Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20018 del 22/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 22/09/2010, (ud. 07/07/2010, dep. 22/09/2010), n.20018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23247-2006 proposto da:

C.A., D.L.V., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEGLI SCIALOIA 3, presso lo studio dell’avvocato PERLINI

ITALICO, che li rappresenta e difende, giusta mandato a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI CAMPOBASSO, ASSOCIAZIONE

PROVINCIALE ALLEVATORI ISERNIA;

– intimati –

sul ricorso 24597-2006 proposto da:

APA – ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI DI CAMPOBASSO, in persona

del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato GHERA

EDOARDO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

C.A., D.L.V.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 687/2005 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 16/08/2005 r.g.n. 337/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato MASSIMO CLEMENTI per delega PERLINI ITALICO;

udito l’Avvocato GHERA EDOARDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Questa Corte di cassazione, con sentenza 19 aprile 2003, n. 6388, così ricostruì la vicenda oggetto della causa: ” D.L.V. e C.A., premesso che avevano prestato attività lavorativa alle dipendenze dell’Associazione Provinciale Allevatori di Isernia fino alla data del 14 ottobre 1996 nella quale erano stati licenziati per avere questa cessato la sua attività con il passaggio della attribuzione delle funzioni da essa esercitate all’Associazione provinciale allevatori di Campobasso, venendo così a configurarsi un’ipotesi di trasferimento d’azienda e comunque di operatività di quanto disposto dall’art. 42 del ccnl per i dipendenti delle organizzazioni degli allevatori, dei consorzi e degli enti zootecnici, convennero in giudizio le due associazioni chiedendo che, previa declaratoria di illegittimità dei licenziamenti, venisse ordinata la loro reintegrazione nel posto di lavoro presso la associazione di Campobasso. La pronuncia di rigetto della domanda del pretore fu gravata da appello, che il tribunale di Campobasso ha respinto con la sentenza indicata in epigrafe, con la quale si è rilevato che nella specie non era prospettabile il rilevato trasferimento d’azienda”.

La Corte di cassazione annullò la decisione del Tribunale di Campobasso, accogliendo il ricorso dei lavoratori per violazione dell’art. 2112 c.c., ritenendo che “si ebbe vero e proprio trasferimento d’azienda, essendosi sostituita alla associazione allevatori di Isernia, al fine della prosecuzione dell’attività da questa svolta e senza soluzione di continuità, la associazione allevatori di Campobasso alla quale vennero trasferiti sia pure attraverso l’anomala forma di una messa a disposizione – il complesso dei beni aziendali, la cui utilizzabilità sì rendeva indispensabile per rendere possibile il perseguimento, da parte della seconda, nella prestazione dei servizi che la prima non era più in grado di offrire”.

La Corte ritenne però impregiudicato uno specifico problema:

“l’accertamento in concreto della natura di impresa dei due enti, non affrontato dal giudice di merito, questione che dovrà risolvere quello di rinvio”. A tal fine formulò il seguente principio di diritto: “per quanto attiene al requisito della sussistenza di un’attività per “fine di lucro”, terrà conto che questo è ravvisatale anche nel più limitato concetto di mera redditività, nel senso di svolgimento di attività di prestazione di servizi contro il conseguimento di utili per la costituzione di un patrimonio economico sufficiente allo svolgimento della attività stessa e senza uno scopo di arricchimento personale”. La Corte d’Appello dell’Aquila, preso atto dell’ambito circoscritto del rinvio, ha ritenuto sussistente la natura imprenditoriale alla stregua dei criteri fissati nel principio di diritto.

Ha quindi dovuto individuare le conseguenze in ordine alla domanda di impugnativa del licenziamento.

A tal fine ha compito due affermazioni: ha ritenuto la “conseguente illegittimità del licenziamento” e sussistente “l’obbligazione solidale a carico di cedente e cessionaria (art. 2112 c.c., comma 2) di risarcire il danno da illegittimo licenziamento”. Ha quantificato tale danno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in misura di tre anni di retribuzione a decorrere dal licenziamento, con interessi e rivalutazione a decorrerere da ciascuna scadenza.

