Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20029 del 24/09/2020

Cassazione civile sez. II, 24/09/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 24/09/2020), n.20029

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19484/2019 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in Milano, via Lamarmora

n. 42, presso lo studio dell’avv.to STEFANIA SANTILLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 14/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Milano, con decreto pubblicato il 14 maggio 2019, respingeva il ricorso proposto da C.S., cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. Il Tribunale rigettava la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato atteso che il racconto del richiedente non era credibile. La narrazione circa i motivi che lo avevano costretto all’espatrio era, infatti, troppo generica, priva di qualsivoglia dettaglio o circostanza che potesse dare un minimo di valore al racconto. Egli aveva riferito di essere di etnia (OMISSIS) e di religione musulmana, di essere il secondo di tre fratelli, di avere una sorella maggiore che viveva in (OMISSIS) con il marito, mentre il fratello minore era deceduto dopo la sua partenza dal paese. I genitori vivevano nel suo villaggio d’origine ed erano entrambi malati. Il richiedente era partito dal (OMISSIS) all’età di (OMISSIS) anni ed era arrivato in Italia nell'(OMISSIS) dopo aver trascorso due anni in Algeria e un anno ed 8 mesi in Libia. Quanto ai motivi della fuga, raccontava di essere stato assalito nel 2009 da due banditi armati mentre portava al pascolo delle mucche e di essere stato derubato del bestiame dopo essere stato legato a un albero, di essere stato liberato da un signore e di essere stato minacciato dal padre che voleva ucciderlo se non avesse ritrovato le mucche. Il richiedente riferiva di essere quindi scappato nella città di (OMISSIS) e di aver vissuto (all’età di (OMISSIS) anni) sotto un ponte per circa un anno e per altri due a casa di un amico che lo aveva ospitato, di aver lavorato presso un orto durante la permanenza a (OMISSIS) e di aver deciso di fuggire quando nel (OMISSIS) si erano verificati degli scontri in un vicino campo militare e di essere ancora in contatto con i genitori dai quali tuttavia temeva di essere ucciso in caso di rientro in Mali.

A parere del Tribunale la vicenda narrata dal richiedente non era meritevole di tutela. Anche sotto il profilo della credibilità il racconto narrato appariva inverosimile sia in relazione al motivo per il quale il richiedente aveva lasciato il proprio paese sia per le numerose contraddizioni del racconto. L’inattendibilità delle dichiarazioni rendeva di per sè inaccoglibile l’istanza di protezione non sussistendo elementi sui quali concretamente basare una decisione. In ogni caso, a prescindere dalla credibilità del racconto, mancavano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato. Il richiedente, infatti, temeva di essere ucciso dai genitori per motivi di ordine economico per il furto delle mucche. Non vi era, quindi, un caso di persecuzione ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, in quanto la vicenda riguardava conflitti familiari privati.

Non ricorrevano neanche i presupposti per la protezione sussidiaria non sussistendo il rischio di subire un danno grave in quanto dai numerosi siti consultati il Mali non era in una situazione di violenza indiscriminata nell’ambito di un conflitto armato interno e internazionale

Infine, anche in base alla vicenda narrata, doveva escludersi la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dei diritti alla protezione per motivi umanitari. Non erano stati allegati fatti diversi da quelli posti in generale a fondamento della domanda di protezione umanitaria già esaminata, e i rischi connessi al ritorno nel territorio di origine, anche per la condizione personale del ricorrente, non erano tali da determinare l’accoglimento della protezione residuale. Non vi era un effettivo radicamento in Italia, il contratto di lavoro non era motivo sufficiente di riconoscimento della protezione, il racconto del richiedente non era credibile e non vi era una situazione di grave violazione individuale.

3. C.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,5,7 e 8, che definiscono gli atti persecutori e i soggetti individuabili come agenti della persecuzione, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 2, in relazione agli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale; violazione della convenzione di Ginevra e delle linee guida del UNHCR nonchè dei parametri previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27 e degli artt. 2 e 3 CEDU.

La censura si incentra sul rigetto della domanda di protezione internazionale per la non credibilità del racconto del ricorrente che, invece, era coerente e del tutto verosimile, mentre il giudizio del Tribunale sarebbe fondato su di una valutazione personale e, peraltro, i fatti narrati rientravano nei motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8. Inoltre, il giudice si sarebbe sottratto all’obbligo di cooperazione nell’accertamento delle condizioni che legittimo l’accoglimento della domanda acquisendo anche d’ufficio le informazioni necessarie.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e art. 14, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente escluso che in Mali vi era una situazione di instabilità tale da comportare minaccia grave alla vita alla persona del richiedente.

A parere ricorrente alla luce delle informazioni precise ed aggiornate circa la situazione del paese di origine sussistevano le condizioni richieste ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 14, lett. c), peraltro il Tribunale avrebbe omesso di effettuare una puntuale verifica d’ufficio della situazione del Mali e della sua zona del sud, in particolare con riferimento alla capacità delle autorità statali di fronteggiare la violenza diffusa individuale e collettiva. In tal senso il ricorrente cita alcune fonti internazionali.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e art. 10, comma 3, motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità, omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima. Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7, 14, 16, 17; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10,32; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 10 Cost.; omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione ai presupposti della protezione umanitaria, mancanza o quantomeno apparenza della motivazione nullità della sentenza per violazione di varie disposizioni, art. 112,132 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6.

La censura attiene all’erronea valutazione del Tribunale circa la mancanza dei presupposti per ritenere sussistente la condizione di vulnerabilità anche a seguito della necessaria comparazione tra la situazione personale prima della partenza e quella cui si troverebbe esposto il ricorrente in conseguenza del rimpatrio.

2.1. I tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, come interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 7155 del 2017.

Quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente, essa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che il Tribunale di Milano ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

Il Tribunale ha anche motivato sia in relazione alla situazione soggettiva del ricorrente sia in ordine alla situazione complessiva del Mali, sicchè è del tutto evidente che non vi è stata alcuna violazione di legge o omessa motivazione nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Ne consegue che la censura si risolve in una richiesta di nuova valutazione dei medesimi fatti.

Il ricorrente, inoltre, deduce genericamente la violazione di norme di legge, avuto riguardo alla sua vicenda personale ed alla situazione generale del Mali, attraverso il richiamo alle disposizioni disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta quanto all’insicurezza del Paese di origine ed alla compromissione di diritti fondamentali, difforme da quella accertata nei giudizi di merito.

Come si è detto il Tribunale ha esaminato, richiamando varie fonti di conoscenza, la situazione generale del paese di origine ed in particolare della regione di provenienza del ricorrente, precisando che, in base alle fonti, deve escludersi una situazione di violenza indiscriminata in conflitto armato.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali del Mali, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019, a meno che la non credibilità investa il fatto stesso della provenienza da un dato Paese). Invece l’esercizio di poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva, in relazione alle fattispecie previste dal citato art. 14, lett. a) e b), si impone solo se le allegazioni di costui al riguardo siano specifiche e credibili, il che non è nella specie, per quanto già detto.

Inoltre, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018). Il ricorrente lamenta il riferimento a fonti non aggiornate ma non indica altre fonti più recenti che siano idonee a smentire quanto accertato dal Tribunale.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa.

La pronuncia impugnata, dunque, risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

5. In conclusione il ricorso è inammissibile. Nulla sulle spese non avendo svolto attività difensiva il Ministero intimato.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2020

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