Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20014 del 06/10/2016


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Cassazione civile sez. III, 06/10/2016, (ud. 10/06/2016, dep. 06/10/2016), n.20014

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21382/2013 proposto da:

C.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

BARBERINI 29, presso lo studio dell’avvocato MANFREDI BETTONI,

rappresentato e difeso dagli avvocati PIERMARIO DE SANTO, VALENTINO

NERBINI giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TACITO 41,

presso lo studio dell’avvocato ADOLFO ZINI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO ROSATI giusta procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 90/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 7/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/06/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

udito l’Avvocato PIERMARIO DE SANTO;

udito l’Avvocato ADOLFO ZINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.G., proprietaria di un immobile sito in Firenze e concesso in locazione, per uso commerciale, a C.D. con contratto del 20 settembre 2004, lamentando una morosità pari a Euro 2.320,00, intimò al conduttore sfratto per morosità e lo convenne dinanzi al Tribunale di Firenze per la convalida e per la condanna del conduttore al pagamento delle somme non corrisposte.

Il C. si costituì deducendo la nullità della clausola del contatto relativa al canone, in quanto la stessa prevedeva illegittimamente un canone scalettato “crescente” e rappresentò di aver sempre corrisposto maggiori somme rispetto al dovuto, di cui chiedeva, in via riconvenzionale, la restituzione, previa declaratoria di nullità della detta clausola.

Il Tribunale adito, con sentenza numero 4477/2011, rigettò la domanda attorea e, in accoglimento della domanda riconvenzionale, accertata la nullità L. n. 392 del 1978, ex artt. 32 e 79, della clausola sub 3) del contratto di locazione stipulato tra le parti, condannò l’attrice al pagamento, in favore del convenuto, delle somme corrisposte in eccedenza rispetto al canone dovuto, pari a complessivi Euro 10.668,00, oltre interessi.

Avverso tale decisione la G. propose appello, del quale, costituendosi, il C. chiese il rigetto.

La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 7 febbraio 2013, in accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza gravata, rigettò la domanda riconvenzionale del C. e condannò quest’ultimo a rimborsare alla G. la somma di Euro 17.220,17 corrisposta in esecuzione della sentenza di primo grado, con interessi legali dal dì del pagamento, nonchè alle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio di merito.

Avverso la sentenza della Corte territoriale C.D. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

Ha resistito con controricorso G.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, lamentando “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, il ricorrente sostiene che “nella motivazione non risulta compiuto un esame complessivo di tutte le clausole contrattuali” e che la Corte di merito ha affermato che “il canone è stato liberamente determinato senza tenere conto di tutti gli elementi utili a tale determinazione”. In particolare, a tale riguardo, il ricorrente assume che la sentenza impugnata “sarebbe viziata per omessa e/o comunque insufficiente motivazione in relazione al punto decisivo della controversia rappresentato dalla “presenza o meno nel contratto di elementi oggettivi predeterminati posti a base dell’aumento del canone”, che sarebbe “illogica la motivazione ove afferma che la predeterminazione del canone in aumento esula dalla fattispecie degli artt. 32 e 79, e non può mai avere intento elusivo” nonchè laddove si interpreta l’intenzione dei contraenti solo valutando l’art. 3 del contratto, prima parte, senza tener conto delle altre clausole.

Sostiene altresì il ricorrente che la sentenza impugnata non risulterebbe correttamente motivata neppure in relazione all’interpretazione del contratto anche alla luce del comportamento delle parti; nega che il canone sia stato liberamente concordato e che egli abbia adempiuto per cinque anni, avendo corrisposto nel 2007 e nel 2008 un canone inferiore e deduce l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui si tiene conto del solo adempimento del C. per cinque anni e non anche della tolleranza per quasi due anni della locatrice.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Si evidenzia che, essendo la sentenza impugnata in questa sede stata pubblicata in data 7 febbraio 2013, nella specie trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

Alla luce del nuovo testo della richiamata norma del codice di rito, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4), del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nella specie, con le censure formulate nell’illustrazione del motivo all’esame, il ricorrente, lungi dal proporre delle doglianze che rispettano il paradigma legale di cui al novellato art. 360, n. 5, del codice di rito, ripropone, come peraltro chiaramente indicato già nella rubrica del motivo all’esame, inammissibilmente lo stesso schema censorio del n. 5 nella sua precedente formulazione, inapplicabile ratione temporis.

2. Con il secondo motivo, si deduce “Violazione ed erronea applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 32 e 79, artt. 1344 e 1362 c.c.”.

Il ricorrente censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui la Corte di merito, distinguendo tra predeterminazione e aggiornamento del canone, conclude affermando che la rideterminazione in quanto tale esula dalla disciplina dell’art. 32 e dalla sanzione di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 79. Ad avviso del C., il ragionamento seguito dalla Corte di merito porterebbe a concludere nel senso che la “predeterminazione del canone in aumento è sempre lecita anche se il fine che le parti hanno perseguito è quello di un illecito aggiornamento del canone” laddove, invece, secondo la giurisprudenza di legittimità, una clausola convenzionale che prevedila determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ovvero preveda variazioni in aumento in relazione ad eventi oggettivi predeterminati deve ritenersi in generale legittima e che solo nell’ipotesi in cui costituisca un espediente diretto a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria è invece illegittima e, quindi nulla.

