Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20021 del 22/09/2010

Cassazione civile sez. trib., 22/09/2010, (ud. 17/06/2010, dep. 22/09/2010), n.20021

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

LEASIMPRESA s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Monti Parioli n. 48,

presso l’avv. Marini Giuseppe, che la rappresenta e difende giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 41/29/05, depositata il 10 giugno 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17

giugno 2010 dal Relatore Cons. Biagio Virgilio;

udito l’Avvocato dello Stato Paolo Gentili per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. DE

NUNZIO Wladimiro, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. La Leasimpresa s.p.a. propone ricorso per cassazione, sulla base di sei motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto indicata in epigrafe, con la quale, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, è stata affermata la legittimità dell’avviso di liquidazione con cui era stato richiesto alla contribuente il pagamento dell’imposta di registro in relazione all’atto di acquisto di un immobile di interesse storico-artistico sito in Venezia, nel quale le parti avevano dichiarato di volersi avvalere delle disposizioni di cui al D.L. n. 70 del 1988, art. 12 (convertito nella L. n. 154 del 1988) ed avevano convenuto il prezzo di L. 630.000.000.

In particolare, il giudice a quo ha ritenuto, da un lato, che l’Ufficio avesse correttamente fatto riferimento, per la determinazione della base imponibile, al prezzo convenuto dalle parti e non al valore catastale, o “automatico”, di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4; e, dall’altro, che la disciplina dettata, per gli immobili di interesse storico-artistico, dalla L. n. 413 del 1991, art. 11 non fosse applicabile al di fuori della materia delle imposte dirette.

2. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, mentre non si è costituito il Ministero dell’economia e delle finanze.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va, preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità del ricorso, per difetto di legittimazione, nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, il quale non è stato parte del giudizio di merito, instaurato dopo il 1 gennaio 2001 nei soli confronti dell’Agenzia delle entrate.

2. Con il primo motivo, la ricorrente, denunciando violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 43 e 51 e art. 52, comma 4, censura la prima delle suddette rationes decidendi della sentenza impugnata:

sostiene, in particolare, che, per gli atti di compravendita di immobili iscritti in catasto con attribuzione di rendita, ciò che rileva, ai fini della determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, è il valore del bene dichiarato dalle parti nell’atto, e non già il corrispettivo pattuito (che vale soltanto per gli atti ad esecuzione differita nel tempo), e la base imponibile è rappresentata dal valore convenzionale dell’immobile, cioè dal valore desumibile dalla rendita catastale attribuita dall’amministrazione in sede di classamento; d’altra parte, conclude la ricorrente, le rendite catastali attualmente attribuite agli immobili, come si evince dal D.L. n. 16 del 1993, art. 2 (convertito nella L. n. 75 del 1993), sono espressione del valore di mercato degli stessi, per cui il procedimento di “valutazione catastale” conduce al risultato dell’individuazione del valore venale del bene.

Il motivo non è fondato.

Costituisce, infatti, orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale, in tema di imposta di registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4, non attribuisce al contribuente il diritto di ottenere, in ogni caso, la determinazione della base imponibile tramite il meccanismo di calcolo di cui al combinato disposto del citato D.P.R., artt. 51 e 52 atteso che la norma sopra citata non ha inteso individuare, per gli immobili, una base imponibile diversa dal valore venale del bene, ma ha introdotto, per converso – al fine di ridurre le controversie tra Amministrazione finanziaria e contribuenti, una mera preclusione al potere di accertamento dell’Amministrazione stessa qualora nell’atto venga indicato almeno un valore non inferiore a quello ottenibile con il procedimento di valutazione cosiddetta “automatica”: ne consegue che, se il contribuente indichi un valore superiore, non può poi legittimamente richiedere che l’imposta venga commisurata al valore individuabile attraverso il procedimento automatico predetto (in termini, Cass. nn. 12448 del 2004, 3573 e 6796 del 2009; cfr., già, Cass. nn. 7504 del 1996 e 15080 del 2001). Si è altresì precisato che l’accertamento del “valore venale in comune commercio”, cui fa riferimento il citato D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 2, non può prescindere dal prezzo effettivo pattuito dalle parti (se dichiarato nell’atto) – il quale rappresenta, ordinariamente e per sua natura, il valore venale del bene, che non è altro che quanto può ricavarsi dalla sua vendita in condizioni di normalità -, non potendo riconoscersi alle parti il potere di indicare un diverso valore ai soli fini fiscali (che prescinda dal prezzo, pur esso dichiarato), anche perchè il valore cosiddetto catastale o automatico, determinato ex art. 52, comma 4, del medesimo D.P.R., non costituisce la base imponibile, ma pone soltanto un limite al potere accertativo dell’Ufficio (Cass. nn. 18150 del 2004, 20689 e 21310 del 2008).

3. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4, e della L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, in relazione alla seconda ratio decidendi della sentenza impugnata, e si sostiene la tesi secondo la quale, per gli immobili, come quello oggetto di controversia, riconosciuti di interesse storico o artistico ai sensi della L. n. 1089 del 1939, la base imponibile è sempre rappresentata – anche, quindi, ai fini dell’imposta di registro – dalla rendita catastale di minore importo tra quelle previste per le abitazioni della zona censuaria in cui l’immobile è collocato, in virtù della L. n. 413 del 1991, cit.

art. 11, comma 2, norma ritenuta di carattere generale in tema di determinazione dell’imponibile degli immobili di interesse culturale.

Il motivo è infondato.

Secondo, infatti, la costante giurisprudenza di questa Corte, dalla quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, in tema di regime fiscale degli edifici riconosciuti di interesse storico o artistico ai sensi della L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 3 la particolare disciplina per la determinazione del reddito prevista dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11, comma 2, trova applicazione solo nell’ambito della materia per la quale è stata dettata, e cioè per le imposte sui redditi, considerato anche la sua natura derogatoria rispetto al principio generale, stabilito dall’art. 53 Cost., di assoggettamento ai tributi delle manifestazioni della capacità contributiva: essa non può pertanto applicarsi ai fini della determinazione dell’imposta di registro in occasione del trasferimento di tali beni, della cui assoluta peculiarità il legislatore ha comunque tenuto conto, alla luce dell’art. 9 Cost., prevedendo, all’art. 1, comma 3, della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 24 aprile 1986, n. 131, un’aliquota agevolata (e prevedendo analogo beneficio per il venditore di tali immobili ai fini dell’INVIM al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, art. 25, comma 4) (Cass. nn. 17152 del 2004, 343 del 2006; in ordine all’INVIM, cfr. Cass. n. 20083 del 2008).

4. Con il terzo ed il quarto motivo, la ricorrente denuncia l’omessa pronuncia, da parte del giudice a quo, su alcune censure che essa avrebbe formulato in sede di appello incidentale: in particolare, i motivi non esaminati investirebbero la legittimità dell’avviso di liquidazione, sotto il profilo, l’uno, del difetto di motivazione per mancata enunciazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo sorreggono, prescritta dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e, l’altro, dell’omessa indicazione delle informazioni di cui al medesimo art. 7, comma 2, lett. a) e b).

1 motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per stretta connessione, sono inammissibili per difetto di autosufficienza, poichè nel ricorso non vengono riportati, nel loro contenuto testuale, i passaggi dell’appello incidentale nei quali la contribuente avrebbe riproposto le anzidette censure avverso l’atto impositivo, delle quali non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata (nè, prima ancora, è dimostrato che tali censure fossero contenute già nel ricorso introduttivo).

5. Ad analoga conclusione occorre pervenire in ordine al quinto e al sesto motivo, con i quali si denuncia l’inesistenza della notificazione dell’avviso impugnato, da un lato perchè eseguita “con semplice raccomandata con ricevuta di ritorno”, dall’altro per la mancata compilazione della relazione di notifica.

Anche in questo caso i motivi, da esaminare congiuntamente, si rivelano inammissibili per gli stessi motivi evidenziati al paragrafo precedente.

6. In conclusione, quanto al ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate, vanno rigettati il primo e il secondo motivo e dichiarati inammissibili gli altri.

7. In ordine al regolamento delle spese, mentre non vi è luogo a provvedere per quanto riguarda il ricorso nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, non costituitosi, la ricorrente va condannata alla rifusione delle spese in favore dell’Agenzia delle entrate, che si liquidano in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze.

Rigetta il primo e il secondo motivo del ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate e dichiara inammissibili i restanti.

Condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 5700,00, di cui Euro 5500,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2010

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