Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20028 del 11/08/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 11/08/2017, (ud. 02/05/2017, dep.11/08/2017),  n. 20028

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25798/2012 R.G. proposto da:

N.C.Z. COSTRUZIONI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, N.M., rappresentata e difesa, per procura speciale

in calce al ricorso, dall’avv. Claudio Lucisano, ed elettivamente

domiciliata presso lo studio legale del predetto difensore, in Roma,

alla via Crescenzio, n. 91;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 20/28/12, depositata in data 23 marzo 2012.

Udita la relazione svolta all’udienza pubblica del 19 aprile 2017 dal

Cons. Dott. Luciotti Lucio;

udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’avv. Claudio Lucisano, per la ricorrente;

udito l’avv. Caselli Giancarlo, per l’Avvocatura Generale dello

Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 20 del 23 marzo 2012 la Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello proposto dalla N.C.Z. Costruzioni s.r.l. avverso la sentenza di primo grado che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto dalla predetta società avverso l’avviso di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP con cui l’Agenzia delle entrate, sulla ritenuta sussistenza di gravi incongruenze dei dati contabili, relativamente all’anno di imposta 2002 aveva rideterminato induttivamente il reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

2. I giudici di appello ritenevano adeguatamente motivato l’avviso di accertamento in ordine alla rideterminazione del reddito di impresa, emergendo da presunzioni qualificate l’esistenza di attività non dichiarate, non ritenendo attendibile e veritiera “la cronica scarsa redditività e antieconomicità emergente dal bilancio della ricorrente, per palese incongruenza tra i considerevoli costi imputati a conto economico ed i ricavi dichiarati”.

3. Avverso tale statuizione la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, variamente articolati, cui replica l’intimata con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo articolato motivo di ricorso, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata applicazione” degli artt. 2697,2709 e 2710 c.c., art. 115 c.p.c., D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 92 e 93 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

2. Sotto un primo profilo la ricorrente deduce una “omessa pronuncia (pronuncia apparente)” laddove la CTR ha giustificato la fondatezza della pretesa tributaria affermando che la stessa “risulta fondata su presunzioni semplici, ma gravi, precise e concordanti di esistenza di attività non dichiarate, come previsto dall’art. 39″, senza però esprimersi sulle giustificazioni fornite dalla società ricorrente, sia in primo che in secondo grado, in ordine all’assenza di prova del fatto dedotto dall’Agenzia delle entrate circa l'”ottimo avviamento” che l’azienda avrebbe avuto, così da far presumere il conseguimento di elevate percentuali di redditività, e con ragionamento illogico perchè riferito ad azienda costituita da poco più di tre anni e mezzo, che comunque “ha avuto un margine di ricarico applicato al costo della produzione pari a + 15 per cento” – e senza considerare le concrete condizioni di operatività dell’azienda.

2.1. Il motivo è inammissibile sotto diversi profili, il primo dei quali va rinvenuto nell’erronea indicazione del parametro normativo del sindacato di legittimità.

2.2. Al riguardo deve infatti osservarsi che la ricorrente, così come è dato chiaramente desumere dal contenuto della censura mossa alla sentenza impugnata, lamenta la sussistenza sub specie di una “pronuncia apparente” che, integrando la violazione dell’obbligo imposto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, determina la nullità della stessa perchè affetta da error in procedendo (da ultimo, Cass., Sez. U., n. 22232 del 2016), censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella specie non dedotto dalla ricorrente che ha, invece, inammissibilmente (Cass. 17.9.2013, n. 21165) fatto valere i diversi vizi di cui ai nn. 3 e 5 del comma 1 della citata disposizione, senza neanche mai far riferimento alla nullità delle decisione derivante dalla violazione della sopra indicata norma processuale.

2.3. Ove riguardato sotto il profilo del vizio motivazionale, la censura non si sottrae comunque al rilievo di inammissibilità per una duplice ragione. La prima da ravvisarsi nel difetto di specificità ed autosufficienza del ricorso, avendo la ricorrente omesso di trascrivere la parte dell’avviso di accertamento in cui l’amministrazione finanziaria aveva dedotto – ma, secondo la prospettazione di parte ricorrente, senza dimostrarlo – che la società contribuente aveva avuto un “ottimo avviamento”. La seconda da ravvisarsi, invece, nella non decisività delle argomentazioni svolte a sostegno della insussistenza sub specie di attività non dichiarate, non essendo nè chiare, nè minimamente spiegate dalla ricorrente, le ragioni per le quali, escludendo una situazione di “ottimo avviamento” della società e considerando invece le condizioni di operatività dell’azienda, solo riassuntivamente indicate nel motivo (e, quindi, anche in questo caso in spregio al predetto principio di autosufficienza), si sarebbe dovuti pervenire a conclusione diversa dall’accertata incongruenza dei fatti contabili e del relativo reddito di impresa.

