Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2002 del 26/01/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 26/01/2017, (ud. 10/11/2016, dep.26/01/2017),  n. 2002

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14487-2014 proposto da:

P.R. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GERMANICO 109, presso lo studio dell’avvocato ENRICO VOLPETTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE IBELLO, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

ARISTEA S.P.A. P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 2 presso lo studio dell’avvocato NICOLA PETRACCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FAUSTA DE DOMINICIS,

BRUNO PIACCI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 730/2013 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 03/07/2013 R.G.N. 333/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo;

udito l’Avvocato IBELLO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato SOLFANELLI ANDREA per delega Avvocato PIACCI BRUNO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI FRANCESCA che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordine accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 730/2013, depositata il 3 luglio 2013, la Corte di appello di Salerno, in accoglimento del gravame di Aristea S.p.A. e in riforma della sentenza del Tribunale di Salerno, respingeva la domanda, con la quale P.R. aveva chiesto che venisse dichiarata la illegittimità del licenziamento allo stesso intimato il 15/1/2004 in esito a procedura di mobilità ai sensi della L n. 223 del 1991.

La Corte richiamava, in primo luogo, a sostegno della propria decisione, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, per il quale, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale, gli spazi di controllo devoluti al giudice non riguardano i motivi specifici posti dall’impresa a giustificazione del programma di riduzione del personale, ma esclusivamente la correttezza procedurale dell’operazione, così che non possono trovare ingresso in sede giudiziale tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dalla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. La Corte di appello osservava, quindi, con riferimento alla dedotta illegittimità della procedura per mancata indicazione dei tempi di attuazione del programma di mobilità, che nella comunicazione di avvio la società aveva specificato che essa sarebbe avvenuta nel rispetto dei termini e dei modi di legge, con ciò ponendo un riferimento sufficiente ed esaustivo; che inoltre la mancata indicazione della presenza, all’interno dello stabilimento, di personale appartenente a cooperative esterne non aveva affatto vanificato la finalità tipica della comunicazione di avvio della procedura di mobilità e, in particolare, non aveva in alcun modo precluso la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte delle organizzazioni sindacali, le quali risultavano ben a conoscenza di tale circostanza; che infine, con riferimento alla dedotta violazione dei criteri di scelta e contrariamente a quanto sostenuto dal P., era confermato dalle concordi dichiarazioni dei testi escussi come la società datrice di lavoro avesse correttamente ritenuto che l’attività dal medesimo svolta fosse riferibile al profilo professionale degli “addetti a rilevazione dati, avanzamento produzione e gestione scorte” e cioè ad un profilo nell’ambito del quale dovevano essere individuati due destinatari di provvedimenti estintivi del rapporto di lavoro.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il P. con cinque motivi, assistiti da memoria; la società ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, deducendo violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, nonchè errata, omessa ed insufficiente motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale omesso di valutare l’esatto adempimento delle diverse fasi e formalità della procedura, nonostante le plurime e articolate contestazioni svolte al riguardo nel ricorso introduttivo del giudizio.

Con il secondo motivo, deducendo violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, nonchè omessa e/o insufficiente motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto sufficiente ed esaustivo il richiamo, contenuto nella comunicazione di avvio della procedura, alle modalità, anche temporali, previste dalla legge, senza dare corso ad uno specifico esame dell’avvenuto rispetto, nel caso di specie, delle indicazioni dalla stessa puntualmente prescritte.

Con il terzo motivo, deducendo ancora violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, omessa motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza per avere considerato irrilevante, ai fini della idoneità della comunicazione di avvio della procedura, l’omessa indicazione della presenza all’interno dello stabilimento di personale appartenente a cooperative esterne.

Con il quarto motivo, deducendo violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e omessa o insufficiente motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere escluso che la società avesse violato i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e ciò sulla base di un’erronea valutazione della posizione lavorativa ricoperta dallo stesso ricorrente e della sua appartenenza ai profili professionali reputati in esubero.

Con il quinto motivo, infine, deducendo violazione della L. cit., art. 4, commi 2 e 3, omessa motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza per non avere motivato circa l’omesso invio della comunicazione di apertura alle organizzazioni sindacali, nonostante che tale rilievo fosse stato svolto con il ricorso introduttivo.

Il ricorso risulta inammissibile, sotto diversi e concorrenti profili.

In primo luogo, i motivi proposti non individuano con chiarezza le singole doglianze enunciate cumulativamente nelle rispettive rubriche e, non consentendone un esame separato, non si conformano a quanto precisato dalle Sezioni Unite (sent. n. 9100/2015) in materia di ricorso per cassazione articolato in una molteplicità di censure.

Si rileva, inoltre, come essi, laddove denunciano una omessa o carente motivazione, non rispettano il modello normativo del nuovo vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 3 luglio 2013 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.

Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, i(come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.

Quanto, poi, alla violazione dell’art. 112 c.p.c., denunciata con i motivi primo, secondo, terzo e quinto, si deve richiamare il consolidato principio di diritto, secondo il quale l’omessa pronuncia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere in sede di legittimità attraverso la deduzione del relativo error in procedendo (art. 360, n. 4) e non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione, poichè queste ultime censure presuppongono che il giudice di merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa: cfr., fra le molte, Cass. n. 329/2016 (ord.).

In aggiunta ai rilievi che precedono si osserva che: (a) il primo, il secondo e il quinto motivo difettano comunque di autosufficienza, non risultando specificato se, come e in quale luogo siano state proposte alla cognizione del giudice di appello le questioni oggetto delle relative censure (in particolare: quanto al primo motivo, la violazione di specifiche prescrizioni di legge a garanzia del corretto espletamento della procedura; quanto al secondo, la mancata indicazione nella comunicazione di avvio di altri elementi diversi dai tempi di attuazione del programma di mobilità; con riferimento al quinto, la mancata trasmissione della comunicazione alle associazioni sindacali di categoria); (b) il terzo motivo si fonda sulla enucleazione di una parte soltanto della motivazione e, non confrontandosi con il più ampio e articolato complesso argomentativo seguito dal giudice di merito (cfr. sentenza, pag. 18), si rivela inidoneo ad investirne efficacemente la reale ratio decidendi; (c) il quarto motivo (anch’esso fondato sulla mera estrapolazione di una parte del corredo motivazionale: cfr. ancora sentenza impugnata, pp. 19-20), tende a sollecitare una riconsiderazione di profili di merito che è preclusa nella presente sede di legittimità.

In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2017

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