premettersi che, secondo quanto accertato in punto di fatto dal giudice del gravame sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, l’area oggetto di causa era costituita originariamente da un primo androne o androne di portone, da un porticato, da un secondo androne e da un cortile; e che le modifiche realizzate dall’attore consistono nella trasformazione di parte dell’originario porticato e del contiguo “secondo androne”, comuni, nell’attuale unico “secondo androne”, allo stato di uso esclusivo del C..

Ciò posto, si osserva che la Corte di Appello ha esaminato i titoli prodotti dall’attore (e, in particolare, l’atto di compravendita del 5-11-1948), ed escluso che gli stessi valgano a comprovare l’intervenuto acquisto, da parte di C.F. e dei suoi danti causa, della proprietà esclusiva dell’area in contestazione.

La valutazione espressa al riguardo dal giudice del gravame si sottrae al sindacato di questa Corte, essendo sorretta da una motivazione immune da vizi logici e costituendo espressione di apprezzamenti in fatto riservati al giudice di merito.

Come è noto, infatti, in tema di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire 1″iter” logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche. La denuncia di quest’ultima violazione esige una specifica indicazione dei canoni in concreto non osservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, non potendo nessuna delle due censure risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante v. Cass. 13-12-2006 n. 26683; Cass. 23-8-2006 n. 18375; Cass. 2-5-2006 n. 10131). Deve ulteriormente puntualizzarsi che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data del giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, si che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 12-7-2007 n. 15604; Cass. 22-22007 n. 4178; Cass. 14-11- 2003 n. 17248).

Nella specie, il giudice del gravame ha offerto una lettura plausibile e ragionevole del contenuto degli atti negoziali invocati dall’appellante. Orbene, i ricorrenti, nel sostenere che la sentenza impugnata ha erroneamente interpretato i titoli prodotti, censurano sostanzialmente il risultato dell’operazione ermeneutica compiuta dalla Corte territoriale, in contrasto con i rigorosi limiti entro i quali, nel giudizio di legittimità, può essere condotta la verifica della correttezza dell’interpretazione data all’atto negoziale dal giudice di merito.

3) Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli art. 1102 c.c., comma 2, art. 1117 c.c., art. 1139 c.c., art. 116 c.p.c., nonchè l’erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta mancanza di prova della dedotta usucapione.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso; a tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire. (Cass. 23-7-2010 n. 17322).

Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà (Cass. 2-3-1998 n. 2261).

Nella specie, la Corte di Appello, all’esito di una complessiva valutazione delle testimonianze raccolte in corso di causa, ha ritenuto non acquisita la prova della intervenuta usucapione, rilevando da un lato che i testi escussi hanno reso dichiarazioni alquanto generiche, con particolare riferimento all’elemento cronologico, e dall’altro che le dichiarazioni parzialmente favorevoli alla tesi dell’appellante, rese dai testi F. e M., risultano contrastate dalla deposizione della teste E., la quale ha riferito che “…con tutti gli altri occupanti lo stabile facevano le conserve di pomodoro nel cortile comune, dove adesso il sig. C. ha chiuso…”.

La valutazione espressa dal giudice del gravame circa il mancato raggiungimento della prova della dedotta usucapione costituisce espressione di un apprezzamento in fatto che, in quanto sorretto da una motivazione sufficiente e immune da incongruenze logiche, si sottrae al sindacato di questa Corte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-3-2007 n. 5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234; Cass. 16-2-2006 n. 3436; Cass. 20-10- 2005 n. 20322).

Come si è rilevato, d’altro canto, la Corte di Appello non si è limitata a dare atto del contrasto emerso tra le varie deposizioni testimoniali raccolte in corso di causa, ma ha altresì osservato che le testimonianze favorevoli all’appellante apparivano generiche, in particolare con riferimento all’elemento cronologico; e tale valutazione di “genericità” e conseguente inidoneità della prova a far ritenere acquisiti sufficienti elementi a dimostrazione della tesi dell’usucapione, non ha costituito oggetto di specifiche censure da parte dei ricorrenti.

Ciò posto, si rammenta che, secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le rationes decidendi rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa (v. per tutte Cass. Sez. Un. 29-3-2013 n. 7931).

4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dai resistenti nel presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016

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