3. Con il secondo profilo del primo motivo di impugnazione la ricorrente censura l’affermazione dei giudici di appello di inattendibilità della contabilità societaria e di non veridicità della “cronica redditività e antieconomicità emergente dal bilancio della ricorrente per palese incongruenza tra i considerevoli costi imputati a conto economico ed i ricavi dichiarati”, sostenendo che non sarebbe sufficiente la rilevata “scarsa redditività ed antieconomicità” dell’attività societaria per poter rettificare il reddito di impresa, che i ricavi risultano congrui con gli studi di settore ed infine che l’amministrazione finanziaria aveva effettuato un controllo analitico delle scritture contabili trovandole regolari, senza alcuna indicazione di costi fittizi o di “omissione di ricavi” (fatta eccezione per una imputazione di ricavi per Euro 239.080,00 in un esercizio non di competenza), cosicchè, “l’accertamento induttivo non poteva essere assolutamente effettuato”.

3.1. Il motivo è palesemente inammissibile in quanto la ricorrente maschera, sotto il profilo della violazione di legge, censure che avrebbe dovuto dedurre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Invero, nello sviluppo argomentativo della complessa censura, non si coglie alcuna allegazione esplicativa di come le norme indicate in rubrica sarebbero state violate, nulla dicendosi in ordine all’inesatta o errata individuazione od interpretazione delle predette disposizioni (o delle fattispecie astratte in esse considerate) che deve essere applicata al rapporto come esattamene cognito nei suoi elementi fattuali – che integra un “errore di diritto” nell’attività di giudizio (v., in motivazione, Cass. n. 26110 del 2015) – rinvenendosi, invece, la deduzione che i giudici d’appello avrebbero erroneamente interpretato i fatti decisivi per il giudizio, emergenti dagli atti di causa – quali: la congruità degli studi di settore, la regolarità della tenuta delle scritture contabili, dove le “presunte irregolarità non esistono, ovvero non sono così gravi” -, che è vizio di contenuto completamento diverso, ovvero vizio di motivazione, nella specie non dedotto avendo la ricorrente espressamente specificato di voler dedurre il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (nell’incipit del mezzo in esame afferma che “La sentenza va cassata per violazione di legge”).

3.2. Così come formulata la censura incorre, quindi, nel profilo di inammissibilità conseguente all’ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità, ripetutamente affermata da questa Corte, in considerazione del diverso oggetto dell’attività del Giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta, nel primo caso, ed attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie, nel secondo caso (cfr. Cass. n. 6224 del 2002, n. 15499 del 2004, n. 10295 del 2007, n. 16698 del 2010, n. 10385 del 2005, n. 9185 del 2011, n. 8315 del 2013, n. 195 del 2016).

3.3. Peraltro, il motivo è anche palesemente infondato posto che i giudici di appello hanno fatto buon governo dei principi più volte espressi da questa Corte in materia di accertamento induttivo del reddito d’impresa secondo cui “la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), (metodo di accertamento applicabile per estensione analogica anche in materia IVA, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3: Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3197 del 11/02/2013, in motivazione), qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente: in tali casi, pertanto, è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purchè gravi, precise e concordanti -, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr., Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n, 7871 del 18/05/2012) e ciò ripetessi indipendentemente dalla riscontrata regolarità formale delle scritture contabili, atteso che la grave incogruità o abnormità del dato economico esposto in dichiarazione priva le stesse scritture contabili di qualsiasi attendibilità (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20201 del 24/09/2010; id. Sez, 5, Sentenza n. 26167 del 06/12/2011 secondo cui in tema di IVA, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54; id. Sez. 5, Sentenza n. 3197 del 11/02/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 6929 del 20/03/2013; id. Sez. 5, Sentenze. n. 14941 del 14/06/2013)” (cfr. Cass. n. 26508 del 2014; conf. Cass. n. 26026 del 2015).

