Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20031 del 22/09/2010

Cassazione civile sez. trib., 22/09/2010, (ud. 02/07/2010, dep. 22/09/2010), n.20031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24417-2007 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

P.C., anche in qualità di Presidente del C.d.A. da “Via

Lattea S.p.A.”, VIA LATTEA SPA, in persona del Presidente del C.d.A.

e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in

ROMA VIA E. QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato

PETRACCA NICOLA DOMENICO, che li rappresenta e difende, giusta delega

a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 61/2006 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 22/06/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/07/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso in

subordine rigetto.

 

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

La società contribuente sopra indicata ha proposto ricorso avverso l’avviso di accertamento con cui era stato rettificato l’imponibile ai fini IVA per il periodo d’imposta in contestazione, sul presupposto che la società avesse simulato la conclusione di contratti di soccida con diversi allevatori per eludere le limitazioni imposte dalla normativa comunitaria in tema di “quote latte”.

La C.T.P. ha accolto il ricorso, riconoscendo la conformità alla previsione contrattuale del comportamento fattuale della società e la mancata prova da parte dell’ufficio della dedotta simulazione.

La C.T.R., con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto l’appello dell’Agenzia ritenendo, per un verso, applicabile anche nel processo tributario l’art. 2729 c.c., comma 2, secondo cui “le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”, con conseguente inapplicabilità della prova presuntiva nel contenzioso tributario, e, per l’altro, comunque insussistente la prova indiziaria dell’assunta simulazione.

Ricorre per cassazione l’Agenzia con due motivi.

Col primo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 e art. 2729 c.c., censura la ritenuta inammissibilità della prova per presunzioni nel processo tributario, chiedendo affermarsi il diverso consolidato principio e di verificare se l’amministrazione, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, sia legittimato a dedurre la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente e la loro nullità per frode alla legge, inclusa quella tributaria, e se la relativa prova possa essere fornita con ogni mezzo, anche attraverso presunzioni semplici.

Col secondo motivo, la ricorrente deduce omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo, lamentando che la CTR, con motivazione perplessa, illogica e comunque insufficiente, avrebbe tralasciato di considerare gli elementi dedotti dall’ufficio a pag. 7 e 8 dell’atto di appello (trascritti in ricorso) e si sarebbe illogicamente soffermata sulla distinzione tra simulazione e nullità per frode alla legge tributaria, distinzione irrilevante ai fini della decisione relativa agli aspetti tributari dei contratti in questione.

La parte erariale resiste con controricorso, in cui chiede dichiararsi inammissibile e, comunque, rigettarsi il ricorso.

Quanto al primo motivo, rileva la Corte che merita di essere confermato il consolidato orientamento, secondo cui nel processo tributario il ricorso alle presunzioni è ammissibile, essendo positivamente eccettuati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 solo il giuramento e la prova testimoniale; il divieto di ammissione di quest’ultima, infatti, non comporta la conseguente inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2729 c.c., comma 2, – secondo il quale le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale -, poichè questa norma, attesa la natura della materia ed il sistema dei mezzi di indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari, non è applicabile nel contenzioso tributario (Cass. n. 22804/06; 22210/02; 7867/97).

Va, altresì ribadito che l’amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 cod. civ.); la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni (Cass. n. 6959/08; 20816/05).

Tuttavia, la pur manifesta fondatezza, in via di principio, delle censure di diritto avanzate nel primo motivo non è idonea a sovvertire il dscisum dell’impugnata sentenza e si rivela, pertanto, irrilevante. Infatti, la CTR, pur avendo erroneamente preso l’indicata posizione, in ordine all’impiego della prova presuntiva nel processo tributario, si è poi espressa nel senso dell’insussistenza in fatto della prova indiziaria addotta dalla parte erariale.

Di conseguenza, l’affermazione circa l’inammissibilità della prova presuntiva, diversamente da quanto sostiene l’Agenzia ricorrente, non rappresenta un’autonoma ratio decidendi, in quanto decisiva si presenta nella sentenza impugnata proprio e solo l’affermazione dell’inidoneità della prova indiziaria fornita dalla parte erariale, censurata con il secondo motivo sotto il profilo del vizio motivazionale.

Le censure di cui a detto secondo motivo, comunque, si rivelano inammissibili, in quanto non è stato adeguatamente dedotto il vizio motivazionale con esse lamentato.

Infatti, la parte erariale non ha specificato adeguatamente il fatto controverso, nè il vizio omissivo o logico nel quale sarebbe incorso il giudice del merito, nè la diversa soluzione cui, in difetto di detto vizio, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (Cass., 5 civ., n. 1170/04), limitandosi, in sostanza, ad una prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice di merito, di cui si chiede a tale stregua un riesame inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 17369/04; 3267/08).

La motivazione dell’impugnata sentenza, che ha ritenuto comunque insussistente la prova indiziaria dell’assunta simulazione, non è affetta da vizi logici e giuridici circa le decisive questioni dell’insussistenza dei presupposti e del riparto dell’onere probatorio in tema di comportamenti “abusivi”. Come noto, in materia tributaria, integra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. n. 1465/09; v. anche Cass. n. 8772 e 10257/08). Nel caso in esame, la parte erariale, ha opportunamente segnalato la deviazione dallo schema tradizionale dalla soccida, quale contratto associativo agrario (realizzata, nell’ipotesi, principalmente attraverso le pattuizioni attinenti la fase precedente e quella successiva, relativa all’acquisto dal soccidario e poi alla rivendita allo stesso del bestiame, da parte del soccidante, alla scadenza del contratto), perchè il bestiame è solo formalmente apportato dal soccidante; mentre il contributo effettivo che questi conferisce nell’affare è la disponibilità della propria “quota” di produzione di latte. Tuttavia, nulla viene specificamente dedotto nè documentato dall’Agenzia in ordine al vantaggio fiscale che sarebbe derivato alla società “accertata” dalla descritta manipolazione degli schemi contrattuali classici; mentre è pacifico tra le parti che la stessa sia stata adottata al fine economico/amministrativo di giustificare la diversa allocazione della produzione, onde evitare il prelievo comunitario (gravante sul produttore/soccidario, in caso di sforamento della sua “quota”). La parte erariale ha esclusivamente dedotto la scarsa economicità dell’operazione per il soccidante e l’inadeguata prova dell’inerenza dei costi verso il soccidario dedotti (la questione delle operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti viene solo evocata, ma non ne viene spiegata la pretesa illegittimità; quella dell’assoggettamento della cessione delle quote latte all’aliquota del 6%, D.P.R. n. 63 del 1972, ex art. 34 anzichè a quella ordinaria, viene solo prospettata nella parte in fatto del ricorso, senza specificare se e come sia stata proposta nei pregressi gradi, nè vi è censura di omessa pronuncia sul punto), ma si tratta di elementi che trovano fondamento nelle pattuizioni contrattuali, la cui abusività ai fini fiscali non è stata, come si è detto, specificamente dedotta nè asseverata in forza di altri elementi, nè corroborata dall’accertamento di vantaggi fiscali abusivi da parte degli allevatori/soccidari.

Ricorrono giusti motivi, tra cui la novità della questione e la peculiarità dei suoi profili, per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

PQM

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2010

 

 

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