Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19993 del 13/07/2021

Cassazione civile sez. III, 13/07/2021, (ud. 04/02/2021, dep. 13/07/2021), n.19993

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 8106 del ruolo generale dell’anno 2017

proposto da:

D.C., (C.F.: (OMISSIS)), avvocato difensore di sé

stesso, ai sensi dell’art. 86 c.p.c.;

– ricorrente –

nei confronti di:

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in

persona del legale rappresentante pro tempore;

COMUNE DI MILANO – POLIZIA MUNICIPALE (C.F.: non indicato), in

persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Milano n.

10002/2016, pubblicata in data 9 settembre 2016;

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 4

febbraio 2021 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.C. ha proposto opposizione avverso una cartella di pagamento notificatagli dal locale agente della riscossione, per crediti di titolarità del Comune di Milano.

L’opposizione è stata rigettata dal Giudice di Pace di Milano.

Il Tribunale di Milano ha dichiarato inammissibile l’appello dell’opponente.

Il D. ricorre sulla base di tre motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli enti intimati.

E’ stata disposta la trattazione in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’erronea applicazione dell’art. 327 c.p.c. e della L. n. 742 del 1969, art. 3”.

Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4”.

I primi due motivi del ricorso sono connessi logicamente e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati.

Il Tribunale di Milano, rilevato che l’azione esercitata dal D. non era stata qualificata dal giudice di pace, l’ha qualificata come opposizione all’esecuzione ed ha, di conseguenza, escluso l’applicazione del regime della sospensione feriale dei termini nella verifica della tempestività del gravame da questi proposto.

Il ricorrente sostiene che, avendo egli proposto l’azione in primo grado con ricorso, nelle forme di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22 e non essendo mai stato disposto il mutamento del rito, in base al principio dell’apparenza la sua domanda avrebbe dovuto ritenersi implicitamente qualificata dal giudice di pace come opposizione a sanzioni amministrative e non come opposizione all’esecuzione, con conseguente applicabilità della sospensione feriale dei termini.

Tale assunto non può essere condiviso.

1.1 Va premesso che quella relativa alla qualificazione dell’azione proposta e quella relativa al rito applicabile alla controversia costituiscono questioni distinte e autonome.

La sospensione feriale dei termini opera (o meno) esclusivamente in ragione dell’oggetto della domanda, non in ragione del rito applicato; quindi, a tali fini, rileva esclusivamente la prima questione mentre non rileva in alcun modo la seconda. Con riguardo all’unica questione rilevante (cioè quella della qualificazione della domanda), secondo quanto espressamente affermato dal tribunale nella sentenza impugnata, il giudice a quo (cioè il giudice di pace) non ha espressamente qualificato l’azione proposta, onde tale qualificazione spettava al giudice ad quem.

Nel ricorso non è specificamente allegato che nella sentenza di primo grado vi fosse una qualificazione espressa della domanda in termini di opposizione a sanzione amministrativa, né vengono richiamati in modo puntuale eventuali specifici passaggi di detta sentenza che possano portare a ritenere che il giudice di pace abbia inteso effettivamente qualificare in tal senso l’opposizione proposta.

Secondo il ricorrente, la qualificazione della domanda da parte del giudice di pace sarebbe implicita e dovrebbe desumersi dal solo dato di fatto oggettivo che la controversia era stata introdotta con ricorso, era stata espressamente qualificata dalla parte attrice, nel ricorso stesso, come opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 e il giudice adito non ne aveva operato una diversa qualificazione espressa né aveva disposto il mutamento del rito.

Tutto ciò non è però sufficiente a far ritenere sussistente una implicita qualificazione della domanda da parte del giudice di primo grado, ai fini dell’applicazione del cd. principio dell’apparenza.

1.2 Secondo il costante indirizzo di questa Corte, ai fini dell’operatività del cd. principio dell’apparenza per l’identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale (il che in taluni casi è stato ritenuto incidere anche sull’eventuale applicazione del regime di sospensione feriale dei termini: cfr. ad es. Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 171 del 11/01/2012, Rv. 620864-01; Sez. 6 L, Ordinanza n. 21363 del 15/10/2010, Rv. 614792-01; Sez. 2, Sentenza n. 12524 del 21/05/2010, Rv. 613481-01), è necessario che il giudice “a quo” abbia inteso effettivamente qualificare l’azione proposta e non abbia compiuto, con riferimento ad essa, un’affermazione meramente generica (cfr.: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4507 del 28/02/2006, Rv. 588209-01; Sez. 3, Sentenza n. 11012 del 14/05/2007, Rv. 597778-01; Sez. 2, Sentenza n. 26919 del 21/12/2009, Rv. 610652-01; cfr. altresì: Sez. 6-2, Ordinanza n. 3338 del 02/03/2012, Rv. 621960-01; Sez. 3, Sentenza n. 12872 del 22/06/2016, Rv. 640421-01).