3.4. Sulla scorta di tale condiviso principio giurisprudenziale, la congruità dei ricavi dichiarati dalla società contribuente allo studio di settore ad essa applicabile ed alla regolarità – invero solo formale – delle scritture contabili, sono circostanze che, anche a voler glissare sul difetto di autosufficienza della prima di dette deduzioni (non risultando specificato nel motivo in esame il luogo ed il modo di deduzione di tale circostanza) sono del tutto irrilevanti. La CTR, invece, ha dato conto del fatto che l’accertamento svolto dall’Ufficio, al di là della regolarità formale dei dati contabili, aveva evidenziato una “cronica” (in quanto rilevata per tutti gli anni di operatività della società) “scarsa redditività ed antieconomicità”, stante la “palese incongruenza tra i considerevoli costi imputati a conto economico ed i ricavi dichiarati”, che sono circostanze idonee, per quanto sopra detto, a giustificare, dunque, pienamente il ricorso al metodo induttivo.

4. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata applicazione” de D.P.R. n. 633 del 1972, art. 42, comma 1, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (già art. 75), comma 1, artt. 92 e 93, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 112 c.p.c..

5. Sotto un primo profilo la ricorrente censura la sentenza impugnata per “omessa pronuncia (pronuncia apparente)” sulle censure relative:

a) “al difetto di motivazione circa gli ammontari delle rimanenze relative al magazzino”, avendo l’amministrazione finanziaria affermato che esistevano rimanenze finali al 31 dicembre 2002 e fatto riferimenti normativi inappropriati, senza precisare la norma violata e senza considerare che nessuna di quelle richiamate erano applicabili al caso di specie;

b) “all’infondatezza dell’ammontare del valore di magazzino per essere ridotto al solo materiale di consumo, non costruendo parte ricorrente edifici in proprio”;

c) “all’ammontare forfetario quando lo stesso risulta essere stato identificato non con una serie (ad esempio, 6.000 Euro), ma con tanto di decine ed addirittura decimali (6.092,70 Euro)”;

d) “al difetto di motivazione per essersi limitato l’ente impositore relativamente alla frase “almeno in parte a fine anno 2002, per un valore complessivo, netto IVA, Euro 239.080,00″, quando deve essere delimitata questa parte, senza che possano essere ripresi in toto gli ammontari delle fatture”;

e) “all’infondatezza del rilievo in quanto delle varie fatture delle tabelle avrebbe dovuto dimostrare che quei lavori fossero stati svolti nel 2002 al fine di poter spostare la competenza”.

5.1. Il motivo incorre nel vizio di inammissibilità per le ragioni già esposte in relazione al primo motivo di ricorso (precedenti punti 2.1 e 2.2.), specialmente considerandosi che in relazione alla violazione dell’art. 112 c.p.c., pure dedotta in rubrica, la censura non si sottrae al difetto di autosufficienza, sia perchè la ricorrente ha del tutto omesso di indicare se le questioni, che sostiene essere state pretermesse dai giudici di appello – invero, genericamente indicate nel motivo, in spregio al principio di specificità dello stesso – fossero state dedotte come specifici motivi di appello tempestivamente proposti in quel grado di giudizio, sia perchè, attenendo l’omessa pronuncia al vizio di motivazione dell’atto impositivo, la ricorrente ha trascurato del tutto di trascriverne il contenuto nel ricorso.

6. Sotto un secondo profilo del secondo mezzo di impugnazione la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge, sotto ulteriori quattro profili.

6.1. Con il primo profilo censura la sentenza d’appello laddove i giudici di merito hanno ritenuto che l’analisi delle fatture emesse nel primo bimestre del 2003, in cui risultavano pagamenti in acconto (indicati come “2 ACC.” e “2^ SAL”), smentisse la circostanza dedotta dalla società contribuente di “aver svolto solo ed unicamente attività di ristrutturazione di immobili con liquidazione dei corrispettivi a titolo di definitivo”, deducendo anche il vizio di extrapetizione laddove la CTR, ma non l’amministrazione finanziaria, ha implicitamente accertato che mancassero nel 2002 ricavi per complessivi Euro 239.080,00 imputati all’esercizio di competenza dell’anno successivo.

