Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20034 del 06/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 06/10/2016, (ud. 22/06/2016, dep. 06/10/2016), n.20034

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15103-2012 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DANTE 12,

presso lo studio dell’avvocato FEDERICO RAFTI, rappresentato e

difeso da sè stesso;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE XXI APRILE

12, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO PIZZINO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato TOMMASO MATI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1398/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 03/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2016 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

All’esito di un giudizio articolatosi in cinque fasi (tre gradi di merito, di cui uno di rinvio, e due giudizi di legittimità) l’avv. P.S., difeso dall’avv. M.G., era condannato in via definitiva per il reato truffa aggravata, così derubricata l’originaria imputazione di estorsione.

Per la corresponsione del compenso di L. 5.000.000, relativo all’attività difensiva svolta innanzi al GIP di Pistoia, alla Corte d’appello di Firenze e al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Pistoia, l’avv. M.G. nel 1998 conveniva l’avv. P. innanzi al giudice di pace di Prato.

Nel resistere in giudizio, questi deduceva la responsabilità professionale dell’avv. M. per la scelta difensiva, che sosteneva essere stata processualmente improvvida, di chiedere il giudizio abbreviato, e proponeva domanda riconvenzionale per i danni subiti.

Traslata l’intera causa innanzi al giudice superiore, all’esito del giudizio, cui partecipava la Reale Mutua Assicurazioni s.p.a., chiamata in garanzia dall’avv. M., il Tribunale di Prato accoglieva la domanda principale e rigettava quella riconvenzionale.

L’impugnazione proposta dall’avv. P. era respinta dalla Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 1398/11. Richiamata la nota giurisprudenza di questa Corte Suprema sulla diligenza tecnico-professionale ex art. 1176 c.c. e sulla natura (di mezzi e non di risultato) dell’obbligazione del professionista, la Corte territoriale riteneva che non era provato che l’avv. M. avesse imposto al proprio cliente la scelta del giudizio abbreviato; e che nulla autorizzava a ritenere che l’opzione dibattimentale avrebbe consentito un esito diverso. In particolare, le consulenze tecniche psicografiche, sulla cui efficacia probatoria insisteva l’appellante, sarebbero state del tutto superflue, visto che l’estremo della violenza o della minaccia era stato superato dalla derubricazione del fatto-reato da estorsione a truffa. Nè erano emersi elementi idonei a ritenere che l’esame della parte offesa o l’interrogatorio dell’imputato sarebbero valsi a demolire l’ipotesi accusatoria.

Non senza osservare, infine, che il rito abbreviato aveva consentito una riduzione della pena e che la conferma del mandato difensivo in appello all’avv. M. e una lettera con la quale l’avv. P. lo ringraziava per l’opera prestata, deponevano ulteriormente in senso avverso alla tesi dell’appellante.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avv. P., in base a due motivi.

Resiste con controricorso l’avv. M..

La Reale Mutua Assicurazioni non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo deduce la violazione degli artt. 112. 113, 115 e 116 c.p.c., art. 1176 c.c. e art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene parte ricorrente, per contrastare quanto osservato dalla Corte di merito, che la deposizione dell’avv. Melillo dimostra che fu l’avv. M. ad impone la scelta del rito abbreviato; che sarebbe inconsistente ed illogico ricordare che la richiesta sia stata sottoscritta dall’avv. P., poichè questa, imposta dall’avv. M., “era un atto dovuto che non cambiava affatto l’autore dell’infausta scelta” (così, a pag. 22 del ricorso); che tale scelta era ingiustificata indipendentemente da quello che avrebbe potuto essere l’esito del dibattimento, per cui non scriminerebbe la negligenza e l’imprudenza del difensore; che l’avv. P. non aveva mai chiesto una riduzione della pena, data la sua assoluta innocenza, e che la derubricazione del reato non era stata certo conseguenza della scelta del rito abbreviato; che le consulenza tecniche psicografiche di parte sarebbero valse a provocare un approfondimento istruttorio nel caso di dibattimento; che le prove a carico sono divenute tali solo per effetto della scelta del rito; che una questione di diritto non può denotare negligenza solo se sia pertinente, comprensibile, fondata e mirata ad un risultato utile; che non risponde al vero che l’avv. M. fu incaricato dell’appello, essendo stato officiato invece l’avv. T.S..