Si duole inoltre il ricorrente che la Corte territoriale abbia ritenuto che, ai fini della corretta interpretazione del contratto, non sia sufficiente il criterio letterale, che occorra valutare anche il comportamento successivo delle parti e che nella specie rileverebbe “il tranquillo adempimento del contratto per cinque anni”, Precisato che tale adempimento sarebbe smentito dai documenti di causa, il C. assume che, nell’interpretazione dei contratti, il criterio letterale prevale sugli altri e solo nel caso in cui tale criterio risulti insufficiente il giudice può ricorrere gradatamente e in via sussidiaria agli altri canoni interpretativi e che nel caso di specie la clausola 3) relativa alla pattuizione del canone era precisa, sicchè non sarebbe stato necessario ricorrere alla valutazione del comportamento delle parti ma avrebbe dovuto procedersi all’analisi di tutte le clausole del contratto ai sensi dell’art. 1363 c.c., a “ricostruire lo scopo che le parti si proponevano di raggiungere” con il contratto e avrebbe dovuto applicarsi il criterio di cui all’art. 1371 c.c..

2.1. il motivo è fondato. La Corte di merito, nel ritenere che nel caso di specie sussisteva una pattuizione del canone per i primi cinque anni determinato “legittimamente” e “liberamente” con un scalettamento in misura fissa ed era stato “tranquillamente” corrisposto nell’arco di cinque anni, che tale predeterminazione esulava dall’ipotesi di aggiornamento, delineata dal combinato disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, artt. 32 e 79, e che “tale previsione non aveva perciò intento elusivo, per cui non si ravvisa alcuna problematica circa la sua conformità o meno alla norma imperativa” non ha fatto corretta applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità e che va ribadito in questa sede, secondo cui, in materia di contratto di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, in virtù del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, la clausola che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto è legittima a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale ovvero appaia giustificata la riduzione del canone per un limitato periodo iniziale, salvo che la suddetta clausola non costituisca un espediente per aggirare la norma imperativa di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 32, circa le modalità e la misura di aggiornamento del canone in relazione alle variazioni del potere d’acquisto della moneta (Cass., ord., 17/05/2011, n. 10834).

3. Con il terzo motivo, lamentando “Violazione ed errata applicazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2, e lesione art. 24 Cost.. Appello incidentale”, il ricorrente rappresenta di aver inutilmente chiesto la rimessione in termini per proporre appello incidentale ed esplica le ragioni di tale richiesta. Deduce al riguardo il C. che avrebbe inteso proporre appello incidentale perchè la sentenza di primo grado, seppure in linea di principio favorevole, comportava nel quantum una parziale soccombenza. Al momento dell’appello il nuovo difensore si era accorto che la somma liquidata in sentenza era inferiore a quella spettante al C., in quanto il giudice di primo grado non aveva ordinato la restituzione di tutte le somme corrisposte in eccedenza, ovvero quelle somme versate dopo la notifica dell’atto di citazione, ma si era limitato alla domanda originariamente formulata, per proporre appello incidentale, la difesa del ricorrente avrebbe dovuto analizzare il fascicolo d’ufficio comprendente quello di parte ma tali fascicoli erano stati smarriti e ritrovati dal Tribunale in data 11 gennaio 2013, venerdì; il difensore nominato per il secondo grado aveva potuto costituirsi in appello e ritirare il fascicolo di parte solo in data 14 gennaio 2013 (v. ricorso p. 21), oltre il termine per poter proporre appello incidentale, essendo stata l’udienza fissata per il 16 gennaio 2013, in cui era stato pure letto il dispositivo, e il fascicolo d’ufficio era pervenuto alla Sezione Corte d’appello il 17 gennaio 2013. Sostiene il C. che la decadenza non era a lui imputabile sicchè la Corte territoriale avrebbe violato le norme indicate in rubrica e che la medesima Corte ben avrebbe potuto avvedersi della differenza tra l’importo richiesto in sede di comparsa conclusionale e la somma liquidata in prime cure comprendendo quale era l’oggetto dell’appello incidentale. Pertanto il ricorrente chiede a questa Corte, ove ritenga di decidere nel merito, di condannare la resistente alla restituzione della somma come precisato in sede di comparsa conclusionale ovvero, in caso di cassazione con rinvio, di disporre il riesame il nuovo giudice anche in merito alla quantificazione (della somma da restituire).

3.1. Il motivo è inammissibile, non avendo la parte ricorrente neppure riportato (riproducendone il tenore letterale) in quali esatti termini ha formulato la richiesta in questione alla Corte di merito nè ha specificamente censurato la ratti decidendi della sentenza impugnata su tale punto; peraltro, il ricorrente era, comunque, ben consapevole dell’entità delle somme versate alla controparte dopo la notifica dell’atto di citazione.

4. In conclusione, va dichiarata l’inammissibilità del primo e del terzo motivo del ricorso; va accolto il secondo motivo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.

PQM

La Corte dichiara l’inammissibilità del primo e del terzo motivo del ricorso; accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016

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