6.2. Con il secondo profilo la ricorrente lamenta che la CTR ha erroneamente assimilato il momento impositivo ai fini IVA con quello ai fini delle imposte dirette, sostenendo che “ai fini IVA la fatturazione è al momento dell’incasso (…), mentre ai fini delle imposte dirette è al momento in cui l’operazione (prestazione di servizio) è stata effettivamente realizzata”.

6.3. Con il terzo profilo la ricorrente censura la statuizione impugnata sostenendo che i giudici di appello avevano affrettatamente letto “la costituzione di parte appellata”.

6.4. Nella parte conclusiva del motivo in esame la ricorrente deduce anche il vizio di extrapetizione (quarto profilo) per avere la CTR implicitamente ammesso la mancata contabilizzazione di ricavi per 239.080,99 Euro nell’anno 2002, che invece l’amministrazione finanziaria non aveva imputato alla società contribuente per tale anno di imposta.

7. Tutti i sunteggiati profili di censura sono inammissibili per erronea deduzione del vizio di legittimità prospettato, richiamandosi sul punto le considerazioni svolte in precedenza (punti 3.1. e 3.2.) e rilevandosi che in nessuna delle predette censure è specificata la disposizione legislativa che la ricorrente deduce essere stata erroneamente interpretata dai giudici di merito.

7.1. Con riferimento, poi, al primo profilo sopra indicato (punto 6.1) deve, altresì, osservarsi che la circostanza che i ricavi venissero liquidati in bilancio con la dicitura “fatture da emettere”, emergerebbe dalla nota integrativa al bilancio riprodotta nèl motivo in disamina – mediante assemblaggio con il metodo del c.d. “copia incolla” – ma, oltre al difetto di specificità del motivo di ricorso in esame, non avendo la ricorrente nè specificato nè in altro modo dimostrato se tra i crediti indicati nella predetta nota siano ricompresi quelli relativi alle fatture emesse nel bimestre 2003, cui ha fatto riferimento la CTR, il mezzo di impugnazione incorre nella violazione del principio di autosufficienza, avendo la ricorrente omesso di indicare il luogo ed il modo di produzione di detta nota integrativa nel giudizio di merito.

7.2. Il secondo profilo di violazione di legge dedotto con il motivo in esame, con cui la ricorrente lamenta che la CTR abbia erroneamente assimilato il momento impositivo ai fini IVA con quello ai fini delle imposte dirette, è anche esso palesemente infondato, atteso che i giudici di appello non hanno argomentato alcunchè sulle modalità di fatturazione – che deve ritenersi regolarmente effettuata dalla società contribuente – ma solo ed esclusivamente sulla non corretta imputazione delle somme incassate in un determinato esercizio di competenza piuttosto che in un altro.

7.3. Con riferimento al terzo profilo deve osservarsi che la ricorrente prospetta una lettura delle risultanze processuali – nella specie del prospetto delle fatture emesse nel primo bimestre dell’anno 2003 – diversa da quella che ne ha fatto la commissione di appello, che all’evidenza integra vizio motivazionale nella specie non dedotto, avendo la ricorrente, anche in questo caso (v. precedente punto 3.1.), espressamente specificato di voler dedurre il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (anche nell’incipit del mezzo in esame si legge che “La sentenza va cassata per violazione di legge”).

7.4. Quanto al dedotto vizio di extrapetizione (quarto profilo), deve anche osservarsi che l’erronea imputazione dei ricavi di cui alle fatture emesse nel primo bimestre del 2003 viene assunto come elemento di non attendibilità delle scritture contabili, dacchè è del tutto irrilevante che l’amministrazione finanziaria non abbia di poi imputato il relativo ammontare all’anno di competenza effettivo.

8. Con il terzo Motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata applicazione” del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 42, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 112 c.p.c..

8.1. Anche in relazione a tale motivo valgono le medesime considerazioni svolte in relazione al primo e secondo motivo di ricorso in ordine all’inammissibilità della censura per vizio di sussunzione ed autosufficienza, che deve estendersi alla censura di violazione e “mancata applicazione” della L. 146 del 1998, art. 10,comma 1, D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), che la ricorrente indica nella parte finale del motivo in esame (pag. 43 del ricorso) senza alcuna argomentazione di supporto.

9. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato per inammissibilità dei motivi di ricorso e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo.

PQM

 

dichiara inammissibili i motivi di ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 2 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2017

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