Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1997 del 28/01/2010

Cassazione civile sez. I, 28/01/2010, (ud. 19/10/2009, dep. 28/01/2010), n.1997

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura Generale dello

Stato e presso gli Uffici di questa domiciliato in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

D.C.G.;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 19

febbraio 2007.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19 ottobre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che il relatore designato, nella relazione depositata il 30 marzo 2009, ha formulato la seguente proposta di definizione:

“Il Ministero della giustizia ha proposto ricorso per cassazione il 2 luglio 2007 sulla base di tre motivi avverso il provvedimento della Corte d’appello di Roma depositato il 19 febbraio 2007 con cui il Ministero della giustizia veniva condannato ex L. n. 89 del 2001 al pagamento, in favore di D.C.G., di un indennizzo di Euro 10.000,00, oltre interessi e spese processuali per l’eccessivo protrarsi di un processo civile svoltosi dinanzi al Tribunale di Benevento.

Il ricorso reca motivi seguiti da quesito di diritto, come imposto dall’art. 366 bis c.p.c.. L’intimato non ha resistito con controricorso. Il decreto impugnato ha accolto la domanda di equo indennizzo per danno non patrimoniale nella misura dianzi specificata, avendo accertato una durata irragionevole del processo di dieci anni.

Il primo motivo – che contesta l’automatismo nel riconoscimento del danno non patrimoniale da ritardo – è manifestamente infondato; e manifestamente infondati sono del pari gli altri motivi, con cui si denuncia violazione delle norme sull’onere della prova.

La Corte d’appello ha esattamente affermato che il danno non patrimoniale si verifica nella normalità dei casi senza necessità di specifica prova, sicchè lo stress da attesa va presunto, secondo l’id quod plerumque accidit. Così decidendo, la Corte d’appello si è attenuta al principio per cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali:

sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa” – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. Siffatta lettura della norma di legge interna – oltre che ricavabile dalla “ratio” giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori (dove è sottolineata la finalità di apprestare in favore della vittima della violazione un rimedio giurisdizionale interno effettivo, capace di porre rimedio alle conseguenze della violazione stessa, analogamente alla tutela offerta nel quadro della istanza internazionale) – è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata detta violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con la specifica enunciazione contenuta nell’art. 111, tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale.

Il Ministero neppure indica quali sarebbero le circostanze che la Corte d’appello avrebbe dovuto valorizzare e che, nel caso concreto, farebbero positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla parte istante”.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, alla quale non sono stati mossi rilievi critici, sono condivisi dal Collegio;

che, quindi, il ricorso deve essere rigettato;

che nessuna statuizione sulle spese deve essere emessa, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2010

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