2. – Il secondo mezzo deduce la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1176, 1223 e 1460 c.c. e art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Per contrastare l’affermazione della Corte di merito, che ha escluso l’applicabilità nella specie dell’art. 1460 c.c., parte ricorrente invoca la giurisprudenza di legittimità e di merito secondo cui nel caso di violazione degli obblighi di diligenza il professionista risponde anche per colpa lieve.

3. – Il primo motivo è manifestamente inammissibile.

Benchè intitolato come violazione di legge, esso è basato soltanto sulla pretesa di riconsiderare l’intera questione di merito. E nel congiungere tra loro in rapporto di causa ed effetto l’errato apprezzamento dei fatti e la violazione di legge, detta censura si mostra ingiustificatamente incurante di che principi, pacifici e costanti nella giurisprudenza di questa Corte al punto che non è lecito disinteressarsene.

Il primo è che il vizio di violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cosi e per tutte, Cass. n. 16038/13). In altri termini, la violazione di legge è l’effetto di un’errata interpretazione di norme e giammai della valutazione dei fatti, come invece mostra di ritenere parte ricorrente allorchè, esposti i fatti storici, indicate le prove e fornitane la propria valutazione, conclude nel senso che per ciò stesso sarebbe “evidente” la denunciata violazione di legge (v. la conclusione cui la parte perviene a pag. 22 del ricorso).

Il secondo ricorda come il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. ex multis Cass. n. 27197/11).

Non basta, pertanto, contrappone argomentazioni di segno diverso a quelle svolte nella sentenza impugnata, essendo imprescindibile che il ricorrente dimostri l’illogicità della motivazione, che è o non è tale per il suo contenuto intrinseco, non già per il raffronto con una differente valutazione dei fatti che ne formano oggetto.

Nello specifico, non una sola affermazione della sentenza impugnata appare illogica o ad ogni modo di scarsa congruità argomentativa. All’opposto, del tutto illogica è proprio e solo la critica che il ricorrente formula sulla questione fondante dell’intera controversia, lì dove sostiene che la sottoscrizione della richiesta di giudizio abbreviato sarebbe stata “un atto dovuto” a causa della scelta “imposta” dall’avv. M..

Infatti, è atto dovuto quello imposto dalla legge e non dal proprio difensore, che la parte patrocinata non è tenuta a seguire pedissequamente e che può sostituire in qualsiasi momento. La scelta del rito abbreviato, poi, è un atto personalissimo che deve pone in essere l’imputato o il difensore munito di mandato speciale con sottoscrizione autenticata (art. 438 c.p.p., comma 3), salvo la richiesta sia fatta dal difensore alla presenza dell’imputato (in tal caso infatti il difensore funge da semplice interprete o portavoce del suo assistito ed il giudice, stante la presenza dell’imputato, è in grado di verificare la volontarietà dell’atto: v. Cass. penale nn. 27853/01, 8851/97, 2947/95, 1507/92 e 2461/91). Pertanto, posto che l’unica circostanza che il ricorrente non ha dedotto in causa è di essere stato vittima di violenza o minaccia da parte dell’avv. M. o di altri, è illogico parlare di una “imposizione” a suo danno del rito abbreviato. In quanto egli stesso avvocato, il ricorrente è persona attrezzata professionalmente e culturalmente per valutare, e se del caso disattendere, gli imput provenienti dal proprio difensore. Dunque, non è coerente a tale premessa parlare di imposizioni a suoi danni senza spiegare per quale ragione egli le avrebbe subite.

In conclusione, il motivo è inidoneo a dimostrare alcuna violazione di legge e si traduce in una pura e semplice mozione sui fatti intesa a rivalutare il merito della controversia.

4. – Anche il secondo motivo è manifestamente inammissibile, perchè discute di una questione – la responsabilità per colpa lieve del r,:.3fessionista che incorra in una violazione del dovere di diligenza tecnica – assorbita dal fatto che la sentenza impugnata ne ha escluso il presupposto, ossia la violazione di qual si voglia obbligo da parte dell’avv. M..

5. – In conclusione il ricorso va respinto, con conseguente condanna del ricorrente alle spese, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 3.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016

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