Anche una eventuale qualificazione implicita della domanda richiede, dunque, in ogni caso l’intenzione del giudice di operare una siffatta qualificazione e, di conseguenza, non può di regola affermarsi esclusivamente in base al rito di fatto applicato, in special modo se il giudice non abbia espressamente disposto la trattazione secondo un determinato rito in considerazione dell’oggetto della domanda, ma abbia semplicemente omesso di disporne il mutamento.

La trattazione della controversia secondo un determinato rito può in realtà anche dipendere da un errore nell’individuazione del rito applicabile a quella specifica domanda, o costituire una svista, o essere conseguenza di una mera omissione nel disporre il mutamento del rito erroneamente utilizzato dalla parte: in tutte queste ipotesi non vi è alcuna intenzione del giudice di qualificare l’oggetto della domanda proposta in funzione del corretto rito applicabile alla stessa secondo diritto.

Per le opposizioni esecutive non è del resto affatto esclusa in radice l’applicabilità di un rito speciale: l’art. 618 bis c.p.c., ad esempio, prevede espressamente l’applicabilità ad esse del rito speciale del lavoro ed in tal caso è comunque esclusa l’operatività della sospensione feriale dei termini.

E’ opportuno ribadire ancora che l’applicazione di un determinato rito (nella specie, secondo la prospettazione del ricorrente, proprio il rito speciale del lavoro, previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, per le opposizioni a sanzioni amministrative) non implica di per sé l’applicabilità o meno della sospensione feriale dei termini, che dipende solo dall’oggetto della domanda ma, al più, determina l’applicabilità del principio dell’ultrattività del rito nelle fasi di impugnazione (il che non incide in alcun modo sulla qualificazione dell’oggetto della domanda).

Dunque, in mancanza di una qualificazione della domanda, espressa o anche implicita, ma comunque intenzionale ed inequivocabile, cioè incompatibile con una diversa qualificazione, la mera applicazione di un rito speciale non può avere di regola alcun rilievo ai fini del principio cd. dell’apparenza nell’individuazione del mezzo di impugnazione della decisione e, a maggior ragione, ai fini dell’operatività del regime di sospensione feriale dei relativi termini.

Va in proposito affermato il seguente principio di diritto: “l’applicazione del rito speciale del lavoro ad una opposizione proposta avverso una cartella di pagamento notificata dall’agente della riscossione non comporta di per sé una implicita qualificazione della domanda in termini di opposizione a sanzione amministrativa della L. n. 689 del 1981, ex art. 22, ai fini del cd. principio dell’apparenza per l’identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro la relativa sentenza e, quindi, l’esclusione della qualificazione della domanda stessa, in sede di impugnazione, in termini di opposizione all’esecuzione e/o agli atti esecutivi, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., anche ai fini dell’applicazione o meno del regime di sospensione feriale dei termini, in mancanza di ulteriori elementi che portino a ritenere che il giudice a quo, mediante l’applicazione del rito speciale, abbia inteso effettuare una vera e propria qualificazione della domanda stessa”.

1.3 Non vi sono dubbi che la presente controversia abbia ad oggetto una opposizione esecutiva: il D. non ha contestato l’applicazione delle sanzioni amministrative di cui gli è stato intimato il pagamento con la cartella di pagamento opposta, ma ha dedotto vizi della cartella in questione e della procedura di riscossione, nonché l’avvenuta decadenza dal diritto alla riscossione stessa.

La qualificazione come opposizione esecutiva risulta quindi correttamente operata dal tribunale, quale giudice di secondo grado, e non è neanche specificamente contestata, anzi è in qualche modo condivisa dallo stesso ricorrente (cfr. pag. 4, righi 18-20 del ricorso), che ha del resto instaurato il giudizio di appello con atto di citazione e non con ricorso, cioè secondo il rito ordinario.

1.4 In definitiva, sulla base della corretta qualificazione della domanda operata dal giudice di secondo grado, è da ritenere conforme a diritto l’esclusione delle norme in tema di sospensione feriale ai fini del calcolo del termine perentorio per la proposizione dell’appello.

2. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’erronea applicazione nel giudizio di appello dei principi in materia di spese processuali ex art. 91 c.p.c., nonché all’erronea applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis”.

Il ricorrente contesta la sua condanna al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, sulla base dell’auspicato accoglimento dei primi due motivi del ricorso.

Non potendo trovare accoglimento detti motivi, per quanto sin qui esposto, anche quello in esame segue la medesima sorte.

3. Il ricorso è rigettato.

Nulla è a dirsi in ordine alle spese del giudizio, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– nulla per le spese.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 4 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2021

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