I due lavoratori ricorrono per cassazione per un unico motivo, così rubricato: “violazione e falsa applicazione degli artt. 2112, 1218, 1223, 1227 e 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 18; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

Il motivo si articola nelle seguenti censure: la Corte ha omesso di statuire e di motivare sul ripristino dei rapporti di lavoro che era stato espressamente richiesto.

La sentenza è errata laddove limita il risarcimento del danno a tre annualità retributive dalla data del licenziamento. Questa seconda censura si sottoarticola nei seguenti passaggi. Non era possibile applicare l’art. 1226 c.c., che consente il giudizio equitativo solo in assenza di parametri di valutazione, che in questo caso, invece, c’erano. La decisione è carente di motivazione laddove limita il risarcimento a tre annualità, mentre è errata la motivazione che fa riferimento alla durata del giudizio e alla impossibilità di approfondire gli eventi successivi.

La APA – Associazione provinciale allevatori di Campobasso, si difende con controricorso e propone ricorso incidentale, per un unico motivo, così rubricato.

“violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., e dell’art. 384 c.p.c.. Difetto di motivazione su di un punto decisivo”.

In concreto la censura consiste nell’addebito al giudice di rinvio di “aver dimenticato” che la Corte di cassazione le aveva affidato “il compito di accertare non solo la natura imprenditoriale dei due enti associativi … ma altresì se nel trapasso di attività in esame fosse ravvisabile il trasferimento del complesso organizzato dei beni dell’impresa nella sua identità obiettiva”.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Il ricorrente C. ha rinunziato al ricorso e la rinunzia è stata accettata. Il relativo giudizio deve essere pertanto dichiarato estinto.

Quanto al residuo ricorso di D.L.V., lo stesso deve essere rigettato, al pari del ricorso incidentale.

Partendo dall’esame del ricorso incidentale, logicamente prioritario, deve sottolinearsi che non è possibile riaprire questioni che la Corte di cassazione ha definito. Come infatti si è visto, la sentenza 19 aprile 2003, n. 6388, si è espressa sulla questione relativa al trasferimento d’azienda (parte della motivazione sul punto è stata su riportata) ed ha focalizzato il tema sul quale il giudice di merito non si era espresso e che il giudice del rinvio avrebbe dovuto affrontare, limitandolo alla sola questione della natura imprenditoriale dell’associazione. Tema sul quale la Corte dell’Aquila si esprime con valutazione di merito, applicando, senza vizi logici, il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione.

Quanto al ricorso principale, esso si fonda sul presupposto che, essendovi stato trasferimento d’azienda, la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare l’art. 2112 c.c. (nella versione vigente all’epoca), secondo cui il rapporto continua con l’acquirente ed il lavoratore conserva i suoi diritti (così il ricorso a pag. 7). Da tale presupposto il ricorrente trae la conseguenza che la sanzione civile applicabile è la nullità del recesso dichiarato dal datore di lavoro e motivato col semplice trasferimento.

Le conseguenze di questa impostazione prospettata dal ricorrente, sono quelle individuate dalla giurisprudenza, richiamata in ricorso, in forza della quale “il giudice di merito, accertata la fattispecie del trasferimento, deve emettere una sentenza di mero accertamento della persistenza del rapporto di lavoro, con la connessa disapplicazione del recesso nullo e l’eventuale condanna del datore, che abbia rifiutato le prestazioni lavorative, al risarcimento del danno da illecito contrattuale” (ricorso, pag. 7).

Tale impostazione, però, comporta che le prestazioni lavorative debbano essere state rifiutate, e quindi che le stesse debbano essere state offerte. Nel caso in esame il ricorso, pur richiamando il principio, prescinde del tutto dal problema della prova della offerta delle prestazioni. Ciò comporta la infondatezza del ricorso, nel suo nucleo centrale, per contraddizione interna, con riflessi caducatori a catena sugli altri motivi di ricorso concernenti l’entità del danno.

Il rigetto di entrambi i ricorsi, principale e incidentale, rende congrua la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi. Dichiara estinto per rinunzia il giudizio relativo ad C.A.. Nulla per le relative spese. Rigetta il ricorso principale di D.L.V. ed il ricorso incidentale dell’Associazione. Compensa le relative spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2010

 

 

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