Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19987 del 10/08/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 10/08/2017, (ud. 22/06/2017, dep.10/08/2017),  n. 19987

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12 341 -2016 proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANGELO

BROFFERIO N. 6, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA BELLEI

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO FIORI;

– ricorrente –

contro

R.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 149, presso lo studio dell’avvocato CAROLA CICCONETTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE OLIVIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4451/2015 della CORTE di NAPOLI, depositata il

17/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/06/2017 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Fatto

RILEVATO

che:

R.P. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. chiedendo il risarcimento del danno cagionato dalla violazione delle regole di condotta dell’intermediario finanziario in relazione all’acquisto in data 21 dicembre 2000 di obbligazioni per l’importo di Euro 174.000,00 emesse dalla Repubblica Argentina che aveva poi, in data 23 dicembre 2001, dichiarato il default. Il Tribunale adito accolse la domanda condannando la convenuta al pagamento della somma di Euro 174.000,00. Avverso detta sentenza propose appello la banca. Con sentenza di data 17 novembre 2015 la Corte d’appello di Napoli rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale che non risultava provato l’adempimento degli obblighi previsti dagli artt. 21 ss. TUF e dagli art. 27 ss. Regolamento Consob n. 11522/1998, ed in particolare l’adempimento degli obblighi informativi circa le caratteristiche specifiche dello strumento finanziario e la natura e i rischi dell’operazione e che la scheda prestampata circa il rifiuto da parte dell’investitore di fornire informazioni in ordine alla propria esperienza e propensione al rischio era generica e laconica (peraltro ove l’investitore non fornisca informazioni l’intermediario ha l’onere di attingerle aliunde e comunque deve considerare il profilo di propensione al rischio più basso, mentre i titoli argentini erano un investimento altamente speculativo). Aggiunse il giudice di appello, con riferimento alla questione del nesso eziologico fra condotta e danno, che la corretta conoscenza del grado di rischiosità avrebbe indotto il R. ad astenersi dall’investimento. Osservò inoltre la Corte, quanto alla denuncia di ingiusta locupletazione che sarebbe derivata dalla coincidenza del danno liquidato con la somma investita, che la banca non aveva fornito alcuna prova circa l’eventuale rendimento dei titoli dall’epoca dell’acquisto a quella del giudizio, nè aveva specificato se ed in quale misura all’epoca della loro scadenza tali titoli avessero ancora un valore residuo tale da poter compensare la perdita subita, dovendo peraltro l’appellante fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure come affermato da Cass. n. 1462 del 2013 e n. 15660 del 2007, e che non era stata neanche allegata l’effettiva attuazione di un piano di rientro da parte dello Stato Argentino e dunque per l’investitore la possibilità di riottenere le somme investite aderendo a tale piano.

Ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e resiste con controricorso la parte intimata. Il relatore ha ravvisato un’ipotesi d’inammissibilità dei primi due motivi e di manifesta infondatezza del terzo motivo del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta la ricorrente che il giudice di appello nulla ha motivato circa la dichiarazione del R. di voler dare comunque corso all’operazione nonostante fosse stato avvertito della non adeguatezza della stessa.

Il motivo è inammissibile. La denuncia del vizio motivazionale è stata formulato non sulla base dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma secondo la previgente formulazione. L’inammissibilità del motivo persiste anche ove si acceda ad un lettura del motivo in termini di denuncia di omesso esame di fatto controverso e decisivo. Il fatto in questione sarebbe la dichiarazione dell’investitore di voler dare comunque corso all’operazione nonostante la non adeguatezza della stessa. Nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053). La ricorrente non ha assolto l’onere di specifica indicazione della collocazione processuale del fatto e delle modalità di controversia sul punto. Il fatto in questione risulta anche carente di decisività.

In primo luogo non risulta specificatamente indicato se la segnalazione di non adeguatezza dell’operazione di investimento risulti dotata dei suoi requisiti. Essa deve infatti contenere specifiche indicazioni concernenti: 1) la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto; 2) la precisa individuazione del soggetto emittente; 3) il “rating” nel periodo di esecuzione dell’operazione ed il connesso rapporto rendimento/rischio; 4) eventuali carenze di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo (situazioni cd. di “grey market”); 5) l’avvertimento circa il pericolo di un imminente “default” dell’emittente (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1376).

