Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19975 del 10/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 10/08/2017, (ud. 29/03/2017, dep.10/08/2017),  n. 19975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19303-2011 proposto da:

R.M.L. C.F. (OMISSIS), in qualità di titolare

dell’omonima ditta, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE

PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO ANGELETTI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITO VANNUCCI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS)

in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati

ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, giusta delega in

atti;

– controricorrenti –

e contro

ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL

LAVORO C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 524/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 05/05/2011 R.G.N. 102/2010.

Fatto

RILEVATO

che con cartella esattoriale l’INPS, a seguito di accertamento ispettivo, chiedeva a R.L.M. i contributi per il periodo febbraio 2003-novembre 2006 relativamente a 12 lavoratrici a progetto addette a mansioni di telefoniste per la vendita di prodotti cosmetici, ravvisando nella prestazione altrettanti rapporti di lavoro subordinato; che accolta l’opposizione dell’intimata, proposto appello dall’INPS, la Corte d’appello di Firenze (sentenza 16.05.11) accoglieva l’impugnazione, ritenendo (a) insussistente il “progetto”, in assenza del carattere della specificità dell’apporto richiesto dalla legge e considerando (b) l’inserimento delle predette lavoratrici nell’attività aziendale, senza il quale la ditta non avrebbe conseguito risultati;

che la stessa Corte riteneva, pertanto, applicabile del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 e l’esistenza della subordinazione;

che propone ricorso la R. con quattro motivi;

che l’Inps resiste con controricorso, mentre rimane solo intimato l’Inail.

Diritto

CONSIDERATO

1. che col primo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,2367,1371,2697 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61,62 e 69, nonchè per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente contesta nel merito l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte in ordine alla ritenuta natura subordinata dei rapporti di lavoro sulla scorta della rilevata coincidenza tra l’attività indicata nei contratti e l’oggetto dell’impresa;

che tale motivo è infondato in quanto involge una mera rivisitazione del merito istruttorio già scrutinato dalla Corte territoriale con motivazione adeguata ed esente da vizi di ordine logico-giuridico, come tale sottratta ai rilievi di legittimità;

che, infatti, dopo aver esaminato i verbali ispettivi e l’allegata documentazione, nonchè gli esiti della prova testimoniale, la Corte fiorentina è addivenuta al convincimento che l’attività di “telefoniste” svolta dalle lavoratrici che operavano per l’odierna ricorrente non era riconducibile, per le caratteristiche che la contraddistinguevano e per le modalità di esecuzione, a quella di una collaborazione a progetto, dovendo le medesime seguire le direttive organizzative della titolare, dalle quale avevano ricevuto gli elenchi delle persone da contattare telefonicamente per le proposte di vendita, presso i locali aziendali dal lunedì al sabato, dalle ore 9,00 alle ore 20,00, e percependo un compenso fisso mensile, oltre un importo aggiuntivo legato al volume delle vendite;

2. che col secondo motivo, proposto per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg., artt. 2094,2222 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61, 62 e 69 e degli artt. 3,41,101,104 Cost., nonchè per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente contesta l’interpretazione data dalla Corte d’appello all’art. 69, ritenendo che, comunque, la norma consentirebbe di provare che il lavoro, pur senza progetto, ha carattere autonomo;

che il motivo è infondato in quanto la Corte territoriale, nell’applicare la normativa di cui del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61,62 e 69, si è attenuta ai principi di legittimità in base ai quali il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 61, prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione, con la conseguenza che il progetto concordato non può consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l’ordinaria attività aziendale (v. Cass. sez. lav. n. 17636 del 6.9.2016, nonchè Sez. L, n. 15922 del 25.6.2013, secondo cui, nonostante il “nomen juris” adottato dalle parti, era da escludere la configurabilità di un lavoro a progetto, mentre era da ravvisare la subordinazione del lavoratore tenuto a promuovere e vendere quotidianamente un predeterminato numero minimo di prodotti, visitando dati clienti);

che, infatti, la Corte territoriale ha rilevato che l’attività in questione coincideva puramente e semplicemente con l’oggetto dell’impresa (“commercio al dettaglio per corrispondenza di articoli di cosmetica e di cura della persona” come da certificato camerale), difettando, dunque, quella “specificità” che la legge richiede quale connotato essenziale nel progetto che è alla base della forma negoziale in esame, nonchè l’autentico coordinamento con l’attività dell’impresa medesima;

3. che col terzo motivo, formulato per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1369,1371 c.c., artt. 414 e 345 c.p.c., D.Lgs n. 61 del 2000, artt. 1,2 e 9,nonchè per vizio di motivazione, la ricorrente ritiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto ridurre il quantum in ragione del numero effettivo di ore di lavoro prestate;

che anche tale motivo è infondato, atteso che la Corte di merito ha correttamente rilevato la novità e, di conseguenza, la tardività della questione che non era stata prospettata in primo grado;

che non è condivisibile la tesi della ricorrente secondo la quale la richiesta di riduzione del quantum dell’oggetto della opposta pretesa creditizia doveva ritenersi compresa nella richiesta di rigetto della domanda di controparte, atteso che questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. Sez. Lav. n. 4051 del 18.2.2011) che “nel rito del lavoro, il convenuto ha l’onere della specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., comma 1 e art. 416 c.p.c., comma 3 e tale onere opera anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito, poichè la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l’affermazione dell’erroneità della quantificazione, mentre la contestazione dell’esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, sia pure subordinata, in relazione alle caratteristiche generali del rito del lavoro, fondato su un sistema di preclusioni diretto a consentire all’attore di conseguire rapidamente la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato. Ne consegue che la mancata o generica contestazione in primo grado rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice, e la contestazione successiva in grado di appello è tardiva ed inammissibile” (in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 10116 del 18.5.2015);

che col quarto motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 112,325,326 e 327 c.p.c., nonchè per vizio di motivazione, la ricorrente osserva che l’INAIL, presente in primo grado anche se contumace, non aveva proposto appello, di modo che avrebbe dovuto darsi atto che nei suoi confronti l’opposizione era definitivamente accolta;

che pure quest’ultimo motivo è infondato dal momento che, rimasto contumace l’INAIL nel giudizio di appello, non essendo stato devoluta al giudice di secondo grado la questione concernente la sua pretesa creditizia per mancanza di impugnazione, la censura in questione è oggi inammissibilmente proposta, traducendosi essa nella richiesta di adottare una statuizione su una questione su cui si è ormai creato il giudicato;

che, pertanto, il ricorso va rigettato;

che le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza della ricorrente che dovrà corrisponderle all’Inps, mentre nulla è dovuto a tale titolo all’Inail che è rimasto solo intimato nel presente giudizio.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nella misura di Euro 3200,00, di cui Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti dell’Inail.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2017

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