Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20036 del 24/09/2020

Cassazione civile sez. II, 24/09/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 24/09/2020), n.20036

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21381/2019 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in Milano, via Lamarmora n.

42, presso lo studio dell’avv.to STEFANIA SANTILLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 355/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 24 gennaio 2019, respingeva il ricorso proposto da C.L., cittadino della Nigeria, avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Milano aveva rigettato l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. La Corte d’Appello rilevava che la vicenda narrata dal richiedente era priva di riferimenti fattuali credibili, con riferimenti stereotipati. L’interessato aveva riferito di essere cristiano, di etnia (OMISSIS), e di essere cresciuto con la madre e la sorella di aver lasciato il paese di origine e di temere per la propria vita, essendo fuggito a seguito di episodi di violenza e dell’uccisione dello zio, membro del consiglio del villaggio, per dissidi relativi alla spartizione di una somma di denaro, promessa da una compagnia petrolifera, in cambio del permesso all’estrazione.

La Corte d’Appello evidenziava che il Tribunale di Milano aveva ritenuto insussistenti i presupposti dello status di rifugiato per mancanza di prova in ordine agli elementi costitutivi, riconducibili al fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica. In particolare, il giudice di primo grado aveva considerato che gli scontri avvenuti all’interno del villaggio di origine riguardavano anche altri abitanti facendo venir meno qualsiasi connotazione di persecuzione diretta ai danni del ricorrente, inoltre i medesimi accadimenti alla base dei timori di persecuzione, risalivano al 2008 e dunque ad un periodo di tempo estremamente risalente e non attuale.

La Corte d’appello rigettava l’impugnazione per l’insussistenza degli elementi previsti dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 e dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1. Non vi era alcun nesso nella specie tra gli episodi di violenza denunciati dall’appellante e la sua condizione personale, soprattutto con riferimento alla gestione del denaro promesso da una compagnia petrolifera per ottenere il permesso di estrazione di petrolio. Tale vicenda totalmente sfornita di prova non era idonea nè sufficiente a fondare la domanda, non essendoci elementi tali da ritenere sussistente un timore di persecuzione concreto diretto e personale ai danni dell’appellante per le sue caratteristiche individuali.

Con riferimento alla domanda di protezione internazionale sussidiaria la Corte d’appello evidenziava che non vi era alcun rischio effettivo di subire un grave danno, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, come emergeva anche dalle fonti internazionali di cui alle produzioni documentali versate in atti dalle quali non poteva evincersi alcun elemento concreto per riconoscere i fondati motivi di timore di correre un rischio personale sia in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), sia in relazione alla lett. c.

Quanto invece alla protezione umanitaria di carattere residuale la Corte d’appello evidenziava l’insussistenza delle condizioni di vulnerabilità di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, comma 2. L’appellante non rientrava in alcuna delle categorie ivi menzionate e non aveva allegato alcun elemento idoneo a fondare il riconoscimento della protezione essendosi limitato ad un richiamo generico alla normativa, mentre in relazione all’inserimento nel tessuto sociale del paese aveva solo attestato lo svolgimento di attività lavorativa in un periodo peraltro risalente nel tempo.

3. C.L. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. e).

La censura si incentra sul mancato riconoscimento dello status di rifugiato nonostante l’omicidio dello zio del ricorrente fosse direttamente connesso alla posizione politica assunta da quest’ultimo in seno al consiglio degli anziani del villaggio. Pertanto, il pericolo di subire violenze e persecuzioni derivava dalle minacce dirette subite dal ricorrente da parte di alcune persone del villaggio e in generale dalla situazione sociopolitica del sud della Nigeria caratterizzata da gravi conflitti in merito all’utilizzo delle risorse petrolifere. La persecuzione del ricorrente, dunque, sarebbe legata a ragioni di carattere politico.

2. il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 6, 14, 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame di fatti decisivi la Corte d’appello di Milano avrebbe totalmente omesso di pronunciarsi sull’istanza di protezione avanzata dal ricorrente per il timore di subire un grave danno come definito dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non avendo espresso alcuna motivazione in merito alla domanda di protezione sussidiaria.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27. Violazione dei criteri normativi per la definizione di danno grave.

La censura attiene alla sussistenza dei presupposti per la protezione sussidiaria, negati invece dal provvedimento impugnato senza attivazione dei poteri d’ufficio per la verifica della situazione della Nigeria, caratterizzata da violenti conflitti sociali e politici aventi ad oggetto proprio l’utilizzo dello sfruttamento delle risorse petrolifere.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e art. 10, comma 3, motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima, mancanza o quantomeno apparenza della motivazione.

La censura ha ad oggetto la domanda di protezione umanitaria rigettata sulla base di un’errata interpretazione della normativa e senza specifico riferimento alla situazione del rispetto dei diritti umani in Nigeria in relazione alla condizione personale e familiare del ricorrente. In particolare, sarebbe stata necessaria una valutazione individuale della vita privata e familiare del richiedente comparata alla situazione personale vissuta prima della partenza e a quella conseguente al rimpatrio. Il ricorrente aveva dimostrato di avere avuto esperienze lavorative, peraltro con un contratto che, sebbene a tempo determinato, era stato più volte rinnovato. La situazione personale del ricorrente sarebbe totalmente vanificata in caso di rientro nel territorio nigeriano nel quale non è garantito il rispetto dei diritti umani e nemmeno l’esercizio delle minime libertà.

4.1 I quattro motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili, anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, come interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 7155 del 2017.

Quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente, essa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che la Corte d’Appello di Milano ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

Il Collegio d’appello ha anche motivato sia in relazione alla situazione soggettiva del ricorrente sia in ordine alla situazione complessiva della Nigeria, sicchè è del tutto evidente che non vi è stata alcuna violazione di legge o omessa motivazione nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Ne consegue che la censura si risolve in una richiesta di nuova valutazione dei medesimi fatti.

Il ricorrente, inoltre, deduce genericamente la violazione di norme di legge, avuto riguardo alla sua vicenda personale ed alla situazione generale della Nigeria, attraverso il richiamo alle disposizioni disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta quanto all’insicurezza del Paese di origine ed alla compromissione di diritti fondamentali, difforme da quella accertata nei giudizi di merito.

Come si è detto la Corte d’Appello ha esaminato, richiamando varie fonti di conoscenza, la situazione generale del paese di origine ed in particolare della regione di provenienza del ricorrente, precisando che, in base alle fonti, deve escludersi una situazione di violenza indiscriminata in conflitto armato.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali della Nigeria, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019, a meno che la non credibilità investa il fatto stesso della provenienza da un dato Paese). Invece l’esercizio di poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva, in relazione alle fattispecie previste dal citato art. 14, lett. a) e b), si impone solo se le allegazioni di costui al riguardo siano specifiche e credibili, il che non è nella specie, per quanto già detto.

Inoltre, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018). Il ricorrente lamenta il riferimento a fonti non aggiornate ma non indica altre fonti più recenti che siano idonee a smentire quanto accertato dal Tribunale.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa.

La pronuncia impugnata, dunque, risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

5. In conclusione il ricorso è inammissibile.

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2020

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