In secondo luogo va evidenziato che il giudice di merito ha accertato il mancato adempimento da parte dell’intermediario finanziario degli obblighi informativi derivanti dalla legge e dal regolamento Consob. La dichiarazione resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza circa la natura di “operazione non adeguata” rispetto al suo profilo d’investitore dell’investimento effettuato dalla banca, non è sufficiente a far ritenere dimostrato, da parte dell’intermediario, l’adempimento degli obblighi informativi imposti dall’art. 29 del regolamento Consob (Cass. 25 settembre 2014, n. 20178). Una volta che la banca, a fronte della contestazione del cliente, non abbia fornito la prova dell’adempimento degli obblighi informativi, la segnalazione di inadeguatezza dell’operazione non vale a ritenere assolti gli obblighi ricadenti sull’intermediario (cfr. Cass. 6 giugno 2016, n. 11578).

Con il secondo motivo si denuncia insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la ricorrente che il danno da risarcire non si identifica con il costo sopportato nel compiere l’operazione ma nella perdita di valore, in relazione al rischio che l’investitore si è indebitamente accollato per la mancanza di informazione, non imputabile alla stesso investitore. Questi infatti, aggiunge la ricorrente, dal momento in cui si sarebbe potuto rendere conto delle rischiosità con l’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto procedere, in mancanza di impedimenti, al disinvestimento.

Il motivo è inammissibile. Benchè la rubrica rechi la denuncia del vizio motivazionale, peraltro in modo irrituale, il contenuto della censura attiene al mancato rispetto della regola di liquidazione del danno. Va rammentato che effettivamente nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, il danno risarcibile consiste nell’essere stato posto a carico di detto cliente un rischio, che presumibilmente egli non si sarebbe accollato. Tale danno può essere liquidato in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento dell’acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria, solo se non risulti che, dopo l’acquisto, ma già prima della proposizione di detta domanda, il cliente, avendo avuto la possibilità con l’uso dell’ordinaria diligenza di rendersi autonomamente conto della rischiosità dei titoli acquistati, nè sussistendo impedimenti giuridici o di fatto al disinvestimento, li abbia, tuttavia, conservati nel proprio patrimonio: nel qual caso, il risarcimento deve essere commisurato alla diminuzione del valore dei titoli tra il momento dell’acquisto e quello in cui l’investitore si è reso conto, o avrebbe potuto rendersi conto, del loro livello di rischiosità (Cass. 29 dicembre 2011, n. 29864; 31 dicembre 2013, n. 28810). Come precisato dalla giurisprudenza, la decisione di conservare nel proprio patrimonio titoli della cui rischiosità l’investitore non era stato doverosamente informato al momento dell’acquisto è riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, che esclude la risarcibilità dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare con ordinaria diligenza (Cass. 29 dicembre 2011, n. 29864). Il concorso del fatto colposo del creditore, secondo la previsione di cui all’art. 1227 c.c., comma 2 al fine di escludere il risarcimento per i danni che il creditore medesimo avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, integra una eccezione in senso stretto, la quale, pertanto, deve essere fatta valere dal debitore in sede di merito, e non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per Cassazione (Cass. 29 luglio 2003, n. 11672; 7 febbraio 1979, n. 820; il debitore deve inoltre fornire la prova che il creditore avrebbe potuto evitare i danni, di cui chiede il risarcimento, usando l’ordinaria diligenza – Cass. 27 luglio 2015, n. 15750).

In violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la ricorrente ha omesso di indicare in modo specifico se ed in quale sede processuale l’eccezione ai sensi dell’all’art. 1227 c.c., comma 2, sia stata sollevata nel giudizio di merito.

Con il terzo motivo si denuncia insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e violazione dell’art. 2697 c.c.. Osserva la ricorrente, a proposito dell’accollo in capo all’appellante dell’onere della dimostrazione della fondatezza delle singole censure, che la configurazione processuale del giudizio di appello non implica una sorta di inversione dell’onere della prova e che ritenere che la banca appellante abbia l’onere di provare il valore residuo dei titoli significa porre a carico della stessa l’onere di fornire la prova del diritto del R..

Il motivo è manifestamente infondato. Il giudice di merito ha fatto applicazione del principio di diritto secondo cui nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata (“novum judicium”), ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (“revisio prioris instantiae”): ne consegue che l’appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello, e su di lui ricade l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado (Cass. Sez. U. 23 dicembre 2005, n. 28498; Sez. U. 8 febbraio 2013, n. 3033; 25 novembre 2013, n. 26292 e 9 giugno 2016, n. 11797).

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 – quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2017

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